di Michele Paris

I crimini commessi dalle forze “democratiche” appoggiate dall’Occidente per rovesciare il regime di Gheddafi sono stati presentati martedì in tutta la loro evidenza in un rapporto di Amnesty International. Lo studio della ONG britannica si basa su tre mesi di indagini sul campo e mette in luce le atrocità commesse da entrambe le parti coinvolte nel conflitto in Libia. Il rapporto di 112 pagine, intitolato “La battaglia per la Libia. Uccisioni, sparizioni e torture”, non intende mettere sullo stesso piano le azioni dei fedeli di Gheddafi e dei cosiddetti ribelli, in quanto secondo Amnesty la lista dei crimini di cui si sono macchiati i primi sarebbe decisamente più lunga. Anche le forze dell’opposizione, tuttavia, si sono distinte per gravi azioni criminali che risultano essere veri e propri crimini contro l’umanità, anche se su scala minore.

“Il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) deve fronteggiare un compito difficile nel tenere a bada i combattenti ribelli responsabili di seri abusi dei diritti umani, inclusi possibili crimini di guerra, ma ha mostrato ben poca volontà di punire i responsabili” si legge nel rapporto. “I membri dell’opposizione con i quali Amnesty ha sollevato il problema hanno condannato questi abusi, anche se frequentemente ne hanno minimizzato la gravità. Qualcuno ritiene addirittura che queste siano reazioni comprensibili di fronte agli orrendi crimini commessi delle forze fedeli a Gheddafi”.

Secondo Amnesty International i ribelli hanno ucciso senza alcuna giustificazione legale più di dieci membri delle forze di sicurezza del regime tra aprile e i primi di luglio. Soprattutto, dopo la caduta di Tripoli ad agosto, gruppi agli ordini del CNT hanno assassinato impunemente, con armi da fuoco, impiccagioni e linciaggi, decine di soldati fatti prigionieri e immigrati africani di colore sospettati di essere mercenari al servizio di Gheddafi.

“Nel mese di febbraio hanno iniziato a diffondersi le voci che Gheddafi stava impiegando persone di colore come mercenari. Ciò non corrisponde al vero”, ha dichiarato lunedì alla Associated Press Nicolas Beger di Amnesty International. “Il CNT non ha fatto molto per mettere fine a queste voci, così che ora si stanno mettendo in atto vendette contro gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana”.

Secondo lo stesso Beger, questi abusi non si sarebbero fermati nemmeno dopo l’assunzione del controllo di Tripoli da parte del CNT. Gli stessi immigrati di colore, secondo il rapporto, sono esposti al rischio di attacchi violenti anche da parte dei civili libici, incitati dalla propaganda razzista e xenofoba dei ribelli e del regime del colonnello.

Nonostante la stampa occidentale in questi mesi si sia data da fare per descrivere scrupolosamente i crimini commessi da Gheddafi e per celebrare le azioni dei combattenti per la democrazia in Libia, qua e là era comunque filtrato qualche racconto relativo ai crimini degli insorti di Bengasi. La stessa Amnesty International da qualche tempo stava cercando di portare all’attenzione della comunità internazionale le persecuzioni scatenate contro gli africani sub-sahariani in Libia, sottoposti a gravi abusi solo per il colore della loro pelle.

Un rapporto pubblico di una prestigiosa organizzazione a difesa dei diritti umani porta però ora a conoscenza di tutto il mondo i crimini commessi dalle forze appoggiate dalla NATO, intervenuta ufficialmente proprio per fermare questi stessi crimini commessi contro i civili da parte del regime di Gheddafi.

Il CNT ha reagito con un certo fastidio alla denuncia di Amnesty. Il ministro della Giustizia del nuovo governo, Mohammed al-Alagi, ha sostenuto ad esempio che i ribelli, pur avendo commesso degli errori, non si sono macchiati di azioni definibili crimini di guerra.

Nel rapporto, infine, vengono elencati anche i crimini compiuti dalle forze fedeli a Gheddafi, tra cui l’uccisione di manifestanti indifesi, sparizioni di dissidenti e critici del regime, utilizzo di “cluster bombs”, lancio di missili contro aree residenziali ed esecuzioni arbitrarie di prigionieri senza alcun procedimento legale.

di Mario Braconi

Una persona dell’organizzazione pacificista israeliana "Peace Now" è stata oggetto ieri di un grave atto intimidatorio: sui muri interni della sua abitazione sono stati trovati graffiti che inneggiano alla fine dellla ONG e minacce di morte specificamente indirizzate al suo dirigente. La firma di questo increscioso incidente è lo slogan “Migron for ever”, riferimento all’insediamento illegale israeliano di Migron, non lontanto da Ramallah.

Proprio "Peace Now" aveva a suo tempo richiesto la demolizione di tre delle strutture illegali di Migron alla Corte Suprema israeliana, che si è pronunciata a favore. Per inciso, ci sarebbe da domandarsi per quale ragione l’esercito israeliano debba aspettare che un’organizzazione pacifista segnali formalmente delle violazioni che con ogni probabilità gli sono note. Sia come sia, il 5 settembre centinaia di persone del Civil Administration Office, assistiti dall’esercito e da un nutrito numero di poliziotti, hanno demolito le tre costruzioni abusive, dopo gli scontri e gli arresti di rito (quattro feriti e sei fermi); l’ordine della Corte Suprema prevede inoltre l’obbligo di evacuazione entro marzo del 2012 per gli occupanti degli altri edifici occupati illegalmente ma non distrutti dall’azione del 5 settembre.

La notte stessa della demolizione si sono registrati un tentativo di incendio doloso nella moschea del villaggio di Kusra (vicino Nablus), mentre un misterioso artista del graffito si esercitava sulle  moschee dei villaggi di Yatma e Bir Zeit (che sia lo stesso simpaticone che vorrebbe assassinare i pacifisti?). Non vale quasi la pena riportare i roghi di autoveicoli, appartenenti ad Arabi o all’esercito israeliano. Non è difficile ricollegare l’atto vandalico ai settler illegali che si ritengono danneggiati da "Peace Now". In ogni caso, il dirigente minacciato ha dimostrato freddezza recandosi al lavoro come in una giornata qualunque: in questo caso, si è trattato di continuare a documentare fotograficamente la cosiddetta attività di “price tagging” (letteralmente: apposizione di etichetta del prezzo ndr) sugli “obiettivi” arabi da parte di gruppi estremisti israeliani.

Come conferma questa mattina Haaretz, citando un report dei servizi israeliani, è in atto una escalation nelle attività dei militanti israeliani di estrema destra nella West Bank. Secondo lo Shin Bet, gli estremisti non si limiterebbero più ad azioni più o meno casuali contro gli arabi, come rappresaglia ad atti di terrorismo o alla demolizione di insediamenti illegali da parte del loro stesso esercito. Avrebbero messo in piedi una vera e propria base di dati con gli obiettivi da colpire, compresi ovviamente personaggi in vista “di sinistra” (leggi non estremisti anti-arabi), il cosiddetto “price tagging” di cui si occupa come può anche "Peace Now". Forse è il caso che un paese sempre più assediato come Israele combatta con più fermezza contro questi criminali, che, considerazioni giuridiche ed etiche a parte, costituiscono una minaccia enorme per la sua stessa sicurezza.

di Michele Paris

L’incerto processo di pacificazione in corso tra gli Stati Uniti e gli insorti talebani in Afghanistan sembra aver fatto un significativo passo avanti in questi giorni con l’annuncio della prossima apertura di un ufficio politico che rappresenterà gli esponenti del regime rovesciato nell’autunno del 2001. Secondo fonti anonime citate dal quotidiano britannico The Times, il quartier generale talebano verrà aperto in Qatar entro la fine dell’anno.

Questa decisione viene considerata una misura di “confidence-building” dai diplomatici coinvolti nelle negoziazioni con i Talebani, in vista del lancio a breve di colloqui di pace formali tra questi ultimi, gli Stati Uniti e il governo di Kabul. La concessione di un ufficio di questo genere è una svolta importante, in quanto implica il riconoscimento della legittimità politica dei Talebani per la prima volta da quasi dieci anni a questa parte.

Negli ultimi mesi, sui media occidentali erano apparsi numerosi resoconti di incontri diplomatici tra americani, inglesi e rappresentanti dei Talebani. In particolare, alcuni giornali avevano segnalato almeno tre incontri in località segrete di Germania e Qatar alla presenza di Tayyab Agha, definito uno dei più stretti consiglieri del Mullah Omar. Allo stesso scopo, USA e Gran Bretagna da qualche tempo si stanno adoperando presso le Nazioni Unite per depennare alcuni esponenti talebani dalla lista degli individui sottoposti a sanzioni internazionali.

L’ufficio dei Talebani in Qatar, secondo quanto riportato dal Times, non dovrà essere considerato come un’ambasciata o un consolato, bensì un quartier generale che permetterà loro di essere trattati come un “partito politico”. La rappresentanza talebana non potrà comunque svolgere attività di propaganda né raccogliere fondi per la propria causa.

La concessione di un ufficio di questo genere lontano dal teatro di guerra risponderebbe ad una richiesta specifica degli americani per evitare l’influenza del Pakistan sui negoziati. È probabile, d’altra parte, che gli stessi Talebani cerchino di avere le mani libere dai servizi segreti e dall’esercito pakistano prima di intraprendere un percorso di pacificazione con le forze occupanti.

L’esclusione del Pakistan dai colloqui di pace con i talebani è precisamente uno degli obiettivi principali degli Stati Uniti, così da evitare l’utilizzo degli “studenti del Corano” da parte di Islamabad per esercitare la propria influenza su Kabul. Sembra improbabile, tuttavia, che il Pakistan resterà a guardare un eventuale accordo a proprie spese tra Washington, il governo Karzai e i Talebani.

Già lo scorso anno, infatti, le autorità pakistane avevano mostrato la propria irritazione nei confronti di una simile ipotesi, quando arrestarono il Mullah Abdul Ghani Baradar e altri esponenti talebani di primo piano, con ogni probabilità perché coinvolti in colloqui di pace con gli americani a loro insaputa.

Gli Stati Uniti stanno tenendo un atteggiamento estremamente cauto nel loro approccio verso i Talebani, non solo per timore di possibili reazioni del Pakistan, ma anche per alcuni precedenti imbarazzanti. Lo scorso anno, ad esempio, gli americani avevano propagandato promettenti colloqui con un membro della dirigenza talebana, successivamente rivelatosi un impostore. Anche i Talebani, da parte loro, preferiscono mantenere un certo riserbo, continuando a sostenere pubblicamente che la  condizione imprescindibile per l’avvio di negoziati sia il ritiro di tutte le truppe straniere dall’Afghanistan.

La riconciliazione con i Talebani è un obiettivo perseguito da tempo anche dal fragile governo afgano del presidente Hamid Karzai, il quale ha lanciato, sia pure senza troppo successo, un Consiglio di Pace per facilitare il reinserimento dei membri del precedente regime nella vita politica afgana. Questo processo incontra però non pochi ostacoli, dal momento che nell’élite politica del suo paese sono in molti ad opporsi ad un reintegro degli odiati Talebani a Kabul.

Le aperture americane verso i Talebani rispondono in sostanza alle crescenti pressioni interne per porre fine in qualche modo ad un conflitto decennale sempre più impopolare. Il deterioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan, il crescente costo della guerra e l’annunciato disimpegno di molti alleati sono poi un ulteriore incentivo per la ricerca di una soluzione negoziata.

In ogni caso, a ben vedere, la ricerca di colloqui con i Talebani da parte degli americani sembra smentire le ragioni stesse della guerra lanciata contro l’Afghanistan all’indomani dell’attacco al World Trade Center. Quell’invasione fu accompagnata da annunci che dipingevano il regime integralista di Kabul a tinte fosche, facendone un tutt’uno con i terroristi affiliati ad Al-Qaeda responsabili degli attentati dell’11 settembre.

La concessione di un ufficio di rappresentanza in un paese alleato di Washington e, più in generale, l’avvio di colloqui di pace con esponenti di un movimento detestato dalla gran parte della popolazione afgana almeno quanto lo sono gli invasori americani, rivela così ancora una volta i veri motivi della guerra lanciata dall’amministrazione Bush e fatta propria da Obama.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Si chiama "frozen zone" il simbolo dell'America di oggi. Centinaia di poliziotti sorvegliano i chilometri di transenne attorno a Ground Zero. La vista è surreale, sopra alle strade completamente deserte - a parte i numerosi poliziotti - svettano i grattacieli di Wall Street e la nuova mastodontica torre del World Trade Center, in costruzione. Non posso fare a meno di pensare che questa sarebbe stata la vista spettrale di Manhattan, nel caso in cui Al Qaeda l'avesse vinta, questa famigerata guerra al terrorismo.

Ma l'ironia si trasforma subito in amarezza. Il distretto finanziario di Lower Manhattan, a dieci anni esatti dall'attacco, è una caricatura dell'America. Una trentina di isolati attorno a Ground Zero sono sorvegliati da un impressionante dispiegamento di forze. Ad ogni angolo di strada mi avvicino a uno dei poliziotti e chiedo se si può assistere alla commemorazione delle vittime. "Mi dispiace, questa è una frozen zone," la stessa risposta; "una volta che la zona è dichiarata congelata, nessuno può più entrare o uscire." Mentre il poliziotto mi spiega la situazione, un suo collega fa passare una decina di persone visibilmente seccate che, patente alla mano, dicono di abitare proprio lì di fronte.

Accesso vietato a tutti, inclusi i giornalisti. Decine e decine di cameraman, operatori del suono con i microfoni a giraffa, giornalisti che agitano la tessera stampa in faccia ai poliziotti, niente da fare. Non ci si può avvicinare a meno di mezzo chilometro da Ground Zero. In mezzo alla no man's land, tra due cordoni di polizia e circondati da transenne, uno sparuto gruppo di manifestanti innalza cartelli strampalati con su scritto “Dio odia l'America!” L'ennesimo gruppo dell'estrema destra ultra-religiosa che protesta contro la decadenza dei costumi americani. Secondo loro 9/11 è stato un castigo divino, non di Allah ma del Dio cristiano.

Al di fuori del perimetro invalicabile della “frozen zone”, numerose manifestazioni pacifiste. Un potente sound system montato sul retro di un camion, degli attivisti protestano contro la guerra in Afghanistan e Iraq e contro la pena di morte. I comizi si alternano ogni cinque minuti, tutti chiedono il ritiro immediato delle truppe. Le “Nonne contro la guerra” innalzano i loro striscioni di fronte alla folla che percorre il perimetro della zona militare in cerca di un varco. Centinaia di persone vorrebbero assistere alla cerimonia, ma non ci si può avvicinare. Sono quasi tutti turisti europei, parlano tedesco, polacco, spagnolo, italiano. Flash back nel 2003, quando c'era Bush alla Casa Bianca, l'Iraq era appena stato invaso e manifestazioni contro la guerra percorrevano le strade di Manhattan.

I newyorchesi, le vere vittime dell'attacco, se ne stanno alla larga. Se fosse stato per loro, non ci sarebbe stata nessuna guerra e nessun Patriot Act. I sondaggi in questo senso sono uno strumento inestimabile per interpretare la strada presa da questo Paese. La stragrande maggioranza degli abitanti della Grande Mela si sono sempre opposti a qualsiasi intervento militare e il cuore liberale di New York ha sempre diffidato delle leggi speciali anti-terrorismo. E naturalmente anche all'idea di trasformare la ricostruzione di Ground Zero in un colossale business immobiliare.

Dieci anni dopo, un obiettivo sicuramente è stato centrato da bin Laden: trasformare gli Stati Uniti in uno stato di polizia. Le ultime notizie che stanno trapelando al riguardo sono allarmanti. La polizia di New York, la famosissima NYPD, pare abbia prestato uomini e mezzi alla CIA per sorvegliare centinaia di “sospetti” musulmani in città. Ma la CIA per legge non può operare sul suolo americano e lo scandalo sta mettendo in grosso imbarazzo i vertici della polizia.

Le notizie che provengono dal FBI sono ancora più inquietanti. I primi processi contro terroristi islamici statunitensi stanno cominciando in tutta la nazione. Dei cinquecento processi attualmente in fase di dibattimento, la quasi totalità riguarda persone che sono state “incastrate” dai federali. Il copione è lo stesso in tutti i casi. Un informatore del FBI s’infiltra in una comunità islamica o in una moschea.

Tipicamente, l'informatore è un cittadino americano di origine araba che, dovendo scontare un debito con la giustizia, si mette a disposizione della polizia. L'informatore individua un povero cristo, tipicamente disoccupato o con seri problemi mentali, che in un delirio di rabbia minaccia di voler attaccare il governo. L'informatore a quel punto entra in scena, avvicina il sospetto e cerca di convincerlo a mettere in pratica i suoi deliri, fornendo soldi, contatti, armi e finti complici, il tutto ovviamente messo a disposizione dall'FBI.

Nel momento in cui il sospetto accetta l'offerta e inizia a organizzare l'attentato, viene arrestato per terrorismo. E passerà in carcere il resto della sua vita. Nessuna delle persone sotto processo avrebbe mai potuto pianificare alcunché, se non fosse stato per l'aiuto massiccio dell'FBI. Rientrano in questo copione tutti i più famosi casi di recenti attentati sventati, tra cui gli attentatori alla metropolitana di New York e alla sinagoga nel Bronx nel 2009 e ad un corteo natalizio a Portland nel 2010. Alcuni degli accusati hanno deciso di contrattaccare e fare causa all'FBI per aver fabbricato un complotto: con i migliori auguri.

Questa dunque l'America a dieci anni dal 9/11. Un enorme apparato di sicurezza, l'Homeland Security, che sperpera centinaia di miliardi di dollari in regali alle aziende della sicurezza privata (come documentato nelle recenti inchieste dell'Huffington Post) e che, invece di ricordare l'attacco alle Torri con una cerimonia popolare, trasforma il distretto finanziario di Manhattan in una zona militare off limits.

di Mario Braconi

Tutto fa presagire che per Israele si stia aprendo un periodo particolarmente difficile, per non dire esplosivo. Mentre l’ex alleato turco ingaggia con lo stato ebraico una guerra diplomatica d’inusitata violenza e l’ambasciata israeliana del Cairo viene evacuata con l’aiuto delle forze speciali egiziane, Abu Mazen continua per la strada che lo condurrà, in un modo o nell’altro, ad appellarsi alle Nazioni Unite.

L’esito del progetto è molto dubbio, ma l’inerzia degli USA e la latitanza del cosiddetto quartetto (Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna), il cui Inviato Speciale è niente meno che Tony Blair, spiega anche il ricorso a mosse disperate come questa. In un pezzo pubblicato ieri sul New York Times, il caporedattore di Gerusalemme, Ethan Bronner, descrive lucidamente le sfide che Palestinesi ed Israeliani dovranno affrontare nei prossimi mesi.

Innanzitutto, sembra non sia del tutto esclusa la possibilità che i palestinesi si appellino direttamente al Consiglio di Sicurezza, anziché, come era sembrato finora, all’Assemblea Generale, dove peraltro dovrebbero ottenere la maggioranza richiesta senza troppe difficoltà. Una mossa quasi suicida, dato che, su questa proposta, gli Stati Uniti hanno dichiarato che porranno il veto.

L’ha detto chiaro e tondo lo scorso 8 settembre Wendy Sherman, Counselor del Dipartimento di Stato americano, che in altre occasioni non aveva fatto mistero della netta contrarietà del governo americano all’utilizzo delle Nazioni Unite come ambito nel quale lavorare al riconoscimento dello Stato palestinese. Senza contare che, in caso di proposta al Consiglio di Sicurezza, il rappresentante americano potrebbe prendere tempo, chiedendo di poter esaminare con più calma il contenuto della richiesta dei palestinesi, dando così tempo a Tony Blair di tirare fuori qualche coniglio dal suo cilindro, ormai piuttosto impolverato.

Se anche i Palestinesi conquistassero lo status di osservatore presso l’Assemblea Generale, la mossa potrebbe avere degli effetti collaterali molto gravi. Poiché a tenere i cordoni della borsa sono gli americani, non è impossibile immaginare che l’irritazione statunitense, già oggi palpabile, prenda domani la forma della riduzione di quel flusso monetario tanto importante per la sopravvivenza dalla ANP;  lo scorso gennaio Abbas ha dichiarato al giornale palestinese Al-Hayat al-Jadida che si tratterebbe di circa 460 milioni di dollari all’anno.

Secondo Bronner, il taglio ai finanziamenti esterni e il possibile indebolimento della collaborazione tra israeliani e palestinesi nel mantenimento della sicurezza potrebbero finire per rafforzare Hamas. Lo scenario estremo di un tentativo di rovesciamento dell’Autorità Palestinese nella West Bank da parte di Hamas sarebbe un’evoluzione davvero molto pericolosa, anche perché Israele non sarebbe disposto a tollerarla.

Altra questione essenziale è quella dei confini dello Stato palestinese che i delegati palestinesi vorrebbero veder riconosciuto dalle Nazioni Unite. Secondo il New York Times, diplomatici francesi starebbero aiutando i negoziatori palestinesi a metter giù la bozza di risoluzione costruita attorno ad una mappa della futura Palestina disegnata sui confini del 1967 (più alcuni scambi di territorio con Israele). Niente di scandaloso: Obama lo scorso 20 maggio aveva detto la stessa cosa.

Peccato che Israele non accetterà mai una simile soluzione, come del resto è dimostrato dall’immediata reazione del Primo Ministro israeliano Netanyahu alle parole di Obama (“proposta irricevibile”). Se la risoluzione passasse in questa forma, immediatamente circa mezzo milione di cittadini israeliani diventerebbero occupanti abusivi del territorio di un altro paese. Il destino di un popolo resta così tristemente sospeso, tra veti incrociati e colpevole inerzia.


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