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di Michele Paris
Con il parere favorevole del Senato, negli Stati Uniti è stato approvato in via definitiva e a larga maggioranza un nuovo provvedimento che espande ulteriormente i poteri dell’esecutivo in materia di anti-terrorismo. La nuova misura sancisce la legalità delle detenzioni indefinite e senza processo per chiunque sia sospettato di appartenere o fornire sostegno ad una organizzazione terroristica, compresi i cittadini statunitensi arrestati in territorio americano.
La legislazione appena uscita dal Congresso segna un’altra inquietante tappa nella progressiva erosione dei diritti democratici negli USA a partire dall’11 settembre 2001 e fa parte di un più ampio pacchetto da 662 miliardi di dollari, destinato a finanziare la macchina da guerra americana nel 2012 (National Defense Authorization Act, NDAA).
Sulla legge in questione, il presidente Obama aveva inizialmente minacciato di utilizzare il proprio diritto di veto ma, in seguito ad alcune modifiche cosmetiche negoziate con i leader dei due principali partiti al Congresso, la Casa Bianca ha alla fine annunciato il suo appoggio alla misura. Così, con un voto bipartisan, mercoledì la Camera dei Rappresentanti ha espresso parere positivo con una maggioranza di 286 a 136. Il giorno successivo la legge è approdata al Senato, dove ha raccolto 86 voti favorevoli e appena 13 contrari.
La discussa norma sancisce che chiunque venga designato dal governo americano come terrorista o sostenitore di un gruppo terrorista possa essere detenuto in un carcere militare senza accuse formali o un giusto processo fino alla fine delle ostilità, cioè virtualmente per sempre, vista la natura della guerra al terrore lanciata da Washington. Come già anticipato, il provvedimento riguarda anche gli stessi cittadini americani, mentre espande la definizione di “campo di battaglia” praticamente a tutto il pianeta.
La nuova mossa del Congresso americano, in accordo con la Casa Bianca, conferisce dunque un riconoscimento legale agli abusi che avevano contraddistinto l’amministrazione Bush e, allo stesso tempo, revoca di fatto alcuni diritti fondamentali fissati dalla Costituzione, tra cui quelli dell’habeas corpus - il diritto di contestare davanti ad un giudice un arresto arbitrario - e del giusto processo (Quinto e Sesto Emendamento).
La custodia militare prevista per i cittadini americani sospettati di terrorismo - non automatica ma a discrezione dell’esecutivo - abolisce inoltre potenzialmente il Posse Comitatus Act del 1878, il quale proibisce ai militari lo svolgimento di funzioni di polizia sul territorio dell’Unione.
La minaccia di usare il veto da parte di Barack Obama, com’è ovvio, non era stata dettata da scrupoli di natura democratica, bensì dal timore che l’azione del Congresso avesse potuto compromettere alcuni dei poteri assegnati al presidente e ad agenzie federali come FBI e CIA in materia di anti-terrorismo. Per venire incontro ai dubbi della Casa Bianca e assicurare il passaggio della legislazione, martedì sono stati annunciati modesti cambiamenti che lasceranno intatte le facoltà operative delle suddette agenzie, così come quella del presidente di decidere sulla detenzione in strutture militari dei sospettati.
Nelle parole del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, grazie alle modifiche apportate, la legislazione approvata non comporterà ora alcuna minaccia alla facoltà del presidente di “raccogliere informazioni, colpire i terroristi e proteggere i cittadini americani”.
D’altra parte, l’amministrazione democratica in carica è andata da tempo ben oltre quella di Bush in questo ambito, giungendo fino ad assegnare al presidente il potere di decidere unilateralmente l’assassinio mirato di cittadini americani accusati di far parte di organizzazioni terroristiche senza passare attraverso le normali procedure legali. Quest’ultima è ad esempio la sorte riservata nel solo 2011 al predicatore radicale Anwar al-Awlaki, al figlio sedicenne e ad altri sospettati con passaporto americano, tutti uccisi negli ultimi mesi in Yemen.
Il vasto favore raccolto tra le forze politiche americane da questo ennesimo restringimento dei diritti civili negli Stati Uniti dimostra ancora una volta come entrambi i partiti principali siano allineati nella difesa dei metodi anti-democratici che hanno contraddistinto l’azione dei governi americani nel corso dell’ultimo decennio.
Ironicamente, poi, l’approvazione di una misura che smantella ulteriormente questi stessi diritti è giunta a distanza di 220 anni esatti dall’entrata in vigore del “Bill of Rights” (15 dicembre 1791), cioè i primi dieci emendamenti alla Costituzione, con la cui approvazione vennero codificate le conquiste democratiche ottenute in seguito alla Rivoluzione Americana.
Queste ed altre simili iniziative adottate dall’amministrazione Obama confermano infine non solo l’illusorietà delle promesse di un presidente che si era impegnato a farla finita con i metodi del suo predecessore, ma anche la persistente impossibilità da parte dell’intera classe dirigente americana di ristabilire un sistema pienamente democratico dopo dieci anni di aberrazioni ed eccessi.
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di Rosa Ana De Santis
Continua la caccia al visionario Joseph Kony, anche con l’appoggio degli Stati Uniti. La cattura del capo della guerra intestina che flagella il paese da troppi anni, in modo particolare le zone del Nord e il distretto di Gulu, potrebbe però non rappresentare la fine del conflitto e la pacificazione del paese. Tutti coloro che, anche bambini, sono stati catturati e obbligati a far parte della milizia santa LRA, sono ormai considerati nemici dal resto della popolazione e vivono in uno stato di isolamento e discriminazione.
Tantissimi i combattenti e i cani sciolti che, anche una volta catturato il capo massimo, proseguirebbero, sotto l’egida simbolica dell’esercito ribelle, razzie e saccheggi, mantenendo il potere del terrore nel paese.
Solo per 13 mila ex-sequestrati dall’Lra a cui è stata garantita l’amnistia, gli altri si arrangiano. Gli uomini lavorano come autisti o agricoltori di sussistenza, le donne vendono alcolici o fanno le domestiche. Numerose le testimonianze di ragazzi e ragazze che, rapiti per anni dalle truppe di Kony, costretti a razziare e combattere e le donne a prostituirsi, una volta liberati o fuggiti hanno faticato a reintegrarsi, ma non solo per gli aspetti traumatici, anche per la difficoltà di reinserirsi nella società. La voce di questi protagonisti invita a una sorta di amnistia generale anche per Kony e i suoi fedelissimi.
Il governo ugandese ha previsto l’amnistia a condizione della resa e una sola volta, pertanto quanti sono ritornati nell’esercito santo hanno perduto questa possibilità. C’è da dire però che molti di quanti all’apparenza sono tornati nell’LRA, sono stati spesso cooptati se non rapiti. E’ previsto inoltre che, in casi speciali, il Ministro degli Affari Esteri possa negare l’amnistia.
Sembra piuttosto plausibile che questo sarà il caso giuridico che riguarderà Kony e chi come lui ha condotto le azioni più sanguinarie e ha ordito tutti i piani di distruzione intestina del paese e della sua gente dal lontano 1985, da quando è iniziata la contrapposizione al governo del Presidente monarca Yoweri Museveni per il riscatto della marginalizzazione del nord Uganda sull’ispirazione millenaristica dei dieci comandamenti.
L’atteggiamento delle vittime sacrificate da Kony ricorda molto, nell’atteggiamento e nella sostanza, quanto accaduto in Sudafrica alla fine del massacro dell’apartheid. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione consentì a molti afrikaners colpevoli di ottenere l’amnistia; per condurre il paese ad una rinascita democratica nella nonviolenza si procedette - almeno è questa l’immagine che è rimasta al mondo - con un eccessivo tasso di clemenza e indulgenza.
Il tribunale fu non solo il momento della legge e della pena, ma anche quello delle confessioni e delle testimonianze. L’Uganda, nelle sue pagine dolorose ma molto diverse da quelle del segregazionismo sudafricano, sembra volersi avviare allo stesso epilogo per volontà delle stesse vittime.
Una normalizzazione, un portato culturale del forte cristianesimo di confessione anglicana e di altre chiese protestanti diffuse a tappeto nei luoghi più remoti dell’Uganda, una pietà troppo grande per chi si aspetterebbe giustizia e un modo troppo debole per dare un nuovo corso di storia al paese. O semplicemente un atteggiamento verso la vita e il male che affonda in radici troppo lontane da noi.
Chi negozia la propria dignità a partire da oggi e domani, tratta il passato come una morte perché del resto è solo perduto. Forse questo è l’unico modo che un continente ridotto in schiavitù ha di sopravvivere al proprio passato e, nello stesso tempo, l’unico per non riscattarsi mai abbastanza.
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di Michele Paris
Con una mossa a sorpresa, alcuni giorni orsono la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso di intervenire nella disputa legale relativa alla discussa legge sull’immigrazione approvata l’anno scorso dallo stato dell’Arizona. Il parere del supremo tribunale USA su questa legge profondamente anti-democratica influirà non solo sulla campagna elettorale per le presidenziali del 2012 ma anche e soprattutto sull’interpretazione dei rapporti tra gli stati e il governo federale, con conseguenze potenzialmente rovinose per tutti i cittadini americani.
La famigerata legge adottata dall’assemblea statale dell’Arizona nell’aprile del 2010 (Arizona Senate Bill 1070) conteneva disposizioni gravemente lesive dei diritti civili ed era giunta nel pieno di un’ondata xenofoba alimentata da ambienti di estrema destra come i Tea Party, in quel momento al centro dell’attenzione di quasi tutti i principali media d’oltreoceano.
Tra i punti più controversi della legge c’era la facoltà assegnata alle forze di polizia locali di fermare chiunque fosse sospettato di essere un immigrato illegale per verificare la regolarità dei documenti in suo possesso. L’attenzione delle autorità avrebbe potuto essere rivolta verso qualsiasi individuo che avesse sollevato un “ragionevole dubbio” sul proprio status di immigrato irregolare, dando di fatto il via libera a perquisizioni e arresti arbitrari. Inoltre, la stessa legge trasformava in reato anche solo la ricerca d’impiego da parte di un immigrato senza documenti, così come la fornitura di assistenza e protezione agli irregolari.
La legislazione approvata in Arizona ha successivamente ispirato una serie di iniziative simili in altri stati - tutti amministrati dai repubblicani, come Alabama, Carolina del Sud, Georgia, Indiana e Utah - con le quali si cerca in tutti i modi di discriminare gli immigrati, escludendoli dall’accesso alla casa, al lavoro e all’educazione.
Contro la legge SB 1070 dell’Arizona, nel luglio dello scorso anno l’amministrazione Obama aveva intentato un’azione legale presso il circuito federale. La mossa della Casa Bianca non era dettata in realtà dalla natura anti-democratica del provvedimento, come dimostrano gli 1,2 milioni di lavoratori immigrati deportati in questi ultimi tre anni contro poco più di un milione e mezzo durante gli otto anni dell’amministrazione Bush. A motivare Obama è stato bensì il principio costituzionale per cui la facoltà di regolare le questioni relative all’immigrazione spetta esclusivamente all’autorità federale e non ai singoli stati.
Su queste basi, ad aprile di quest’anno, la Corte d’Appello federale per il Nono Circuito, con sede a San Francisco e giurisdizione sull’Arizona, ha così cancellato alcune delle più odiose disposizioni della legge in questione. Su questa sentenza la Corte Suprema ha però deciso ora di dare la propria opinione che, alla luce della composizione del tribunale e dei precedenti più recenti, con ogni probabilità determinerà il ripristino della legge dell’Arizona nella sua sostanziale integrità.
Significativamente, la decisione di rivedere il verdetto della Corte d’Appello federale è stata presa di propria iniziativa dalla Corte Suprema, contro il parere della stessa amministrazione Obama che chiedeva invece di lasciare inalterata la sentenza che ha bloccato la legge. La sola scelta di intervenire sulla questione sembra perciò prefigurare la posizione della maggioranza all’interno della Corte Suprema. Per questo, le reazioni della destra americana sono state a dir poco euforiche, a cominciare dalla governatrice dell’Arizona, Jan Brewer, che aveva firmato la legge nella primavera del 2010.
A far prevedere un esito favorevole ai sostenitori della legge anti-immigrazione è stata anche la decisione di ricusare se stessa presa da Elena Kagan. Quest’ultima, scelta per far parte della Corte Suprema l’anno scorso da Obama e di orientamento moderatamente progressista, prima della sua nomina aveva infatti lavorato per la Casa Bianca, ora coinvolta nel procedimento legale. Il venir meno del suo voto rende ancora più confortevole il margine del blocco conservatore all’interno della Corte.
Sulla questione dell’immigrazione, oltretutto, nel maggio scorso la Corte Suprema aveva già emesso un verdetto favorevole ad un’altra legge dello stato dell’Arizona, secondo la quale possono essere inflitte pesanti sanzioni a quelle aziende che danno impiego agli immigrati irregolari.
La decisione di intervenire sulla legge SB 1070 dell’Arizona conferma ancora una volta il netto spostamento a destra del tribunale costituzionale americano in questi anni e una chiara volontà di condizionare il dibattito politico nel paese promuovendo un’agenda di stampo reazionario. A conferma di ciò, solo nel corso di questo anno giudiziario, sono attese altre importanti decisioni da parte della Corte Suprema, alcune delle quali giungeranno nel vivo della campagna elettorale 2012.
I nove giudici si esprimeranno ad esempio su questioni che potrebbero avere conseguenze sul futuro del sistema sanitario e sull’assegnazione di una manciata di seggi al Congresso. Nel primo caso la Corte dovrà decidere la costituzionalità dell’obbligo di acquisto di una polizza assicurativa da parte di tutti gli americani, come previsto dalla riforma sanitaria di Obama. Nel secondo è da stabilire la legittimità di una mappa imposta da un tribunale federale del Texas che ha ridisegnato i confini di alcuni distretti elettorali in questo stato dopo che il Parlamento locale a maggioranza repubblicana aveva approvato un proprio piano sfavorevole ai candidati democratici.
È la decisione sulla legge dell’Arizona, tuttavia, che sembra avere le implicazioni più profonde, tali addirittura da incidere sull’assetto istituzionale americano. Secondo la costituzione USA, è il Congresso federale ad avere la facoltà esclusiva di “stabilire una legge uniforme sulla naturalizzazione”.
Un dettato questo che ha influito sui precedenti verdetti della Corte Suprema in materia d’immigrazione e che ha dunque tradizionalmente escluso per i singoli stati la possibilità di approvare proprie leggi in questo ambito. La decisione che si attende dalla Corte rischia invece di ribaltare completamente questo punto di vista, facendo sentire i propri effetti ben al di là della legge partorita dai repubblicani in Arizona.
Come hanno fatto notare alcuni commentatori, la disputa fra gli stati e il governo/congresso federale riporta alla mente i tentativi delle assemblee statali di bloccare l’applicazione della legislazione sui diritti civili degli anni Sessanta. Proprio queste e altre leggi progressiste adottate negli USA - riguardanti non solo la discriminazione razziale, ma anche questioni come il lavoro minorile, il salario minimo o, appunto, il rispetto dei diritti degli immigrati - potrebbero essere a rischio se la Corte Suprema dovesse fissare un nuovo principio che assegna maggiore autonomia decisionale ai singoli stati in questi campi.
Un’evoluzione pericolosa quella che si prospetta e che metterebbe ancor più a rischio diritti democratici fondamentali conquistati con grande fatica e di cui beneficiano non solo gli immigrati senza documenti, ma tutti i cittadini degli Stati Uniti d’America.
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di Michele Paris
In una intervista alla CBS il presidente Obama è tornato ad esprimersi con i toni populisti che sempre più stanno caratterizzando le sue più recenti uscite pubbliche. Nel programma “60 Minutes”, l’inquilino democratico della Casa Bianca ha anche riservato alcuni attacchi al Partito Repubblicano, responsabile, a suo dire, della mancata attuazione di politiche efficaci per risolvere la crisi economica in atto.
Da qualche tempo ormai lanciato nella campagna elettorale per la rielezione nel 2012, Obama ha criticato duramente l’intransigenza dei repubblicani, i quali continuano a non volere avviare una “discussione onesta” sulle scelte di politica economica che hanno provocato la recessione. Per Obama, l’atteggiamento ostruzionista del Partito Repubblicano - emerso in questi giorni attorno alla questione del prolungamento dei benefici fiscali per i lavoratori americani in scadenza a fine anno - sarebbe una strategia studiata a tavolino e adottata fin dal 2009 per infliggere il maggior danno possibile allo stesso presidente, costretto così a far fronte ad una situazione economica sempre più deteriorata.
Quando il giornalista della CBS Steve Kroft ha poi chiesto se durante la campagna elettorale del 2008 fossero state fatte troppe promesse, Obama ha sostenuto che il suo è sempre stato un progetto a lunga scadenza per il paese e che per cambiare la mentalità di Washington, dominata dagli “interessi speciali”, sarà necessario più di un mandato e, verosimilmente, anche più di un presidente.
A sfidare Barack Obama per la Casa Bianca nel novembre del 2012, a detta dei più recenti sondaggi, sarà uno tra l’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney e l’ex speaker della Camera Newt Gingrich, in netta ascesa nel gradimento degli elettori repubblicani nelle ultime settimane. Secondo Obama, la vittoria nella corsa alla nomination repubblicana non cambierà di molto la sua strategia, dal momento che i principi sostenuti da Romney e da Gingrich sono sostanzialmente identici, mentre sarebbe ben diversa la visione proposta da Obama rispetto a entrambi.
A chi lo critica per la performance offerta finora alla guida del paese, inoltre, il presidente risponde con la consolidata tattica democratica del male minore. Di fronte allo sconforto di buona parte della base elettorale democratica per un partito che difende strenuamente gli interessi delle classi privilegiate, Obama esorta classe media e lavoratori a considerare l’alternativa ad un suo secondo mandato. Se dovesse cioè prevalere l’astensionismo o il voto di protesta indirizzato ai repubblicani, quello che attende gli americani sarebbero, ad esempio, ulteriori tagli alle tasse per i più ricchi e lo smantellamento della regolamentazione del settore privato, politiche entrambe che l’amministrazione Obama ha peraltro perseguito o promesso di perseguire in questi tre anni.
Nel corso dell’intervista rilasciata al network americano, Obama ha anche elencato i presunti successi ottenuti durante il suo primo mandato alla Casa Bianca, a cominciare dalle modeste misure di stimolo all’economia che avrebbero contribuito ad evitare una seconda Grande Depressione. I risultati snocciolati da Obama, in realtà, non rappresentano affatto cambiamenti che hanno alleviato le sofferenze degli strati più disagiati della popolazione o che hanno ristabilito il ruolo degli Stati Uniti di paladini della democrazia.
La riforma sanitaria, infatti, si è risolta in un’operazione totalmente a vantaggio del settore privato che porterà al contenimento dei costi e ad un vero e proprio razionamento dei servizi a disposizione per decine di milioni di americani. Allo stesso modo, la riforma del sistema finanziario permetterà sostanzialmente alle banche di Wall Street di operare come hanno fatto negli ultimi tre decenni. L’uccisione di Osama bin Laden, poi, è stata un’azione palesemente illegale dal punto di vista del diritto internazionale ed ha incrinato i rapporti degli USA con il Pakistan, alimentando ancor più le tensioni in Asia centrale. Il ritorno alla crescita economica negli Stati Uniti, infine, ha beneficiato quasi esclusivamente le élite economiche e finanziarie, le quali oltretutto hanno potuto contare anche sulla costante compressione dei livelli retributivi e dei diritti dei lavoratori.
L’intervista alla CBS di domenica è giunta pochi giorni dopo un discorso sullo stato dell’economia dello stesso Obama nella cittadina di Osawatomie, in Kansas, ampiamente apprezzato dalla stampa liberal. In questa apparizione pubblica in un stato solidamente repubblicano, il presidente, strizzando l’occhio al movimento di protesta Occupy Wall Street, si è atteggiato a difensore dell’uguaglianza sociale contro gli eccessi dei colossi dell’industria finanziaria.
l tentativo di Obama è chiaramente quello di canalizzare la rabbia diffusa nel paese verso la campagna per la sua rielezione, anche se appare tutt’altro che certo che la maggior parte degli elettori sia disposta a considerare sincera la nuova attitudine del presidente dopo tre anni di politiche rivolte alla difesa dei grandi interessi.
Le critiche di Obama verso Wall Street e un capitalismo selvaggio che ha prodotto enormi disuguaglianze nel paese e livelli povertà sempre crescenti sono dunque poco credibili. La sua amministrazione in questi tre anni ha fatto di tutto per salvare i profitti delle grandi banche e delle corporation americane colpite dalla crisi a scapito dei lavoratori e di quella classe media di cui ora Obama si fa paladino. Come se non bastasse, mentre il presidente sostiene pubblicamente di condividere le ragione del movimento Occupy Wall Street, la sua amministrazione e i colleghi democratici in tutto il paese hanno da tempo proceduto a reprimere le proteste diffusesi rapidamente da New York alle principali città americane.
Le stesse critiche rivolte ai repubblicani suonano false. Quelle iniziative che Obama minaccia saranno implementate in caso di vittoria repubblicana nel 2012, infatti, difficilmente potranno superare quelle messe in atto da un’amministrazione democratica che in questi anni ha già effettuato tagli devastanti alla spesa pubblica, aumentato le disuguaglianze sociali nel paese e ridotto ulteriormente i diritti democratici dei cittadini in nome della guerra al terrore.
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di Mario Braconi
Il nome della strada di Londra dove ha sede la Bank of Ideas (Banca delle Idee) è di buon auspicio: Sun Street, ovvero strada del sole. A prescindere da quale sia la vera origine di quel nome luminoso, esso fa pensare ad un nuovo inizio: esattamente un grande cambiamento quello in cui sperano gli uomini e le donne che hanno l’hanno fondata e la animano, ovvero le persone del collettivo “Occupy London Stock Exchange”. A metà novembre, gli attivisti del movimento anti-banche hanno occupato una palazzina di uffici nel quartiere londinese di Hackney, al momento non utilizzata.
Una mossa davvero azzeccata anche dal punto di vista della comunicazione: non solo infatti gli occupanti si sono assicurati un loro spazio da usare per dibattiti ed attività di resistenza varia, ma lo hanno fatto a spese di UBS, la banca svizzera proprietaria dell’edificio. Non appena gli attivisti hanno preso possesso dei locali, si sono preoccupati di metterli in sicurezza: infatti, secondo le leggi del Regno Unito (per le quali l’occupazione abusiva è questione da codice civile), se si riesce a dimostrare di aver effettivamente preso possesso dell’edificio occupato, ad esempio sostituendo o riparando eventuali vetri rotti, cambiando le serrature eccetera, risulterà molto più difficile per il proprietario buttare fuori lo (gli) squatter: in pratica, non potrà farlo se non dopo un procedimento in tribunale.
Jack Holburn, un sostenitore del movimento, spiega così le ragioni del contrappasso: “Così come le banche si riprendono le case dalle famiglie [in difficoltà che non riescono a stare dietro alle rate del mutuo, 9.000 solo nell’ultimo trimestre secondo Occupy] gli immobili non utilizzati di proprietà della banca sono stati oggetto di riappropriazione da parte del pubblico”. Non a caso, uno striscione fuori dagli uffici occupati recita “UBS: ci devi dei soldi”.
La domenica successiva all’occupazione gli uffici della banca hanno riaperto al pubblico sotto l’egida della neonata “Banca delle Idee”; nelle intenzioni degli animatori, dovrebbe essere un luogo deputato allo “scambio non monetario di idee al fine di dare un contributo alla risoluzione delle attuali pressanti questioni economiche, sociali ed ambientali.” Chiunque è il benvenuto alla banca delle idee, purché si attenga alla regola di astenersi da transazioni che comportino passaggio di denaro: “lo scambio”, infatti “riguarda idee o capacità, nessuno dovrà tirar fuori un quattrino per prendere parte alla attività della banca.”
Attività, giochi, dibattiti continuano alla Banca delle Idee, che è aperta al pubblico da mezzogiorno alle 11 di sera durante i giorni lavorativi e dalle 10 alle 23 nel fine settimana. Contemporaneamente, va avanti il procedimento legale intentato da UBS agli occupanti del suo edificio: era attesa per oggi una sentenza della corte di Hackney che avrebbe dovuto stabilire se la bella avventura della banca delle idee avrà o meno un futuro. Sembra però che la decisione sia slittata alla settimana prossima.
Nel frattempo, il movimento incassa la rumorosa solidarietà di alcune star più cool della musica “intellettuale” britannica. L’altro ieri sera, in un concerto cui sono state invitate un centinaio di persone oltre alla stampa, al piano terra della sede occupata dalla UBS per due ore in un DJ set condiviso Thom Yorke (voce e leader dei Radiohead, in un look molto radical-chic, capelli lunghi e barba fluente), 3D dei Massive Attack e Tim Goldworthy del collettivo UNKLE.
Gli organizzatori hanno fatto sapere che la performance è un modo con cui gli artisti hanno deciso di ringraziare gli uomini e le donne dell’eterogeneo movimento che si batte contro le ingiustizie e lo strapotere delle banche; la registrazione dell’evento sarà presto resa disponibile per il download digitale a pagamento secondo il principio stabilito anni fa dagli stessi Radiohead del “paga quello che vuoi”. Una forma di finanziamento della compagna di occupazione generale. Yorke aveva già dato la sua disponibilità a cantare per gli attivisti di Occupy Wall Street a New York, ma l’evento era stato cancellato a causa dell’eccessivo afflusso di persone, che rischiava di renderlo pericoloso.
Adam Fitzmaurice, uno degli organizzatori della serata, ha dichiarato alla stampa: “Abbiamo incontrato rappresentanti della Chiesa Anglicana, oggi le rockstar. Il movimento Occupy ha talmente tante culture al suo interno”. La speranza è questa eterogeneità non finisca per essere un limite.