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di Carlo Musilli
Serve una "psicoterapia nazionale" per regalare ai russi "certezze nel domani". E' questa l'ultima umiliazione che il primo ministro di Mosca, Vladimir Putin, ha voluto infliggere al suo popolo. Nemmeno l'inganno di un eufemismo, ma l'arroganza di una perifrasi che ribadisce in modo ancor più volgare il modus operandi preferito dallo Zar: se la protesta è troppo estesa per esser messa tacere col manganello, quello che serve è un bel surplus di propaganda. Da diffondere naturalmente con ogni strumento mediatico a disposizione, a cominciare dalla televisione e soprattutto da internet.
Proprio per via telematica è nata l'ultima sollevazione della Russia contro Putin. Sabato scorso sono scese in piazza 100 mila persone, il doppio di quelle che avevano sfilato appena due settimane prima. Un fiume di manifestanti che non si era mai visto nei 12 anni in cui l'ex capo dei servizi segreti ha retto le sorti del Paese. Chiedono semplicemente il rispetto dei loro diritti civili: le ultime elezioni legislative, che ancora una volta hanno consegnato al partito del Premier ("Russia Unita") la maggioranza alla Duma, si sono svolte fra clamorosi brogli e andrebbero ripetute.
Come se non bastasse, il 4 marzo si tornerà alle urne per le consultazioni presidenziali. Se nulla cambierà nei prossimi mesi, l'esito del voto sarà il più scontato: Putin, dopo aver provveduto ad una chirurgica modifica della Costituzione, potrà rimanere inchiodato al suo trono per un'altra dozzina d'anni.
Di certo non gli fa paura la sfida lanciata dal blogger/avvocato 35enne Alexei Navalny, uomo simbolo della recente protesta, che ieri ha annunciato di volersi candidare per defenestrare Sua Maestà e metter fine al cosiddetto putinismo. "Forse sono troppo ingenuo - ha detto a una radio moscovita - ma se portiamo un milione di persone in piazza allora è fatta, non potranno farci niente. E dovranno ascoltare le nostre richieste". In realtà qualcosa gli hanno già fatto: fra il 6 e il 21 dicembre Navalny è stato rinchiuso in carcere con l’accusa di aver ostacolato la polizia e di aver fomentato i manifestanti durante le proteste.
Il presidente Dmitri Medvedev ha bonariamente promesso di semplificare la procedura per permettere anche ai partiti minori di partecipare alle consultazioni. In fondo un ragazzo volenteroso che male può fare? Al contrario, la sua velleitaria candidatura potrebbe dare alle prossime elezioni proprio quell'imbiancatura di legittimità di cui il Cremlino ha tanto bisogno.
Intanto però gli attacchi di misteriosi hacker stanno oscurando i blog e le pagine web in cui si concentravano le più accese proteste anti-governative. E non ci vuole Sherlock Holmes per immaginare chi sia il mandante.
Insomma, lo Zar non ha molti dubbi su come andrà a finire la partita, tanto che si preoccupa a mala pena di sminuire gli slogan dei suoi contestatori: "Abbiamo ascoltato le persone in piazza con rispetto - ha detto - ma erano una minoranza". E se in un regime non conta l'opinione della maggioranza, figurarsi che peso può avere la voce di 100 mila persone: "Le elezioni sono chiuse - ha sentenziato ancora il Primo ministro - non ci sarà alcuna revisione".
Quanto ai suoi sparuti oppositori, declassati verbalmente al rango di banale "concorrenza", il loro problema è che "non hanno un unico programma, né una strada chiara per raggiungere i loro obiettivi, anch'essi fumosi. Non ci sono persone in grado di fare alcunché di concreto". Inutile obiettare che perfino nel più ridicolo surrogato di democrazia non spetta al premier valutare la ragion d'essere delle opposizioni.
Ma lo scherno più incredibile partorito da Putin è stato quello riservato alle presidenziali: "Mi auguro che il voto del prossimo marzo sia limpido, ma temo che qualcuno cerchi di minarne la sua legittimità". Strano che abbia scelto il verbo "temere", perché migliaia di suoi connazionali invece non hanno dubbi. Nonostante le preoccupazioni dello Zar, i russi hanno già delle certezze.
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di Michele Paris
A soli pochi giorni dal ritiro ufficiale delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq, il travagliato paese mediorientale sembra essere già precipitato nel caos. Con il fragile governo di unità nazionale sull’orlo della crisi e il rischio concreto di nuove violenze settarie, dopo quasi nove anni di occupazione la popolazione irachena si ritrova a dover fronteggiare nuovamente gli spettri della dittatura e della guerra civile, con la possibilità tutt’altro che remota di un ritorno delle forze armate americane.
La fine delle operazioni USA in Iraq è stata festeggiata con una cerimonia ufficiale giovedì scorso, mentre il contingente militare residuo ha lasciato il paese nel fine settimana. Pochi giorni prima, il presidente Obama aveva ricevuto a Washington il premier, Nuri Kamal al-Maliki, al quale aveva espresso tutto il suo apprezzamento per i progressi fatti dal sistema politico iracheno, saldamente avviato verso un futuro democratico. Gli stessi elogi verso il governo di Baghdad sono stati espressi da Obama anche nel suo discorso tenuto di fronte ai militari rientrati dall’Iraq, ovviamente senza citare l’illegalità della guerra scatenata nel 2003 e la totale devastazione del paese causata dall’invasione americana negli anni successivi.
La vera faccia della realtà irachena, al di là delle lodi dell’amministrazione democratica di Washington, è tuttavia apparsa in tutta la sua evidenza proprio in seguito ad una nuova serie di azioni messe in atto da Maliki per consolidare il suo potere a spese degli avversari politici. Da tempo la gestione del primo ministro è d’altra parte oggetto di dure critiche, soprattutto da parte della minoranza sunnita nel paese, tanto che venerdì scorso il blocco parlamentare Iraqiya aveva preso la decisione di boicottare l’attività del governo dopo la presentazione in Parlamento da parte della maggioranza sciita di una mozione di sfiducia contro il vice-premier sunnita, Saleh al-Mutlaq, responsabile di aver bollato Maliki come “dittatore” nel corso di un’intervista televisiva.
Domenica scora, poi, i servizi segreti agli ordini di Maliki hanno arrestato sette guardie del corpo del vice-presidente iracheno, il sunnita Tariq al-Hashimi, perché accusate di terrorismo. A far precipitare la situazione è stato infine il mandato d’arresto emesso il giorno successivo ai danni dello stesso Hashimi, a sua volta accusato di aver ordinato una serie di attacchi terroristici nel paese contro gli sciiti, tra cui un tentativo di assassinare il primo ministro.
Il mandato di cattura per Hashimi era stato preparato da un’altra iniziativa più consona ad un regime dittatoriale che ad una nascente democrazia, vale a dire la trasmissione in TV delle confessioni di alcune ex guardie del corpo del vice-presidente, le quali hanno ammesso di aver portato a termine attentati terroristici ordinati dal loro autorevole superiore. Per sfuggire all’arresto, Hashimi si è rifugiato nella regione settentrionale semiautonoma del Kurdistan iracheno, dove le forze di sicurezza di Baghdad non hanno giurisdizione.
La vicenda che coinvolge Hashimi è solo il più recente sviluppo di una strategia messa in atto negli ultimi mesi da Maliki per mettere a tacere i propri oppositori interni e che comprende ondate di arresti di sunniti accusati di aver fatto parte del partito Baath di Saddam Hussein ed ex ufficiali che avrebbero complottato per rovesciare il governo centrale. Quest’ultima accusa trae origine dalle informazioni passate a Maliki dal nuovo governo libico, il quale avrebbe a sua volta scoperto documenti segreti a Tripoli che documentano come Gheddafi avesse finanziato e incoraggiato una rivolta sunnita contro il premier sciita dopo l’addio dei soldati americani all’Iraq.
Che il primo ministro non abbia alcuna intenzione di fare marcia indietro lo si è visto anche in una lunga intervista alla TV irachena andata in onda mercoledì, nella quale Maliki ha minacciato, tra l’altro, di rendere pubbliche nuove prove in suo possesso che implicherebbero alcuni avversari politici in attentati terroristici.
In questo scenario, il governo guidato da Maliki appare in grave pericolo, se non già formalmente in crisi. L’esecutivo guidato dal premier sciita era nato grazie al raggiungimento di un faticoso accordo nel dicembre 2010 dietro le pressioni americane e a distanza di ben nove mesi dalle elezioni parlamentari. Maliki aveva potuto così conservare la carica di primo ministro, anche se le altre formazioni politiche rappresentanti le minoranze curda e sunnita avevano ottenuto cariche importanti. L’accordo di governo si fondava soprattutto sulla collaborazione di Iraqiya, di cui fa parte il vice-presidente Hashimi e che dopo l’emissione del mandato di cattura ha annunciato invece il ritiro dei propri ministri dal gabinetto.
Il riesplodere del settarismo in Iraq dopo la parziale uscita di scena degli Stati Uniti è da attribuire in primo luogo ai leader politici espressione dei vari gruppi religiosi, che sfruttano le divisioni nel paese anche per cercare di distogliere l’attenzione degli iracheni dalla situazione disastrosa seguita all’invasione americana del 2003 di cui hanno ampiamente beneficiato. Il profondo malcontento che attraversa la popolazione è testimoniato infatti dalle numerose manifestazioni di protesta esplose in varie località del paese nei mesi scorsi sull’onda della Primavera Araba.
In questo quadro di tensioni settarie si inseriscono anche i malumori delle province a maggioranza sunnita che stanno cercando una qualche autonoma da Baghdad, sul modello della regione curda. Particolarmente delicata appare la situazione nella provincia orientale di Diyala, dove i leader sunniti hanno chiesto maggiori poteri al governo centrale. A queste richieste ha fatto seguito però la dura reazione di Baghdad, concretizzatasi con una serie di manifestazioni organizzate dai partiti locali alleati di Maliki che hanno causato la fuga del governatore sunnita - anch’egli rifugiatosi nel Kurdistan iracheno - sostituito dal suo vice, di fede sciita.
La domanda di una maggiore autonomia da parte di queste province deriva dai timori diffusi per l’eccessiva vicinanza all’Iran di Maliki e del suo governo, laddove i sunniti desidererebbero invece una maggiore affinità con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.
Da qui l’apprensione del primo ministro che l’uscita di scena degli USA possa rinvigorire i sunniti, contro i quali si scaglia denunciando ipotetiche trame per rovesciare il suo governo e ristabilire un regime simile a quello di Saddam. Per questa ragione, Maliki continua anche a rifiutarsi di condannare il regime di Assad in Siria, poiché una sua caduta potrebbe avere effetti nefasti per Baghdad. Un nuovo governo a maggioranza sunnita e anti-iraniano a Damasco darebbe infatti un’ulteriore impulso alle rivendicazioni sunnite in Iraq.
Per gli iracheni, in ogni caso, una nuova guerra settaria nel paese avrebbe conseguenze catastrofiche. Il conflitto causato dall’occupazione americana ha già causato centinaia di migliaia di morti tra i civili, soprattutto tra il 2006 e il 2008, nonché abusi, atrocità diffuse e più di quattro milioni di profughi. A ricordare la precarietà della situazione in Iraq, giovedì mattina nella capitale sono state varie esplosioni che hanno provocato più di sessanta morti e centinaia di feriti.
La crescente instabilità nel paese è seguita infine con grande apprensione dagli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama si sta muovendo per cercare di calmare gli animi a Baghdad. Nei giorni scorsi, ad esempio, il vice-presidente Joe Biden ha avuto colloqui telefonici con Maliki e con il presidente iracheno, Jalal Talabani, per spingere le parti verso un compromesso. Allo stesso tempo, nonostante le imminenti festività natalizie, il presidente democratico ha rispedito in Iraq sia l’ambasciatore USA, James Jeffrey, che il direttore della CIA, David Petraeus, nel tentativo di evitare che la situazione possa sfuggire definitivamente di mano.
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di Michele Paris
La crisi costituzionale che da poco più di una settimana sta tormentando la Papua Nuova Guinea sembra essersi finalmente avviata verso una conclusione. La disputa attorno alla carica di primo ministro tra i due più popolari uomini politici della ex colonia australiana si inserisce nel quadro delle rivalità crescenti in Estremo Oriente e nell’area del Pacifico tra la Cina da un lato e gli Stati Uniti e l’Australia dall’altro.
La crisi in Papua Nuova Guinea era esplosa in seguito alla prolungata permanenza del premier Michael Somare a Singapore, dove si era recato la scorsa primavera per ricevere cure mediche. Con Somare lontano dal paese, il presidente del Parlamento aveva allora dichiarato vacante la carica di primo ministro e, il 2 agosto, una larga maggioranza di deputati aveva proceduto ad eleggere Peter O’Neill a capo di un nuovo governo. La mossa del Parlamento era stata favorita anche dall’annuncio fatto dai familiari di Somare che quest’ultimo aveva intenzione di ritirarsi dalla politica, così come dal conseguente passaggio di molti suoi sostenitori nel campo del rivale O’Neill.
Tornato alla fine in patria, Somare - primo ministro dall’indipendenza nel 1975 al 1980, dal 1982 al 1985 e ancora dal 2002 fino alla sua rimozione qualche mese fa - aveva fatto appello alla Corte Suprema per cercare di riottenere la sua carica. Il 12 dicembre scorso, infatti, il più alto tribunale della Papua Nuova Guinea aveva dichiarato incostituzionale la nomina a premier di O’Neill, poiché il 75enne Somare non aveva rassegnato le proprie dimissioni né era stato formalmente dichiarato incapace a governare.
Anticipando la sentenza della Corte Suprema, Peter O’Neill pochi giorni prima aveva fatto però approvare una legge retroattiva che revocava il congedo temporaneo di Somare per recarsi a Singapore. Lo stesso 12 dicembre, poi, poco prima dell’emissione del verdetto della Corte, era arrivato un provvedimento che dichiarava decaduto qualsiasi membro del Parlamento che fosse rimasto al di fuori dei confini del paese per più di tre mesi. Un’ultima misura, infine, ha imposto il ritiro dalla carica di primo ministro al compimento del 72esimo anno di età.
Somare e O’Neill settimana scorsa si erano così ritrovati a capo di due gabinetti ed entrambi avevano nominato un proprio capo della polizia. In questa situazione, le tensioni nel paese erano salite alle stelle, con l’esercito e le forze di polizia chiamate a presidiare le strade della capitale, Port Moresby, per timore di possibili disordini. Nella serata del 12 dicembre, le inquietudini avevano raggiunto il culmine, quando la polizia fedele a Somare aveva impedito a O’Neill l’accesso al palazzo del Governatore Generale, Michael Ogio.
Proprio quest’ultima figura ha giocato un ruolo chiave nella crisi e nella sua risoluzione. Il Governatore Generale della Papua Nuova Guinea è il rappresentante del capo dello stato, la regina d’Inghilterra, e, pur essendo una carica in larga misura simbolica, secondo la Costituzione del 1975 ha la facoltà di dare l’assenso formale alla nomina di primo ministro. In base ai poteri assegnatigli, il 14 dicembre Ogio aveva fatto giurare i ministri scelti da Michael Somare, restituendogli di fatto la carica di capo del governo.
Per tutta risposta, il Parlamento aveva votato la sospensione dello stesso Governatore Generale, il quale è stato però reinsediato lunedì dopo una clamorosa inversione di rotta. In una lettera al Parlamento, il rappresentante della regina Elisabetta II in Papua Nuova Guinea ha infatti ritrattato la sua precedente presa di posizione, attribuendo il suo appoggio a Somare a cattivi consigli legali che gli sarebbero stati dati, riconoscendo invece la legittimità della nomina a primo ministro di Peter O’Neill.
Ciononostante, Somare non sembra ancora aver desistito dalla battaglia per riavere il suo incarico, anche se a questo punto appare estremamente improbabile che la vicenda possa avere un nuovo rovesciamento di fronte. Non solo perché negli ultimi giorni si sono moltiplicati all’interno del paese e nella comunità internazionale gli appelli ad una risoluzione rapida della crisi, per evitare ripercussioni negative sull’economia di un paese già afflitto da elevatissimi livelli di povertà, ma soprattutto perché a decidere gli esiti della crisi sono state forze esterne riconducibili alle potenze che si contendono l’egemonia nell’intera regione dell’Asia sud-orientale.
A risultare decisiva per la sorte di Michael Somare è stata in particolare la sua politica filo-cinese, che in questi ultimi anni ha complicato non poco i suoi rapporti con l’ex potenza coloniale, l’Australia. Grazie alle aperture di Somare verso Pechino, la Cina ricopre oggi un ruolo importante nel redditizio settore minerario della Papua Nuova Guinea. Uno dei progetti più ambiziosi assegnati ai cinesi è quello da 1,6 miliardi di dollari, che prevede lo sfruttamento della miniera Ramu, dove si estrae nickel e cobalto.
Peter O’Neill, al contrario, appare invece decisamente più vicino all’Australia, come dimostra l’orientamento del suo governo in questi mesi. Lo scorso ottobre, ad esempio, O’Neill ha guidato una delegazione di nove ministri a Canberra dove è stato raggiunto con il governo laburista di Julia Gillard un accordo per far tornare sul territorio della Papua Nuova Guinea un certo numero di militari e poliziotti federali australiani. L’ultimo contingente di ufficiali australiani presenti nella ex colonia era stato allontanato proprio da Michael Somare nel 2005.
La crisi costituzionale in questo paese di 7 milioni di abitanti - situato in una posizione strategica tra Australia e Indonesia e con ingenti risorse naturali . si era sovrapposta all’importante visita dello scorso novembre nella regione da parte del presidente americano Obama, il quale aveva ribadito il ruolo aggressivo del suo paese in quest’area del globo in funzione anti-cinese. Solo qualche giorno prima, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, aveva fatto visita proprio alla Papua Nuova Guinea durante un tour asiatico, segnalando l’interesse prioritario di Washington per un paese dove, tra l’altro, la texana ExxonMobil sta lavorando ad un progetto legato all’estrazione di gas naturale del valore di svariati miliardi di dollari.
Il disegno degli Stati Uniti in Asia sud-orientale e nel Pacifico è condiviso in pieno dal governo australiano, che non a caso nei fatti della Papua Nuova Guinea di questi mesi sembra aver giocato un ruolo decisivo. Con il beneplacito americano, Canberra si è infatti mossa attivamente dietro le quinte per assicurare l’instaurazione a Port Moresby di un governo più benevolo nei confronti degli interessi di USA e Australia, favorendo l’uscita di scena di un ormai ex primo ministro considerato troppo accomodante verso i rivali cinesi.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Anche l’integerrima Germania, a quanto pare, ha i suoi piccoli scheletri nell’armadio: è di questi giorni lo scandalo che ha coinvolto Christian Wulff, attuale Capo dello Stato federale ed ex- governatore della Bassa Sassonia per conto del partito di Angela Merkel (CDU), a causa di alcuni finanziamenti ricevuti “in amicizia” da imprenditori. Ancora non sono del tutto chiari i fatti, ma già si parla di provvedimenti e conseguenze. Ogni possibilità rimane aperta: si avvicinano le elezioni del 2013 e, per l’occasione, nessun partito si può permettere la benché minima macchia.
Secondo il settimanale Der Spiegel, durante la campagna per le elezioni regionali in Bassa Sassonia del 2007, l’imprenditore Carsten Maschmeyer avrebbe finanziato le inserzioni pubblicitarie per il libro di Christian Wulff “Meglio la verità”, in cui l’attuale capo dello Stato racconta le proprie esperienze politiche e private. A richiedere i finanziamenti a Maschmeyer - poco più di quarantamila euro - sarebbe stata in realtà la casa editrice, Hoffmann und Campe, che difende tuttora la procedura come assolutamente normale: da che mondo è mondo le case editrici propongono le nuove produzioni ad aziende e imprese per ottenere un sostegno economico, spiegano dalla Hoffmann und Campe, e tutto ciò senza secondi fini.
Ma l’interpretazione appare un poco ingenua e non convince: in tempi di campagna elettorale il libro di Wulff aveva tutta l’aria di un mezzo di promozione politica più che di un semplice saggio universitario e il finanziamento assume quindi tratti abbastanza controversi. Senza contare che la candidatura di Wulff a governatore della Bassa Sassonia era tra le favorite e, noi italiani lo sappiamo bene, gli appoggi ai principi raramente sono fatti per pura amicizia.
La questione va a caricare una situazione già di per sé poco felice per Wulff, alla luce dell’ulteriore scandalo si cui si è parlato nelle scorse settimane. Secondo alcune rivelazioni del quotidiano popolare Bild, nel 2009 Wulff avrebbe ricevuto un prestito agevolato di mezzo milione di euro attraverso la moglie dell’imprenditore Egon Geerkens, soldi poi utilizzati per acquistare una casa ad Amburgo. A quei tempi Wulff era governatore cristianodemocratico della Bassa Sassonia e già doveva rendere conto dei suoi movimenti economici alla politica.
Interrogato dai Verdi in Parlamento, Wulff si era trovato a negare chiaramente e ufficialmente qualsiasi rapporto professionale con Geerkens: fatto sta che ora l’imprenditore Geerkens ha rivelato a Der Spiegel di avere concordato personalmente il prestito con Wulff e la piccola bugia bianca non è sembrata poi tanto “bianca” all’opposizione di SPD, Die Linke e Verdi, che già mettono in discussione la posizione di Wulff a capo della Germania federale.
Wulff è stato eletto poco più di un anno fa dopo le dimissioni volontarie dell’ex-presidente Horst Koehler. Kohler si era ritirato inaspettatamente in seguito alle numerose polemiche riguardanti una sua dichiarazione sulla missione in Afghanistan: il ruolo di Presidente merita rispetto, si era giustificato Kohler, e l’atteggiamento dei media nei suoi confronti andava a ledere la figura di Capo dello Stato in sé. Sarà interessante vedere ora gli sviluppi della questione Wulff, per certi versi molto più pesante di quella d’onore per cui Kohler aveva deciso di lasciare la poltrona.
Ieri pomeriggio il Consiglio supremo della Bassa Sassonia avrebbe dovuto discutere di eventuali provvedimenti, ma la seduta è durata un quarto d’ora ed è terminata senza risultati, con somma sorpresa per l’opposizione e per alcuni membri del consiglio stesso.
Un recentissimo sondaggio di ARD, il primo canale pubblico in Germania, rivela che il 70% dei cittadini è contrario alle dimissioni del capo dello Stato. Pur non chiedendone la testa, i tedeschi si rifiutano comunque di giustificare il re: Wulff è una figura credibile solo per il 51% della popolazione, e si parla di 23 punti percentuali in meno rispetto a luglio 2010. Senza contare che solo un decimo dei cittadini ritiene corretto che il Capo dello Stato prenda soldi in prestito da un “amico imprenditore”. Presentatosi alla più alta carica della Germania federale come indipendente, Wulff era stato definito da tutti “l’uomo della Merkel”. E, alla vigilia delle elezioni, è difficile pensare che la Merkel possa fare a meno di tagliare tutti i rami secchi e lasciar passare inosservato un tonfo così rumoroso.
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di Michele Paris
L’annuncio ufficiale della morte del dittatore nordcoreano, Kim Jong-il, ha scatenato nei media occidentali una serie infinita di commenti nei quali si sottolinea fino alla noia la possibilità di azioni provocatorie da parte di un impenetrabile regime impegnato in un delicatissimo processo di transizione. Di fronte al rischio di un conflitto nella penisola coreana, Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone avrebbero perciò già innalzato il livello di guardia per contrastare eventuali mosse di Pyongyang; anche se, a ben vedere, le maggiori minacce alla stabilità della regione sembrano venire proprio da Washington e dai suoi alleati in Estremo Oriente.
Per quanto quello presieduto fino a qualche giorno fa dal 69enne Kim Jong-il sia innegabilmente un regime stalinista dittatoriale al servizio di una ristretta cerchia di potere, a contribuire in buona parte alla segretezza e alla presunta provocatorietà del governo nordcoreano in questi decenni - così come alle continue tensioni in questa porzione di Asia orientale - è stato precisamente l’atteggiamento aggressivo degli Stati Uniti. Proprio per questo, appare più che probabile che nel prossimo futuro siano gli USA a cercare di sfruttare la situazione precaria in Corea del Nord in seguito al decesso del “Caro Leader” allo scopo di destabilizzare il regime.
Ripercorrendo brevemente la storia della penisola coreana negli ultimi due decenni, appare evidente come, a partire almeno dagli ultimi anni di vita del fondatore della Repubblica Democratica Popolare di Corea, Kim Il-sung, le varie amministrazioni che si sono succedute a Washington abbiano oscillato tra promesse mancate di dialogo e aperte provocazioni. Una strategia volta a esercitare pressioni sul regime, col fine ultimo di provocarne la caduta, quasi sempre sfruttando l’annosa questione del programma nucleare nordcoreano.
Dopo il crollo nel 1991 dell’Unione Sovietica, primo sponsor della Corea del Nord, Kim Il-sung inviò segnali di distensione all’Occidente, acconsentendo alla firma del Trattato di Non Proliferazione in cambio di aiuti economici e dell’uscita dall’isolamento diplomatico. Da allora i negoziati con gli Stati Uniti hanno proceduto a singhiozzo, con questi ultimi che quasi mai hanno intrapreso serie iniziative per alleviare il senso di paranoia comprensibilmente diffuso ai vertici del regime di Pyongyang.
Nel 1994, poi, sulla questione del nucleare si giunse sull’orlo di un nuovo conflitto, evitato probabilmente per i timori delle conseguenze devastanti che ne sarebbero derivate. Dalla guerra sfiorata si arrivò invece ad una sorta di accordo, suggellato nello stesso anno dalla visita nella capitale nordcoreana dell’ex presidente Jimmy Carter, inviato da Bill Clinton per incontrare Kim Il-sung.
Con la morte di quest’ultimo poco dopo, toccò al figlio Kim Jong-il finalizzare l’accordo con gli USA. Il nuovo leader s’impegnava a smantellare le installazioni nucleari a fini militari nel paese in cambio di aiuti per sviluppare il settore civile e ristabilire relazioni diplomatiche con l’Occidente. Ancora una volta, però, da Washington non ci fu il rispetto degli accordi presi con i nordcoreani.
Le speranze di una distensione tra le due Coree ebbero un nuovo impulso quando nel 1998 a Seoul venne eletto alla presidenza Kim Dae-jung. Il nuovo presidente sudcoreano, lanciando la cosiddetta “Sunshine policy”, rappresentava in realtà quegli ambienti del suo paese interessati all’apertura dell’arretrato vicino settentrionale, visto come fonte di manodopera a basso costo. Il disgelo nella penisola coreana portò allo storico incontro tra i due Kim a Pyongyang nel giugno del 2000 e alla successiva visita del Segretario di Stato americano, Madeleine Albright, sul finire del secondo mandato dell’amministrazione Clinton.
Le speranze di pace subirono tuttavia una brusca frenata con l’arrivo alla Casa Bianca di George W. Bush, il quale congelò sul nascere i rapporti con la Corea del Nord. Nel 2002, poi, la nuova amministrazione repubblicana incluse il regime di Kim Jong-il nell’asse del male - assieme a Iran e Iraq - e lo accusò di avere avviato un programma segreto di arricchimento dell’uranio. Per tutta risposta, la Corea del Nord uscì dal Trattato di Non Proliferazione, espulse gli ispettori dell’ONU e rimise in moto le proprie installazioni nucleari.
Tramite la mediazione della Cina, principale partner nordcoreano dopo la fine dell’URSS, successivamente gli Stati Uniti accettarono comunque l’avvio di nuovi colloqui con Pyongyang, con il coinvolgimento anche di Russia, Corea del Sud e Giappone. Con le guerre in corso in Afghanistan e Iraq, infatti, l’amministrazione Bush non era disposta a fronteggiare un ulteriore conflitto in Asia orientale. I “colloqui a sei”, in ogni caso, non impedirono alla Corea del Nord di testare il primo ordigno nucleare nel 2006, seguito poi da un secondo nel 2009, poco dopo l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca.
Il presidente democratico, da parte sua, in questi tre anni ha in sostanza proseguito la stessa tattica dei suoi predecessori, alternando caute aperture ad aperte provocazioni nei confronti di Pyongyang. Un atteggiamento che s’inserisce in una strategia più ampia promossa dall’amministrazione Obama per contenere l’espansione in Asia orientale della Cina, a sua volta interessata invece al mantenimento degli equilibri esistenti nella penisola di Corea.
Sul fronte interno nordcoreano, in ogni caso, alcuni commentatori sembrano prevedere una possibile lotta di potere tra le varie fazioni del regime dopo la morte di Kim Jong-il e in vista di un complicato passaggio di consegne ad un inesperto successore, il figlio nemmeno 30enne Kim Jong-eun. Altri, al contrario, sostengono che le élite della Corea del Nord finiranno per allinearsi dietro l’erede della famiglia Kim, così da garantire la loro sopravvivenza e quella del regime stesso.
Quel che è certo è che il 26enne o 27enne Kim Jong-eun si ritrova improvvisamente alla guida di un complesso sistema di potere senza aver ricevuto il necessario addestramento previsto dal padre malato. Kim Jong-il aveva iniziato a introdurre il suo terzogenito ai vertici dello stato nordcoreano nel 2008, dopo essersi ripreso da un ictus, come raccontano i resoconti dei media.
Lo scorso anno, l’erede del dittatore venne poi fatto generale e nominato alla vice-presidenza della Commissione Militare Centrale, l’organo più potente del paese. Parallelamente, Kim Jong-eun iniziò anche ad essere oggetto della propaganda ufficiale del regime.
Secondo alcune speculazioni, per il nuovo giovane leader nordcoreano sarebbe prevista una sorta di reggenza, verosimilmente formata da alcune delle figure più vicine a Kim Jong-il, come la sorella Kim Kyong-hui e il marito Jang Song-taek, già considerato il numero due in Corea del Nord, ma anche il fidato generale Ri Yong-ho. Quasi unanime è l’opinione che il compito più arduo per Kim Jong-eun sarà consolidare il proprio potere nei prossimi anni, all’interno di una cerchia costituita da esperti (e spesso anziani) ufficiali militari e membri del Partito dei Lavoratori.
Proprio alla luce di questo scenario, appare dunque improbabile che un regime alle prese con un delicato processo di transizione decida di avventurarsi in atti provocatori che scatenerebbero la dura reazione di Stati Uniti o Corea del Sud.
Più plausibile sembra piuttosto il contrario, cioè - sempre che le élite nordcoreane abbiano effettivamente già accettato la successione del giovane Kim - un qualche gesto di distensione verso i nemici di sempre per guadagnare tempo e stabilizzare la situazione interna, proprio come fece Kim Jong-il alla morte del padre nel 1994, quando ratificò il già citato accordo per lo stop delle attività nucleari nel paese.
Questa eventualità non sembra però sfiorare gli Stati Uniti e i loro alleati. Se pure Washington ha finora riposto con cautela alla morte di Kim Jong-il, le decisioni della Casa Bianca sul possibile invio di aiuti economici alla Corea del Nord e sulla ripresa dei negoziati sono state congelate.
Allo stesso tempo, USA e Corea del Sud a partire da lunedì hanno avviato una serie di consultazioni frenetiche, così come hanno fatto anche USA e Giappone da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra.
Una intensa attività diplomatica e militare da parte dei tre alleati che rappresenta forse la reale minaccia alla stabilità della regione, nonostante, per stessa ammissione degli osservatori americani e sudcoreani, non sia giunta per il momento nessuna iniziativa ostile né alcuna dichiarazione bellicosa da parte di Pyongyang dopo la morte improvvisa del “Caro Leader”.