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di Emanuela Pessina
BERLINO. Un vertice all’insegna dell’armonia, quello di Berlino tra Mario Monti e Angela Merkel, ma che non ha dato nessun impulso particolare alle Borse e, a livello macroeconomico, è passato quasi inosservato. Perché, in effetti, la recente visita berlinese del premier italiano alla Cancelliera si é conclusa senza un vero e proprio confronto: ancora una volta, le decisioni importanti sono rimandate a un futuro appuntamento. Ancora una volta i leader europei temporeggiano ed evitano di affrontare direttamente i nodi della crisi, concentrandosi su se stessi e sulle problematiche interne.
Monti non ha mancato di presentare le sue prospettive per la ripresa dell’economia europea in maniera decisa, senza tuttavia suscitare discussione nonostante in chiaro disaccordo con la caparbia (e nota) posizione di Angela Merkel. Non ha posto alla Germania un vero e proprio aut-aut, ma ha fatto capire perfettamente che in cambio di ulteriori sacrifici, l'Italia vuole investimenti e un costo del denaro più basso.
Ancora una volta il capo del governo italiano ha ribadito i presupposti fondamentali per la sopravvivenza della moneta unica, cioè l’innalzamento miliardario del fondo di salvataggio e gli eurobonds, due interventi che eviterebbero ulteriori speculazioni nei confronti degli Stati più deboli. Monti ha inoltre chiesto maggiori investimenti che vadano a sostituire futuri tagli e misure di risparmio. Tutte idee poco gradite alla Germania di Angela Merkel, il maggior contribuente EU per quel che riguarda ogni possibile meccanismo di finanziamento e l’azionista di maggioranza per ogni modifica alle prerogative della banca centrale europea.
Eppure, nonostante l'atteggiamento sereno dei due leader, non ci sono stati dettagli importanti che abbiano in qualche modo influenzato i mercati. Perché Mario Monti, in realtà, è andato a Berlino per presentare alla Cancelliera la dolorosa manovra cui sta sottoponendo l’Italia, una sorta di lasciapassare necessario al Belpaese per tornare ad avere una voce in Europa, oltre che un’affermazione di credibilità per il suo Governo. Una manovra che è, nel frattempo, già diventata legge, ha sottolineato diverse volte il Presidente del Consiglio, quasi a volersi distaccare da quel pregiudizio tutto europeo nei confronti di un’Italia abituata a parlare senza riuscire ad arrivare mai al dunque.
E probabilmente, a giudicare dai commenti rilasciati a Berlino, Monti ha raggiunto il suo scopo. “L'Italia ha fatto molto sul fronte delle riforme”, ha commentato Angela Merkel, la più austera e potente tra i leader europei, “le misure adottate sono molto importanti.” Le parole della Merkel riecheggiano su tutti i giornali italiani: un apprezzamento strappato alla Cancelliera vale molto di questi tempi.
In un’intervista rilasciata al quotidiano tedesco Die Welt, Monti ha parlato poi di un’Italia armonica e unita, che sostiene il piano di salvataggio del suo Governo: questo è quanto emerge dai sondaggi, ha spiegato il Presidente del Consiglio italiano alla Germania.
Particolarmente evasive le risposte circa l’effettivo appoggio della politica italiana al suo Governo, che rimane comunque di natura tecnica. E quando Die Welt chiede conto di eventuali interventi sui costi esagerati dell’apparato politico, uno tra i più cari al mondo, Monti si tira indietro. Il quotidiano tedesco fa un ironico riferimento al capo stenografo del Parlamento italiano, che guadagna poco meno del re di Spagna: Monti ha spiegato allora che in questo campo il Governo ha potere limitato, perché le decisioni spettano al Parlamento stesso.
L’Italia non si sente sacrificata all’Europa, ha continuato Monti nell’intervista, ma è pronta a sacrificarsi per il bene dei propri figli (di sicuro non saranno comunque i soliti privilegiati a doversi sacrificare per i propri figli, si può leggere fra le righe). La protesta anti-Europa potrebbe nascere nel momento in cui gli italiani non vedono miglioramenti tangibili e la parola chiave per ottenere dei risultati è ora crescita economica. Le decisioni concrete si vedranno tuttavia il 20 gennaio, quando i leader si incontreranno nuovamente a Roma per “continuare la cooperazione”: Monti nell'occasione si presenterà con un altro scalpo strappato agli italiani?
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di Michele Paris
Qualche giorno fa, la Corte Suprema di Israele ha confermato la legittimità di una legge discriminatoria e anti-democratica, emanata nel 2003 dalla Knesset (Parlamento), che restringe drasticamente le possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana. Con la sentenza di mercoledì scorso è stato cioè respinto un ricorso presentato da Adalah, un’associazione che si batte per i diritti della minoranza araba di Israele, lasciando in vigore una misura che nega la naturalizzazione automatica dei coniugi di cittadini israeliani, in larga misura di origine palestinese.
A sostegno della legge sulla cittadinanza si sono espressi sei giudici dell’Alta Corte, mentre cinque ne hanno chiesto l’annullamento. Per la maggioranza, la naturalizzazione dei palestinesi tramite il matrimonio rappresenta una minaccia per la sicurezza del paese: per questo, nelle parole della sentenza, “il diritto di costruire una famiglia non deve necessariamente realizzarsi all’interno dei confini di Israele”.
A sottolineare la natura profondamente razzista della legge ratificata dalla Corte Suprema, così come la politica di apartheid perseguita dalla classe dirigente israeliana, sono state le parole del giudice Asher Grunis che ha votato con la maggioranza, secondo il quale “i diritti umani non possono essere una ricetta per il suicidio della nazione”. Diametralmente opposta è stata invece l’opinione della minoranza, espressa dalla presidente della Corte, Dorit Beinisch, per la quale “la legge andrebbe soppressa, poiché viola il diritto di uguaglianza”.
Secondo i dati ufficiali, tra il 1994 e il 2002, circa 135 mila palestinesi furono naturalizzati grazie al matrimonio e i loro coniugi erano in gran parte arabi israeliani. Per porre un freno a questa tendenza, nel maggio del 2002 il governo decise di sospendere la concessione della cittadinanza automatica. L’anno successivo, la Knesset prese in mano l’iniziativa approvando una nuova legge temporanea che limitava sensibilmente il percorso verso la cittadinanza per coloro che avrebbero sposato residenti di Israele. Il provvedimento è stato successivamente prorogato in due occasioni, mentre nel 2007 le associazioni per i diritti civili hanno dato inizio ai procedimenti legali per chiederne il ritiro.
La legge in questione, in teoria, esclude dalle restrizioni i palestinesi uomini con più di 36 anni e le donne oltre i 25. Le limitazioni imposte rimangono però spesso insormontabili, tanto che, secondo un avvocato israeliano citato dalla Associated Press, nel 2011 solo 33 richieste di esenzione dalla legge sono state approvate su 3.000 presentate. Per il Jerusalem Post, inoltre, i coniugi residenti in Cisgiordania sono del tutto esclusi dalla possibilità di ottenere la cittadinanza israeliana.
Le reazioni alla sentenza da parte della società civile e di alcuni politici dell’opposizione in Israele sono state molto dure. Per la parlamentare del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal-On, la quale aveva partecipato alla presentazione del ricorso, il verdetto rappresenta una macchia indelebile per Israele. Secondo Adalah, poi, l’alta corte ha approvato una legge che “non esiste in nessun paese democratico del pianeta” e che “proibisce ai cittadini di avere una famiglia in Israele unicamente sulla base della loro appartenenza etnica”. Inoltre, per la stessa organizzazione, “questa sentenza dimostra come i diritti civili della minoranza araba in Israele siano stati erosi in maniera pericolosa e senza precedenti”.
Un altro co-sponsor del ricorso alla Corte Suprema era l’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI), i cui avvocati hanno affermato che “la maggioranza dei giudici ha messo il proprio sigillo su una legge razzista che metterà a repentaglio le vite di famiglie la cui sola colpa è quella di avere sangue palestinese nelle vene”.
Gli arabi costituiscono circa un quinto degli oltre sette milioni di abitanti di Israele. Altri tre milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e a Gaza. Numerose sono le famiglie che sono state divise da linee di demarcazione artificiali stabilite dopo le guerre tra israeliani e palestinesi, così che i matrimoni tra gli arabi che risiedono da una parte e dall’altra del confine sono molto diffusi.
Per una parte degli israeliani, tuttavia, il conferimento della cittadinanza ai palestinesi costituisce una minaccia all’identità ebraica dello Stato e la sentenza di mercoledì della Corte Suprema asseconda appunto queste tendenze retrograde e reazionarie presenti nel paese.
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di Alessandro Iacuelli
Un esperto nucleare che lavorava nel sito di Natanz, specializzato nell'arricchimento dell'uranio, è stato ucciso ieri a Teheran in un attentato. Mustafa Ahmadi Roshan era nella sua auto quando una moto si è avvicinata piazzando una bomba magnetica sulla vettura che, secondo testimoni, è esplosa subito dopo causando anche un secondo morto ed il ferimento di altre due persone. Lo riferiscono i media iraniani, precisando che l'attentato è avvenuto nella parte nord della città, vicino all'Università.
Mustafa Ahmadi Roshan, professore universitario, lavorava al sito si arricchimento nucleare di Natanz, dove sono presenti oltre 8000 centrifughe. Lo ha riferito l’agenzia Mehr. L'attentato, avvenuto intorno alle 8.30 (le 6 in Italia) è stato messo a segno con un ordigno magnetico attaccato alla vettura da un motociclista.
Ahmadi Roshan era docente di industria del petrolio e supervisionava un dipartimento nell’impianto nucleare per l’arricchimento dell’uranio a Natanz, nella provincia di Isfahan, nell'Iran centrale. Aveva 32 anni, si era laureato una decina di anni fa in Chimica degli Idrocarburi presso un altro ateneo della capitale iraniana, l'Università Tecnologica "Sharif".
E' l'ennesimo episodio simile. Il 12 gennaio 2010, un altro scienziato nucleare di fama internazionale, Masoud Ali Mohammadi, era stato ucciso dall'esplosione di una moto-bomba mentre usciva di casa a Teheran. Il 23 luglio 2011 era toccato al fisico nucleare Daryoush Razaei, 35 anni, assassinato a Teheran da sconosciuti in motocicletta che gli hanno sparato davanti a casa. La moglie era con lui ed è stata ferita. Il 29 novembre scorso, è toccato a uno dei "cervelli" della ricerca atomica iraniana, il fisico nucleare Majid Shahriyari, ucciso da un'esplosione nella sua auto a Teheran in circostanze simili all'omicidio di stavolta: una bomba attaccata al finestrino della sua auto.
L'uccisione di Mustafa Ahmdi-Roshan potrebbe quindi essere solo l’ultimo fino ad ora degli omicidi che negli ultimi anni ha visto scienziati e docenti iraniani del settore nucleare. Ogni volta Teheran ha accusato Israele e l’Occidente di esserne responsabili. Non a caso, il vice governatore della provincia di Teheran, Safar Ali Baratloo, ha subito puntato l’indice contro Israele come mandante dell’omicidio. "La bomba magnetica era dello stesso tipo di quelle già utilizzate in precedenza per gli assassinii di altri scienziati, ed è opera dei sionisti", ha accusato.
Di sicuro la pista interna è da escludere e anche questo omicidio, per stile e modalità somiglia ad una vera e propria esecuzione e fa sentire odore di servizi segreti, occidentali o israeliani, da chilometri di distanza. Altro che sanzioni, controlli dell'IAEA, negoziati: la strada scelta dal mondo occidentale per contrastare il programma nucleare iraniano assomiglia molto di più a quella di un serial killer che lascia dietro di se una lunga scia di sangue.
D'altronde, l'uccisione degli scienziati racchiude una serie di messaggi precisi. Messaggi politici. Il primo messaggio è diretto: gli avversari di Teheran, Usa e Israele in testa, stanno facendo di tutto per ostacolare il programma atomico, e non solo dal punto di vista diplomatico. Il corollario al messaggio è che la lista di ricercatori e scienziati da eliminare fisicamente non è ancora terminata.
Il secondo messaggio è rivolto al regime iraniano: la serie di attacchi, comprese le misteriose esplosioni in fabbriche e siti strategici, sono una sfida agli apparati di sicurezza. Il governo di Teheran ha creato una speciale unità per proteggere le figure legate al programma nucleare, ma fino ad ora non sembra particolarmente efficiente; é quindi probabile che il delitto avrà delle conseguenze politiche interne e che le prossime mosse vedranno una decisa ristrutturazione dell’apparato di sicurezza.
E proprio in tema di sicurezza interna si colloca un altro messaggio implicito: i servizi segreti non solo occidentali, ma anche quelli israeliani e forse anche quelli sauditi, hanno possibilità di agire in Iran con una certa frequenza ed una discreta impunità. Hanno dei loro team in loco e probabilmente contano su elementi locali, arruolati tra chi detesta gli ayatollah.
E' interessante notare che lo scienziato è stato ucciso con un modus operandi già impiegato in passato con efficacia: i killer si avvicinano in moto e applicano una bomba magnetica alla vettura del bersaglio. Per eseguire l'azione bisogna essere professionisti ben addestrati, conoscere bene il territorio, soprattutto per garantirsi la fuga, e contare su una rete d'appoggio locale operativa.
In ogni caso, l'obiettivo degli omicidi è spargere terrore e creare una forte pressione psicologica, accusando parallelamente l'Iran di essere lui a spargere terrore. O a minacciare di farlo. Chiaramente, questo nuovo episodio alzerà ancor più la tensione in un'area già surriscaldata dalle provocazioni politiche di tutte le parti in gioco, con UE e USA pronti a comminare nuove sanzioni e l'Iran pronto a chiudere lo stretto di Hormuz. La risposta di Teheran, in qualche modo è inevitabile, perché in questa guerra (perché di guerra si tratta, altro che azioni diplomatiche) nessuno è disposto a risparmiare colpi.
La prima reazione di Teheran è stata quella di riunire la commissione per la Sicurezza nazionale e la Politica estera del Parlamento (Majlis) con la partecipazione delle autorità governative in materia di sicurezza e intelligence. Gli studenti delle università di Teheran hanno indetto per sabato una manifestazione contro l'attentato e hanno rinnovato il loro sostegno alla Guida Suprema, Al Khamenei, affermando l'intenzione di proseguire nella strada che stava percorrendo lo scienziato ucciso. Al contrario delle attese delle Cancellerie occidentali, che puntavano alle divisioni interne tra riformisti e conservatori, il regime, sull’aggressione straniera, si ricompatta.
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di Michele Paris
Nessuna sostanziale sorpresa ha fatto registrare il secondo round delle primarie repubblicane negli Stati Uniti. Nel piccolo Stato del New Hampshire il successo è andato al favorito della vigilia, il miliardario mormone Mitt Romney, il quale ha potuto così bissare l’affermazione della settimana scorsa nei caucus dell’Iowa e rafforzare la sua posizione di “front-runner” nella corsa alla nomination di un partito sempre più spostato a destra.
Nonostante i ripetuti attacchi lanciati nell’ultima settimana dai suoi principali rivali repubblicani, Romney ha incassato una vittoria piuttosto netta, capitalizzando il legame speciale che vanta con questo stato del New England. Romney è stato governatore del confinante Massachusetts tra il 2003 e il 2007 e si reca frequentemente in New Hampshire, dove possiede una delle sue numerose abitazioni. Il suo messaggio relativamente moderato sembra inoltre trovare terreno fertile tra l’elettorato dello Stato, anche se qui nel 2008 dovette subire da John McCain la sconfitta decisiva che mise fine alle sue speranze di nomination.
Primo candidato repubblicano (presidenti in carica esclusi) a vincere le due competizioni che aprono la stagione delle primarie dal 1976, nelle primarie del New Hampshire Mitt Romney ha raccolto il 39,4% dei consensi (quasi 100 mila voti), staccando di oltre 16 punti percentuali il secondo classificato, il deputato libertario del Texas, Ron Paul (22,8%).
Dal momento che la composizione dell’elettorato del New Hampshire difficilmente avrebbe potuto favorire una rimonta da parte dei candidati più conservatori, la questione di una possibile alternativa a Romney è rimandata alle cruciali primarie della Carolina del Sud, in programma il 21 gennaio prossimo. Qui il voto dei conservatori - legati principalmente all’industria militare dello Stato e ai Tea Party - avrà infatti un peso maggiore e risulterà fondamentale per le aspirazioni di candidati come Newt Gingrich e Rick Santorum.
Dietro a Romney, come già anticipato, è giunto Ron Paul, il quale aveva già fatto segnare un discreto terzo posto in Iowa. Paul ha beneficiato delle regole elettorali del New Hampshire, dove possono votare nelle primarie repubblicane sia gli indipendenti che gli elettori registrati come democratici. Gli indipendenti sono stati circa la metà di coloro che si sono recati alle urne ed hanno dimostrato di preferire il messaggio pacifista e radicalmente anti-governativo del 76enne parlamentare texano. Visto le sue posizioni decisamente lontane da quelle ufficiali repubblicane sui temi della sicurezza nazionale e in politica estera, Romney non sembra temere troppo la concorrenza di Ron Paul, anche se quest’ultimo ha costruito una macchina elettorale molto organizzata in tutto il paese che potrebbe consentirgli di rimanere competitivo per parecchio tempo.
Dietro Romney e Paul si è piazzato un altro candidato propostosi come moderato e che non aveva praticamente svolto campagna elettorale in Iowa. Si tratta di John Huntsman, figlio di uno degli uomini più ricchi d’America. Ex governatore dello Utah e fino a pochi mesi fa ambasciatore a Pechino per l’amministrazione Obama, Huntasman aveva puntato tutto sulle primarie del New Hampshire per tenere in vita una candidatura che ha comunque ben poche chances di decollare. Il modesto risultato (16,8%) non dovrebbe portarlo molto lontano, anche perché, paradossalmente, la sua campagna non può contare sulle risorse di cui dispongono i rivali.
Sebbene tutti i contendenti repubblicani propongano ricette economiche ultraliberiste che favoriscono i redditi più alti, alcuni candidati nei giorni precedenti il voto avevano attaccato Romney per il suo passato nel “private equity”. Alla guida della compagnia Bain Capital, negli anni Ottanta e Novanta, Romney aveva infatti accumulato una fortuna acquistando aziende, smembrandole, mandandole in bancarotta e licenziando senza scrupoli i loro dipendenti. Gli attacchi nei suoi confronti sono giunti in particolare da Newt Gingrich, dopo che anch’egli era stato bersaglio di campagne negative in Iowa orchestrate da organizzazioni (Super PAC) vicine a Romney e a Rick Perry.
Per l’ex speaker della Camera questa strategia aggressiva non ha pagato in New Hampshire, come dimostra il quarto posto col 9,4% dei voti, ma verrà comunque ribadita in Carolina del Sud, dove si presenterà con un assegno da 5 milioni di dollari staccato qualche giorno fa alla Super PAC a lui vicina dall’amico e imprenditore miliardario nel settore dei casinò, Sheldon Adelson. Il denaro così raccolto andrà a finanziare in gran parte l’acquisto di spazi pubblicitari per mettere in cattiva luce Mitt Romney.
La sorpresa dei caucus dell’Iowa, l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum, ha poi subito un brusco risveglio in New Hampshire. Il denaro improvvisamente entrato nelle sue casse dopo aver perso la settimana scorsa per appena otto voti da Romney, non gli ha permesso di estendere il proprio appeal in uno stato che vede con diffidenza il fondamentalismo cristiano che è alla base del suo messaggio politico. Per Santorum rimane qualche lieve speranza di riprendersi in Carolina del Sud, uno stato che potrebbe invece segnare la fine definitiva per Rick Perry. Il governatore del Texas ha tralasciato il New Hampshire per concentrarsi sul primo Stato del sud a tenere le primarie, ma nonostante abbia ancora parecchio denaro a disposizione la sua candidatura sembra avere ormai i giorni contati.
In attesa di capire se potrà emergere un unico candidato alternativo a Romney in grado di coagulare il voto dell’ala conservatrice del partito, buona parte dei media americani continua a veicolare il senso di inevitabilità della candidatura dell’ex governatore del Massachusetts. Quest’ultimo ha dalla sua soprattutto le ingenti risorse per finanziare una lunga campagna elettorale, grazie anche ai legami che ha coltivato negli anni con Wall Street. Mitt Romney ha raccolto donazioni per circa 23 milioni di dollari solo negli ultimi mesi del 2011 e in questi giorni ha incassato l’appoggio formale (“endorsement”) di politici repubblicani di spicco, come l’ex rivale John McCain.
In ogni caso, dopo appena due appuntamenti elettorali, gli equilibri in casa repubblicana sono dettati, oltre che dalle disponibilità economiche, dall’esposizione mediatica dei candidati. Per ottenere ufficialmente la nomination, un contendente repubblicano deve infatti mettere assieme quasi 1.200 delegati. Le primarie del New Hampshire ne hanno assegnati per ora solo 12 - Romney ne ha conquistati 7, Paul 3 e Huntsman 2 - dopo che i vertici nazionali del partito avevano deciso di dimezzare la quota riservata a questo Stato per punire i dirigenti locali, colpevoli di aver anticipato la data del voto, inizialmente fissata per il mese di febbraio.
Come già alla vigilia dei caucus dell’Iowa, anche il voto in New Hampshire è stato preceduto da varie schermaglie tra i sei repubblicani in corsa per la Casa Bianca. Nonostante gli scambi di accuse, tuttavia, i candidati risultano d’accordo sulle fondamentali questioni economiche e di politica estera - con l’eccezione di Ron Paul su quest’ultimo argomento - con le quali sarà chiamato a fare i conti il prossimo presidente americano.
Tutti i candidati repubblicani, così come Obama, concordano cioè sulla necessità sia di far pagare a lavoratori, disoccupati e pensionati la crisi in atto, che di mantenere un atteggiamento aggressivo al di fuori dei confini per salvaguardare gli interessi USA. Le loro divergenze riflettono semmai le divisioni all’interno delle élite che detengono il potere nel paese e che riguardano, ad esempio, l’opportunità di collaborare o meno con le organizzazioni sindacali negli attacchi alle condizioni di vita e ai diritti dei lavoratori, oppure la scelta di scatenare una nuova guerra piuttosto che conservare le risorse per i conflitti già in corso. Questi, in definitiva, sono i limiti angusti entro i quali si gioca negli Stati Uniti la competizione per la nomination repubblicana e per la Casa Bianca.
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di Michele Paris
Da lunedì scorso la Nigeria è bloccata da uno sciopero generale indefinito, proclamato per protestare contro l’improvvisa cancellazione dei sussidi governativi al prezzo dei carburanti. In seguito alla decisione presa a inizio anno dal presidente Goodluck Jonathan, il costo della benzina per i nigeriani è più che raddoppiato da un giorno all’altro, scatenando manifestazioni e scontri in tutto il paese che hanno già causato alcuni decessi e centinaia di feriti, vittime della durissima reazione delle forze di sicurezza.
Lo sciopero in corso è stato indetto dalle due principali organizzazioni sindacali del paese africano, anche se il movimento di protesta contro il taglio dei sussidi era in realtà esploso spontaneamente, autodefinendosi “Occupy Nigeria” per sottolineare, qui come in Occidente, le sempre più difficili condizioni economiche della maggior parte della popolazione e le enormi disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza.
L’annuncio dell’addio ai sussidi ai carburanti in Nigeria da parte del presidente era giunto il primo gennaio scorso, con l’immediata conseguenza di un’impennata del prezzo della benzina alle pompe, passato da 0,45 dollari a 0,94 dollari al litro. Al rialzo del costo dei carburanti si è accompagnata una raffica di aumenti sui prezzi di altri beni e servizi di prima necessità, dal cibo ai trasporti. Allo stesso tempo, la precaria rete elettrica del paese ne ha risentito pesantemente, dal momento che essa dipende in gran parte da generatori alimentati a benzina.
I sussidi soppressi dal governo rappresentano uno dei pochissimi benefici che i nigeriani ottengono dallo sfruttamento selvaggio delle enormi risorse energetiche del paese da parte delle multinazionali del petrolio. Gli effetti dell’operazione rischiano così di avere gravi conseguenze in un paese di 167 milioni di abitanti, di cui oltre i due terzi costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno.
Lo sciopero iniziato lunedì ha fatto segnare un’ampia partecipazione in tutti i settori pubblici e privati, paralizzando la principale città del paese, Lagos, la capitale, Abuja, e gli altri maggiori centri abitati. Anche se un tribunale nigeriano ha emesso un ordine per porre fine allo sciopero, i sindacati hanno manifestato l’intenzione di continuare con la protesta. Gli scontri più gravi sono avvenuti per ora nella città settentrionale di Kano, dove le forze di polizia avrebbero fatto almeno tre morti dopo avere aperto il fuoco sui manifestanti che avevano assediato un edificio governativo.
Non è servito poi a calmare gli animi, né a evitare lo sciopero, l’appello lanciato in diretta TV sabato scorso dal presidente Jonathan, il quale aveva promesso una riduzione del 25 per cento del suo stipendio e di quello dei membri del suo governo. Il presidente ha in ogni caso ribadito la necessità di porre fine ai sussidi, poiché “devono essere fatte scelte difficili per salvaguardare l’economia e la sopravvivenza stessa della nazione”. In Nigeria come altrove, ovviamente, le “scelte difficili” riguardano esclusivamente gli strati più disagiati della popolazione, mentre non toccano la ristretta élite di privilegiati che controlla il potere e le ricchezze del paese.
La decisione del presidente e del suo ministro dell’Economia, l’ex dirigente della Banca Mondiale Ngozi Okonjo-Iweala, è stata presa inoltre in seguito alle pressioni degli ambienti finanziari internazionali. Lo scorso dicembre, ad esempio, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, era stata in visita in Nigeria, elogiando l’amministrazione Jonathan per il suo impegno a perseguire riforme orientate verso il “libero mercato”.
La Nigeria produce più di due milioni di barili di petrolio al giorno, ma il greggio estratto viene in gran parte raffinato all’estero e poi reimportato per il consumo interno. Per questo, il governo spende annualmente circa 8 miliardi di dollari - cioè un quarto del proprio budget - in sussidi per compensare la differenza tra il prezzo del petrolio sui mercati internazionali e quello con cui viene venduto nel paese. Per il presidente, l’eliminazione dei sussidi consentirà al governo di investire nell’ammodernamento delle infrastrutture che versano in condizioni disastrose. La sorte del provvedimento, tuttavia, appare in bilico, dal momento che tutti i tentativi dei precedenti governi di cancellare i sussidi si sono risolti in altrettante marce indietro, vista la massiccia resistenza popolare puntualmente incontrata.
L’impopolarità della misura, d’altra parte, è stata confermata da un sondaggio condotto da uno studio di consulenza di Abuja e citato martedì dal Wall Street Journal. Secondo i dati raccolti, il 98 per cento dei nigeriani intervistati sarebbe infatti contrario alla fine dei sussidi. In merito alle proteste esplose nel paese, il direttore dello stesso studio ha poi ammesso che “non stiamo parlando di opposizione [alla rimozione dei sussidi], ma di una rivolta generale”.
Gli scioperi in corso in Nigeria hanno intanto già contribuito all’ulteriore innalzamento della quotazione del greggio sui mercati internazionali, spaventati dall’eventualità che alle proteste possano unirsi anche i lavoratori dei pozzi petroliferi. Per il momento, tuttavia, sembra che la produzione di petrolio nel paese non abbia risentito delle tensioni.
La nuova crisi giunge nel pieno di un’ondata di violenze settarie provocate dal gruppo fondamentalista islamico Boko Haram, espressione del malcontento diffuso nelle aree più povere nel nord del paese e che ha causato 510 morti nel 2011, tra cui 49 in un attentato contro una chiesa cattolica il giorno di Natale.
La vera minaccia per la gran parte della popolazione nigeriana non viene però dalle divisioni religiose o dal terrorismo, bensì proprio da un governo centrale irrimediabilmente corrotto e al servizio dei colossi dell’industria petrolifera e della finanza internazionale. Una realtà compresa alla perfezione dai nigeriani, come confermano gli scioperi e le proteste di questi giorni, alle quali hanno preso parte indistintamente sia i cristiani che i musulmani.