di Carlo Musilli

Ci ha pensato a lungo, ma alla fine Barack Obama si è ricordato di essere un democratico. E incredibilmente, dopo mesi passati a questionare con i Repubblicani, ha lanciato la sfida agli avversari sul terreno più incandescente: la politica fiscale, le innominabili "taxes". Il Presidente americano ha annunciato un piano da 4.400 miliardi di dollari in dieci anni per abbattere il deficit. Punta di diamante della nuova strategia è la cosiddetta "Buffett-rule", la regola di Buffett, che prevede di alzare le tasse ai super ricchi per equipararle a quelle della classe media. I redditi superiori al milione di dollari l'anno verrebbero tassati con un'aliquota minima del 35%, come avviene per i comuni mortali, i lavoratori dipendenti. Attualmente, invece, il prelievo sulle rendite finanziarie è fermo a un vergognoso 15%.

Nonostante lo sdegno dei conservatori pseudo-liberisti, la nuova legge non avrebbe nulla di socialista. Anzi, riporterebbe negli Stati Uniti un principio elementare d'equità fiscale smarrito sotto le amministrazioni repubblicane, quello della progressività delle imposte (inscritto nella Costituzione italiana all'articolo 53). Tanto più che a proporre la nuova misura è stato Warren Buffett, mega miliardario americano che per quattrini è secondo solo a Bill Gates. Non esattamente un trotzkista o un precario di Detroit.

Il principio è talmente semplice da risultare ovvio: "Se sei così ricco devi pagare perlomeno l'aliquota della tua segretaria". Parola di Warren, che quest'estate ha combattuto un'insolita battaglia contro i suoi stessi interessi dalle colonne del New York Times. "Voglio pagare più tasse!", scriveva il magnate illuminato poco più di un mese fa, lasciando a bocca aperta colleghi e amici paperoni.

Quanto al mercato interno, la nuova misura non sconvolgerebbe affatto gli assetti dell'economia americana, perché colpirebbe soltanto lo 0,3% dei contribuenti, vale a dire 450mila delle 144 milioni di dichiarazioni dei redditi registrate nel 2010. Non ha quindi senso sostenere, come fanno i conservatori, che un prelievo aggiuntivo sui capitali più gonfi possa provocare una contrazione degli investimenti e quindi ripercuotersi negativamente sul lavoro. Anche perché il gettito della "Buffett-tax" sarà destinato a finanziare il programma per l'occupazione presentato la settimana scorsa da Obama (447 miliardi di dollari da spartire fra scuola, infrastrutture e sgravi fiscali per chi assume disoccupati).

Non c'è alcuna ragione socio-economica che sconsigli di proseguire su questa strada, se non quella di voler tutelare ciecamente gli interessi di una minoranza privilegiata a discapito della collettività. Purtroppo per gli americani, sembra proprio questa la ratio che da qualche anno tiene insieme il Partito Repubblicano. Deviati da un concetto distorto di capitalismo secondo cui chi è ricco ha diritto a diventare ricchissimo e chi è povero ha il dovere di pagare, poco più di un mese fa i conservatori hanno quasi provocato il default del loro Paese pur di non toccare i privilegi acquisiti dall'elite. La drammatica farsa sull'innalzamento del tetto del debito è andata avanti per settimane proprio perché i Repubblicani non volevano sentir parlare di tasse ai ricchi.

 A questo punto viene da chiedersi: cosa é cambiato fra i primi di agosto e la fine di settembre? Assolutamente niente. Sotto questo profilo gli americani sono stati causa del proprio male. Votando in maggioranza per l'opposizione alle elezioni di medio termine dello scorso novembre, gli elettori Usa hanno consegnato ai Repubblicani il controllo della Camera, vale a dire il potere di veto sulle proposte di riforma avanzate dai Democratici.

Questo significa che le nuove iniziative di Obama, pur riempiendo i cuori di speranza, in realtà sono velleitarie. O meglio, fanno parte di una precisa strategia politica. A Washington sanno tutti benissimo che il Congresso non approverà mai nulla che assomigli neanche lontanamente alla Buffett-rule. E' vero, da qualche giorno è al lavoro una commissione bipartisan che entro novembre dovrà trovare un accordo per ridurre il deficit, ma "le nuove tasse non sono un'opzione sul tavolo", ha spiegato il repubblicano John Boehner, presidente della Camera.

Quando però arriveranno i momenti decisivi della campagna elettorale, difficilmente la destra potrà continuare a proporsi come paladina degli interessi e dei valori americani contro il presunto "socialismo di Obama". Il Presidente sta strappando la maschera ai suoi avversari. A questo serve, in fondo, la regola di Buffett.

 

di Mario Braconi

Isabel Kershner, del New York Times, racconta in presa diretta come sta vivendo la gente del campo profughi di Kalandia il rally dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite; quello che, come dice l’analista politico Khalil Shikaki, rappresenta “il compromesso tra quanti [tra i palestinesi] sono pronti ad azioni drammatiche e quelli che invece si accontentano dello status quo, per quanto drammatico”.

La gente di Kalandia, situata tra Gerusalemme e Ramallah, appare tiepidamente favorevole all’iniziativa di Mahmud Abbas. Pur essendo consapevoli dei possibili contraccolpi (in particolare del possibile taglio del sostegno finanziario americano) le persone sentite dalla Kershner restano generalmente convinte che “qualche cosa bisognava fare”; in fondo, come sostiene Selwa Yassin del villaggio di Eyn Yabrud, “qualsiasi cosa accada, sarà sempre meglio che perdere del tutto la Palestina”.

Abbas, per sostenere la sua campagna “Palestina 194” (ovvero Palestina centonovantaquattresimo Stato delle Nazioni Unite), ha messo a punto una strategia accorta, che si potrebbe riassumere così: massima esposizione a New York e profilo basso a casa. “Niente scontri, niente caos, dal lato nostro” ha riferito ai giornalisti la scorsa settimana. “Le nostre istruzioni alla popolazione sono nette: non andate ai posti di blocco, non cercate l’attrito con i soldati israeliani, se sono loro ad entrare nelle nostre città, non reagite” ha proseguito.

L’attenzione in questo momento è tutta sulla non violenza: non a caso, per dare maggior credibilità alla campagna è stato reclutato Abdallah Abu Rahama. Oltre a fare il maestro, Abu Rahma è stato coordinatore del Comitato Popolare di Bil’in contro il Muro, che si opponeva alla costruzione di una “barriera di sicurezza” che tagliava in due il suo villaggio (Bil’in). Per la cronaca, a forza di proteste (e di carte bollate), a fine giugno di quest’anno il muro è stato rimosso e riposizionato come richiesto dalla Suprema Corte israeliana (il sito ufficiale di IDF ha l’impudenza di far notare che l’operazione di ricollocamento della barriera e la risistemazione degli olivi che vi si trovano sono costati parecchi soldi al contribuente israeliano...).

A fine dicembre del 2009 Abu Rahama è stato arrestato dagli Israeliani con l’accusa di possesso di pallottole di M16, di fumogeni e granate, che “l’imputato e i suoi sodali hanno usato per una esposizione che mostrava alla gente i mezzi impiegati dalla forze di sicurezza israeliane”. Abu Rhama ha confermato di aver esposto gli ordigni esplosi per una piccola mostra, il cui obiettivo era documentare i metodi muscolari con cui IDF reprime le proteste dei palestinesi.

L’obiettivo peraltro non è stato mai segreto, anche se Abu Rhama ha sempre negato che tra gli oggetti raccolti vi fossero proiettili di M16. Quest’ultima accusa, sempre secondo Abu Rahma, proverrebbe da uno dei tanti giovani arrestati dall’esercito in concomitanza con le contestazioni della gente di Bil’in.

Non sempre le imputazioni che piovono sui personaggi in vista dei movimenti di sollevazione contro gli abusi perpetrati da IDF si rivelano fondate. Racconta Amira Hass su Haaretz che una corte militare ha a suo tempo scagionato un altro attivista di Bil’in, Mohammed Khatib, dall’accusa di lancio di pietre: non poteva fare altro, anche perché se Khatib fosse riuscito a lanciare pietre a Bil’in dalla località estera dove si trovava il giorno in cui secondo l’accusa avrebbe consumato il reato, ci si sarebbe trovati di fronte ad un fenomeno paranormale.

In ogni caso, a dicembre 2009 fece scalpore l’arresto di Abu Rahma, divenuto presto uno dei simboli della rabbia del popolo palestinese contro il “muro di sicurezza” a West Bank: del resto, nessuno poteva immaginare che il possesso di munizioni esplose (da altri) potesse essere una buona ragione per finire in galera. L’arcivescovo premio Nobel per la pace (1984) Desmond Tutu ha avuto modo di conoscere Abu Rahma nel corso di una sua visita nei Territori nell’estate del 2009, riportandone un’impressione molto favorevole: “Siamo colpiti dalla dedizione di Abu Rahma e di Khatib all’azione politica pacifica e dal loro successo nell’azione di sfida contro il muro che arbitrariamente separa la gente di Bil’in dai loro olivi”, si legge nei memorandum della delegazione di leader internazionali di cui faceva parte anche l’arcivescovo sudafricano.

Tutu condannò apertamente l’arresto di Abu Rhama, chiedendo alle autorità israeliane il suo immediato rilascio. Questo purtroppo non ha impedito al maestro di Bil’in di passare 15 mesi dietro le sbarre: egli è stato liberato solo il 15 marzo di quest’anno.

Oggi Abu Rahma, nella sua veste di “testimonial” di "Palestine 194", vorrebbe portare quante più persone nelle piazze: “Stiamo cercando di somigliare alla primavera araba”, ha detto. Un’esplosione di violenza sarebbe deleteria per i palestinesi: oltre alle ovvie azioni repressive israeliane, il rischio, qui, è di rafforzare Hamas.

Sullo sfondo resta il più prosaico ma non meno importante tema del denaro americano: se cessasse di affluire nelle casse dell’Autorità Palestinese, la paralisi sarebbe più che certa. Secondo Kershner, i palestinesi sembrano in generale orientati ad abbracciare la resistenza non violenta, dopo due Intifada che non hanno portato grossi dividendi politici. Resta però la preoccupazione: poiché portare moltitudini nelle piazze potrebbe scatenare forze incontrollabili. La speranza è che prevalga il buonsenso.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è concluso a Berlino l’ultimo appuntamento elettorale 2011 della Germania e la capitale ha riconfermato senza sorprese il terzo mandato al socialdemocratico Klaus Wowereit. A stupire è stato il partito dei Pirati, il movimento dell’informazione libera, che debutterà per la prima volta nel Parlamento regionale. Grande successo anche per i Verdi di Renate Kuenast, mentre i cristiano-democratici, il partito di Angela Merkel, guadagnano soltanto qualche punto rispetto al 2006. A farne le spese sono i Liberali, che non riescono a superare la soglia minima richiesta per essere rappresentati e la sconfitta di Berlino potrebbe essere quella decisiva per un partito che, a quanto pare, non ha più la credibilità per far parte di un Governo nazionale.

Nonostante recenti posizioni impopolari, Klaus Wowereit (SPD) è stato sin dall’inizio il grande favorito di queste elezioni. Già sindaco della città-stato di Berlino da un decennio, il leader socialdemocratico è stato tra i primi sostenitori dei progetti per l’ampliamento dell’autostrada A100 e per la costruzione dell’aeroporto Berlin Brandenburg International, due opere costose e inquinanti che non hanno incontrato il favore dei berlinesi e che avrebbero potuto mettere in discussione la sua riconferma nella capitale. Wowereit è riuscito comunque a mantenere la poltrona, seppur perdendo quasi 2 punti percentuali.

Durante l’ultimo mandato, i socialdemocratici hanno governato con Die Linke, il partito di estrema sinistra che, secondo le proiezioni, questa volta avrebbe conquistato l’11.5% degli elettori: risultato poco brillante che esclude matematicamente una coalizione di governo con l’SPD. A Wowereit rimangono due alternative: i Verdi o una “Grosse Koalition” con la CDU, il partito della Cancelliera, grande rivale da sempre. La scelta non è facile: Renate Kuenast, leader del partito degli ecologisti, ha dichiarato che un governo rosso-verde ci sarà soltanto a patto di un’interruzione del progetto A100 (ma Wowereit non sembra proprio del parere), mentre i cristiano-democratici condividono le decisioni dei socialdemocratici in ambito urbanistico, ma non a livello di politica interna, dove il disaccordo sembra insanabile.

Anche se, dopo i primi exit-pool, già qualcosa è cambiato. Sulla scia dei successi di questo super anno elettorale, i Verdi hanno ottenuto a Berlino il 18,5% dei voti, aumentando di quasi 5 punti percentuali rispetto al 2006. Le ultime interviste hanno svelato che i Verdi sono pronti a “valutare con calma una possibile coalizione [con l’SPD] per trovare un accordo”, perché la controversa autostrada A100 “non costituisce un impedimento”. Certo sarà difficile spiegarlo a tutti quei berlinesi che da mesi ormai manifestano sotto le bandiere del partito ecologista contro l’ampliamento della famigerata autostrada.

Non sembrano invece disposti a prendere in considerazione nessun tipo di alleanza il Piratenpartei, la vera sorpresa di queste elezioni. Con il 9% dei voti il partito dei Pirati si è guadagnato per la prima volta nella storia una posizione in Parlamento. I sondaggi li davano attorno al 10% già da alcune settimane, e il leader Andreas Baum, un ingegnere elettronico di 33 anni, aveva più volte espresso l’intenzione di far valere le proprie idee in senato contro i partiti più tradizionali. Il programma dei Pirati prevede la liberalizzazione dei diritti d’autore, la legalizzazione delle droghe leggere e una maggiore trasparenza in rete: un programma ridotto ma attuale nella sua provocazione e, a quanto pare, ha colpito al cuore una città giovane e alternativa come Berlino.

Bene i cristiano-democratici, che ottengono il 23,5% dei voti. Dopo le disfatte degli ultimi cinque appuntamenti legislativi di quest’anno, finalmente una buona notizia per il partito della Cancelliera Angela Merkel, che è riuscito a guadagnare due punti percentuali. A subire il vento della sconfitta, ancora una volta, sono invece i liberali, che non riescono a ottenere la percentuale necessaria a essere ammessi nel Parlamento berlinese. Con questa ennesima esclusione, i liberali rischiano di non essere più adatti al ruolo di forza di Governo a livello nazionale: se la Cancelliera vuole continuare a presiedere la Germania (e a dire la sua in Europa), certo dovrà inventarsi dei nuovi partner.

 

di Michele Paris

Nelle elezioni anticipate per il rinnovo del Parlamento danese di giovedì, la coalizione di governo di centro-destra è stata sconfitta di misura dall’opposizione di centro-sinistra. A guidare il piccolo paese scandinavo sarà la candidata premier del Partito Social Democratico, Helle Thorning-Schmidt, prima donna della storia a capo di un governo in Danimarca. L'affluenza alle urne è stata dell'87,7% ed ha raggiunto il suo livello più alto degli ultimi decenni. "Ce l'abbiamo fatta. Oggi abbiamo scritto una pagina di storia", ha affermato la 44enne Helle Thorning-Schmidt dinanzi ai suoi elettori.

Anche se il suo partito ha perso terreno e registrato il peggior risultato dal 1906, la vittoria del centro-sinistra è il frutto della capacità della Thorning-Schmidt di riunire nello stesso blocco dei partiti tanto diversi come i Rossi-Verdi dell'estrema sinistra e i liberali centristi del Partito Social-liberale, cosa che era fino ad oggi impensabile.

La coalizione di centro-sinistra - Blocco Rosso - ha raccolto poco più del 50 per cento dei consensi nel paese, tradottisi in un numero di seggi che i dati parziali indicano tra gli 89 e i 92 sui 179 totali. I sondaggi fino a poco tempo fa indicavano per l’opposizione un vantaggio molto più ampio, che si è però assottigliato notevolmente nelle ultime settimane.

Hanno fatto registrare importanti progressi il partito radicale e la Lista dell'Unità. E' soprattutto grazie al loro contributo, infatti, che il blocco di centro-sinistra ha potuto ottenere 89 seggi nel Folketing, contro gli 86 degli avversari di centro-destra.

Il blocco di centro destra - Liberali e Conservatori - ha conquistato tra gli 86 e gli 88 seggi. Il Partito Social Democratico, a conferma del modesto entusiasmo suscitato, ha fatto singolarmente peggio rispetto al voto del 2007, ottenendo infatti un seggio in meno (44). I Liberali del premier uscente, Lars Loekke Rasmussen, rimangono così il primo partito, con 47 seggi, ma scontano il crollo dei consensi subito dai conservatori e il ridimensionamento del Partito del Popolo Danese di estrema destra.

Le elezioni di ieri hanno messo fine a dieci anni di governo di centro-destra. Loekke Rasmusse era alla guida di un governo di minoranza, sostenuto dall’appoggio esterno del Partito Popolare Danese (DF) xenofobo e che ha prodotto alcune delle leggi più dure sul controllo dell’immigrazione in tutta Europa.

Il partito di estrema destra DF, guidato da Pia Kjaersgaard, ha fatto segnare un leggero passo indietro rispetto al voto di quattro anni, conquistando 3 seggi in meno (22). Questa formazione politica ha esercitato in questi anni una pesante influenza sulle scelte del governo e la sua vittoria più significativa è stata l’uscita della Danimarca dal trattato di Schengen lo scorso mese di maggio. Una misura concessa dal premier Loekke Rasmussen in cambio del sostegno ad un budget che prevede tagli per oltre 9 milioni di dollari nel prossimo decennio.

In campagna elettorale, la 44enne Helle Thorning-Schmidt aveva promesso di innalzare le tasse sulle banche danesi e sui redditi più altri, così da finanziare modesti incrementi della spesa pubblica. Il leader del centro-destra, invece, aveva messo in guardia dall’aumento del carico fiscale e della spesa pubblica in un periodo di crisi economica.

Le pressioni e il clima attuale in Europa renderanno in ogni caso improbabile un’estensione significativa del welfare danese, certo più generoso rispetto agli standard europei ma eroso notevolmente negli ultimi anni. Tanto più che la Danimarca è il paese scandinavo con l’economia maggiormente in affanno e il deficit di bilancio più elevato.

Anche sul fronte dell’immigrazione non ci saranno significativi cambiamenti rispetto al recente passato. La premier in pectore ha d’altra parte già comunicato che le rigide limitazioni agli ingressi in Danimarca adottate dal precedente governo rimarranno in vigore.

I media danesi hanno accolto con grande entusiasmo la prospettiva di avere una donna a capo del governo per la prima volta nella storia della Danimarca. "Vittoria di una donna!", "La prima", "La conquistatrice": i grandi giornali si esaltano per questa bionda 44enne, leader dei Socialdemocratici, che ha portato "il blocco rosso" al governo dopo dieci anni d'opposizione.

Questa bionda elegante - per il suo debole per il lusso gli avversari l’hanno stupidamente soprannominata Gucci-Helle - che "era troppo ben vestita per i socialdemocratici, troppo nuova per assurgere alla guida dello Stato, tropo fredda per conquistare il cuore della gente", diventa la prima donna premier del Paese, scrive il quotidiano Politiken.

Helle Thorning-Schmidt iniziera' immediatamente le consultazioni per la formazione del nuovo governo danese. Lo ha annunciato la stessa leader socialdemocratica danese che con la vittoria elettorale di ieri diventa il primo Premier donna del paese: "Vogliamo lavorare con tutti i partiti disposti a partecipare", ha dichiarato la Thorning-Schmidt, specificando che i negoziati potranno "durare tutto il tempo necessario" senza fissare scadenze.

Nella giornata di venerdì, quindi, l’ormai ex premier Loekke Rasmussen rassegnerà le proprie dimissioni di fronte alla regina Margherita II, proprio mentre saranno in corso i primi colloqui per la formazione del nuovo governo di centro-sinistra.

di Michele Paris

Con milioni di americani costretti a fare i conti con una crisi economica tutt’altro che superata e una disoccupazione dilagante, i livelli di povertà negli Stati Uniti continuano a far segnare numeri da primato. A confermarlo è stata martedì la pubblicazione di un agghiacciante rapporto dell’Ufficio del Censo USA che ha fissato alla cifra record di 46,2 milioni il numero di persone al di sotto della soglia povertà nella prima potenza economica del pianeta.

I dati resi noti dall’Ufficio delle Statistiche d’oltreoceano si riferiscono al 2010 e fotografano un quadro allarmante, con povertà in aumento, redditi in discesa e un’impennata nel numero di cittadini sprovvisti di copertura sanitaria. Nel complesso, le condizioni di vita degli americani sono peggiorate nel recente passato, nonostante la ricerca faccia riferimento ad un periodo abbondantemente successivo alla fine ufficiale della recessione negli Stati Uniti (giugno 2009).

Il tasso di povertà in America nel 2010 è salito al 15,1%, vale a dire il livello più alto dal 1993. Nel 2007 era invece del 12,5% e nel 2009 del 14,3%. Ciò si traduce in un numero di poveri pari appunto a 46,2 milioni, il numero più alto in assoluto dal 1959, quando il “Census Bureau” ha iniziato a compilare le statistiche. Questo numero corrisponde alle persone che vivono al di sotto della soglia ufficiale di povertà, fissata peraltro alla cifra irrisoria di circa 22 mila dollari l’anno per una famiglia di quattro componenti e di 11 mila dollari per i single.

Particolarmente preoccupante risulta la percentuale dei minori di 18 anni che vivono in povertà, passata dal 20,7% del 2009 al 22% del 2010 (16,4 milioni). Com’è facile immaginare, ad essere colpite in maniera più grave sono le minoranze, con gli afro-americani che soffrono del tasso di povertà più elevato (27,4% contro il 25,8% del 2009).

All’interno di questa fetta enorme della popolazione americana in affanno, l’Ufficio del Censo identifica poi gli americani che costituiscono la fascia di “estrema povertà”, coloro cioè che dispongono di redditi inferiori alla metà della soglia di povertà ufficiale (circa 11 mila dollari per un nucleo famigliare di quattro persone). I più poveri tra i poveri sono 20,5 milioni, pari al 6,5% della popolazione complessiva.

A risentire di questa situazione è anche il reddito medio annuo degli americani, sceso del 2,3% tra il 2009 e il 2010 (49.445 $). Dal 2007 il reddito medio reale è crollato del 6,4% e nel 2010 è risultato inferiore di oltre il 7 per cento rispetto a quello più alto mai registrato, nel 1999. Questo dato, tuttavia, non rende a sufficienza l’idea delle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze negli USA, dove un quinto degli americani incamera oltre la metà del reddito totale del paese.

Anche in questo caso le varie minoranze hanno subito effetti diversi: i bianchi hanno visto scendere i propri redditi in media del 5,5% tra il 2009 e il 2010, gli asiatici dell’8,9%, gli ispanici del 10,1% e gli afro-americani del 14,6%. Per quei fortunati – di sesso maschile – che risultano impiegati a tempo pieno, poi, il reddito reale medio, aggiustato per l’inflazione, nel 2010 è stato praticamente identico a quello registrato nel 1973. Il numero di americani sprovvisti di un’assicurazione sanitaria, infine, è schizzato a 49,9 milioni, con una crescita di quasi un milione rispetto al 2009.

La causa principale del quadro drammatico disegnato dal Censo americano è il persistente elevatissimo tasso di disoccupazione, di fatto sfruttato dalle aziende e dallo stesso governo per spingere verso il basso le retribuzioni e cancellare le rimanenti garanzie dei lavoratori. I dati ufficiali più recenti sui senza lavoro negli Stati Uniti indicano un livello di disoccupazione attestato al 9,1%.

L’aumento vertiginoso del numero di persone al di sotto della soglia di povertà in America non è la conseguenza accidentale di dinamiche incontrollabili, bensì il risultato di politiche implementate deliberatamente dalla classe politica - repubblicana e democratica - per accrescere i profitti delle grandi compagnie private. Un processo in atto da almeno tre decenni, negli USA come altrove, che ha prodotto un gigantesco trasferimento di ricchezza a favore di una ristretta cerchia al vertice della piramide sociale, tramite ingenti tagli alle tasse per le corporation e la deregolamentazione dei settori industriale e finanziario.

I dati contenuti nel rapporto dell’Ufficio del Censo USA contrastano infatti in maniera sconcertante con quelli che indicano profitti record per le multinazionali e i giganti della finanza di Wall Street, i quali continuano a beneficiare dell’infusione di migliaia di miliardi di dollari da parte del governo e della Federal Reserve.

Di fronte alla sofferenza così evidente di ampi strati della popolazione americana, è estremamente significativo che praticamente nessun politico di spicco, a cominciare dal presidente Obama, abbia commentato il rapporto del Censo. La risposta di Washington agli spaventosi livelli di povertà negli Stati Uniti consiste anzi in nuove devastanti misure di austerity, così da tagliare ulteriormente ciò che rimane della rete assistenziale pubblica per salvare il sistema e far pagare ai redditi più bassi le conseguenze della crisi.


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