di Emanuele Vandac 

Sanguisughe che campano con il denaro dei contribuenti e distruggono l’economia: così definirebbero le banche d’affari molte delle settecento persone arrestate ieri a New York nel corso delle manifestazioni contro l’“ingordigia di Wall Street”. Segno che, mentre gli USA si apprestano ad affondare nella seconda crisi sistemica in quattro anni, la rabbia popolare tenta di prendere forma e di organizzarsi. Sfortunatamente, almeno all’inizio della mobilitazione “Occupiamo Wall Street”, i numeri non sono stati molto incoraggianti: il week end del 17 settembre, che ha dato la stura all’occupazione pacifica di Wall Street, non si sono viste a New York più di cinquemila persone, contro le 20.000 sulle quali si contava.

Non erano più di un migliaio secondo Bloomberg, ma questa è una fonte che tutto è fuorché indipendente, dato il suo doppio conflitto di interesse, essendo una delle principali agenzie di stampa finanziarie al mondo ed in più controllata dall’attuale Sindaco di New York (a proposito della finanza americana).

Il fine settimana successivo i manifestanti sono aumentati e si è registrato il primo incidente: un alto funzionario della Polizia, Antony Bologna, viene immortalato da una videocamera amatoriale mentre si diverte a spruzzare spray al peperoncino sulla faccia di alcuni manifestanti stretti su un marciapiedi da un cordone di poliziotti (in massima parte si trattava di “pericolosissime” ragazze in canottiera). Bologna è attualmente inquisito dagli Affari Interni, mentre il trattamento inutilmente violento della polizia non fa che aiutare il movimento e rafforzare la consapevolezza.

Sabato 1 ottobre, in prossimità del ponte di Brooklyn, migliaia di manifestanti si sono staccati dal gruppo con l’intenzione di occupare con la forza (a piedi) le corsie normalmente utilizzate dagli autoveicoli. La polizia sostiene di aver intimato ai manifestanti di desistere, incontrando la resistenza attiva degli oppositori delle banche, che avrebbero proseguito la loro marcia. I manifestanti, invece, sostengono che la polizia li abbia caricati con l’obiettivo di chiuderli in una sacca dove li attendevano migliaia di agenti. In ogni caso, sul ponte di Brooklyn vengono arrestate oltre 700 persone, tra cui una reporter del New York Times, la maggior parte delle quali rilasciate dopo qualche  ora previa denuncia per interruzione di pubblico servizio.

Grazie all’escalation, la protesta ha finalmente ottenuto l’attenzione dei media: spiega infatti il sociologo Richard Meyer, esperto di movimenti sociali americani, che gli atti eclatanti come quelli che hanno animato la giornata di sabato rispondono alla domanda dei membri del movimento più esperti di tecniche mediatiche: “Come fare notizia senza passare dalla parte del torto?”. L’atteggiamento della polizia, così ben esemplificato dalla condotta di Antony Bologna e dagli arresti di massa, da questo punto di vista è stata una benedizione. Come spiega Shannon Deegan, informatica ventottenne in trasferta dalla mitica Seattle, il movimento ha compreso che, aldilà della frustrazione causata dall’(inevitabile) repressione, “gli arresti ci hanno dato visibilità: la gente ci sta guardando, comprende le nostre ragioni”.

In effetti duole constatare come l’occupazione più o meno simbolica di Wall Street non abbia scaldato particolarmente i cuori delle star (attori, musicisti, artisti), anche di quelle più liberal. A parte l’inevitabile Michael Moore e Susan Sarandon, che si sono fermati a farsi fare qualche foto ricordo con i ragazzi dello Zuccotti Park, non sono molti gli artisti che hanno prestato il loro corpo e la loro arte alla causa.

Sembra che le superstar si tengano nascoste in trincea proprio perché temono la reazione dell’establishment ad una possibile loro presa di posizione netta contro gli eccessi della “corporate & finance America”. Il che, per inciso, non fa che dimostrare quanto giusto e soprattutto necessario sia oggi falciare l’erba malvagia della speculazione finanziaria, che pretende di dettare legge su tutti gli aspetti della vita della gente, compresi quelli che attengono alla sfera culturale.

Tuttavia alcuni studiosi e sociologi rimangono scettici sul futuro di questo embrione di movimento: non v’è dubbio che, se si rafforzasse e assumesse una forma strutturata, potrebbe aiutare Obama alle elezioni dell’anno venturo. Anche se c’è chi come Terry Madonna, sondaggista e insegnante di scienze politiche al Franklin & Marshall College in Lancaster (Pennsylvania), ritiene che il cuore del dibattito politico continuerà ad essere l’economia: solo se la disoccupazione comincerà a calare, e salirà ad esempio la propensione al consumo, il tema della riforma del sistema finanziario americano potrà guadagnare importanza: prima di allora rischia di essere confinato sullo sfondo.

Se quanto sostiene il prof. Madonna fosse confermato, si avrebbe solo una prova in più di quanto siano abili gli spin doctor della finanza a far credere che le vere cause del (secondo) disastro dell’economia siano lontano dagli uffici degli sconsiderati e arroganti manager-parassiti di Wall Street.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Parlamentari che, di lavoro, fanno solo politica: detta così potrebbe sembrare fantascienza, o piuttosto un’antiquata e logora utopia, eppure qualcuno comincia a crederci davvero, anche tra chi ha voce in capitolo. Secondo a quanto scrivono alcuni autorevoli quotidiani tedeschi, i socialdemocratici (SPD), una delle maggiori forze politiche in Germania, stanno valutando la possibilità di impedire qualsiasi attività professionale secondaria ai membri del Parlamento, in modo tale da garantire più qualità alla democrazia.

L’idea è del gruppo di lavoro “AG Demokratie”, composto da 16 membri SPD del Parlamento, ed è inserita in un contesto più ampio di proposte per raggiungere una reale trasparenza nella res politica. A pubblicare lo scritto formale di “AG Demokratie” è stato il quotidiano Die Welt qualche giorno fa: la mozione sarà presentata ufficialmente al congresso dei socialdemocratici 2011, per essere rivista e approvata, ed entrare così a far parte del programma politico SPD.

Il comitato di lavoro chiede innanzitutto la sospensione totale delle entrate secondarie dei parlamentari, così come delle attività remunerate e non, che possano intaccarne l’integrità politica. Nel centro del mirino, in particolare, la partecipazione dei politici a organi direttivi di comunicazione: impedire tali connessioni farebbe “crescere la libertà di critica” all’interno del Paese ed “eliminerebbe alla radice il problema dell’influenza impropria sui media”.

Altro pericolo per l’indipendenza delle decisioni politiche sono i finanziamenti ai partiti da parte di imprese, enti e associazioni varie: “AG Demokratie” chiede che tali sostegni vengano proibiti, o comunque regolati e monitorati pubblicamente. Va da sé che un partito sponsorizzato rischia di assoggettare gli interessi del cittadino alle possibilità economiche del gruppo economico che lo sostiene. A essere messe in discussione sono le pari opportunità dei vari gruppi di interesse, le cosiddette lobby: chi ha più soldi fa valere il proprio ascendente sulla politica grazie ai finanziamenti della stessa.

Ed è a questo proposito che i socialdemocratici vedono la necessità di stilare un “registro delle lobby”: per valutare meglio le mosse dei politici, i cittadini dovrebbero sapere chi finanzia chi. Un registro pubblico dei finanziamenti ai partiti e ai singoli politici renderebbe possibile a ogni singolo tedesco una comprensione più ampia della politica.

Per il momento rimangono comunque tutte proposte, in pratica solo chiacchiere, poiché i primi sviluppi concreti si vedranno eventualmente solo a dicembre, durante il congresso di partito SPD che dovrà rivedere e approvare formalmente lo scritto. Una riforma dell’ambito dei finanziamenti a politici e partiti tedeschi era già stata discussa a livello parlamentare ad aprile, ma non aveva portato nessun cambiamento effettivo: lo scritto di “AG Demokratie” va quindi a riaprire un dibattito che rischiava di essersi spento nei meandri della capricciosa estate berlinese.

Obbligo di trasparenza per le lobby, attività secondarie di politici e finanziamenti ai partiti sono temi che si trascurano facilmente, soprattutto quando chi governa conta fra i partiti maggiormente accusati di lobbysmo. Da ammirare i socialdemocratici, perché sanno sfruttare il loro ruolo all’opposizione: riaprire in maniera intelligente un dialogo politico caduto nel vuoto è forse il modo migliore per fare politica.

Tant’è vero che già numerosi gruppi politici stanno già organizzando le prime manifestazioni in questa direzione. “Perché l’esperienza insegna che non bastano le belle parole dei partiti“, spiegano dal sito lobbycontrol.de. “C’è sempre bisogno della presenza e della pressione pubblica, anche solo per fare qualche piccolo passo in avanti.”

di Michele Paris

Il Ministero della Difesa yemenita venerdì mattina ha annunciato l’uccisione sul proprio territorio del predicatore estremista islamico Anwar al-Awlaki. Nato negli Stati Uniti, Awlaki era da tempo sulla lista nera di Washington con l’accusa di essere uno dei leader di Al-Qaeda in Yemen e di essere coinvolto in numerosi attentati terroristici in Occidente. Nato nel 1971 in Nuovo Messico, dove il padre stava completando un master universitario, Awlaki era finito nel mirino della sicurezza statunitense in seguito alle sue accese prediche on-line inneggianti alla jihad. Grazie al suo inglese fluente e alla cittadinanza americana, sembrava essere diventato uno strumento importante per la propaganda di Al-Qaeda, contribuendo a diffondere l’ideologia integralista, incitando attacchi terroristici e reclutando nuovi affiliati nei paesi occidentali.

La sua morte è stata subito confermata dalla Casa Bianca, anche se inizialmente le circostanze dell’operazione non apparivano del tutto chiare. Il network saudita Al Arabiya, citando fonti tribali, aveva per primo affermato che un gruppo di veicoli - su uno dei quali stava viaggiando Awlaki - era stato colpito da due missili sparati da un drone statunitense in una provincia dello Yemen settentrionale. Successivamente è arrivata anche la conferma di Washington che Awlaki è finito vittima del fuoco americano.

Oltre al bersaglio principale, nell’attacco sarebbero state uccise alcune guardie del corpo e, soprattutto, un secondo cittadino americano, il 25enne nativo dell’Arabia Saudita Samir Khan, direttore del magazine on-line di Al-Qaeda in lingua inglese, Inspire. Ad annunciarlo è stato un comunicato dell’agenzia di stampa ufficiale yemenita, SABA, confermato da un funzionario del governo americano alla Associated Press.

La CIA conduce da tempo operazioni teoricamente segrete con i droni in territorio yemenita. Obiettivo frequente di queste incursioni era proprio il predicatore di origine americana, il quale già in due precedenti occasioni era stato dato per morto: nel dicembre del 2009 e nel novembre dell’anno successivo. Lo scorso 5 maggio, infine, ad una manciata di giorni dall’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan, Awlaki era sfuggito all’ennesimo blitz americano che uccise invece altri due presunti affiliati ad Al-Qaeda.

Anche in questa occasione, poche ore dopo l’annuncio del governo yemenita, si sono diffuse alcune voci che hanno smentito l’uccisione di Awlaki. In particolare, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha citato un’intervista telefonica del fratello, il quale avrebbe affermato che Awlaki non faceva parte del convoglio colpito venerdì. La smentita, in ogni caso, appare questa volta come una semplice operazione di propaganda.

Le autorità americane avevano messo in relazione Anwar al-Awlaki con svariate trame terroristiche nel recente passato. La responsabilità di quest’ultimo sarebbe stata più che altro di essere una fonte di ispirazione per gli attentatori, i quali avevano spesso soggiornato in Yemen per essere presumibilmente addestrati e indottrinati dagli uomini di Al-Qaeda.

Tra gli episodi collegati ad Awlaki c’è la sparatoria del novembre 2009 presso la base militare di Fort Hood, in Texas. In quell’occasione, il maggiore Nidal Malik Hasan, psichiatra dell’esercito americano, uccise 13 persone e, secondo le indagini, avrebbe scambiato e-mail con Awlaki poco prima della strage.

Awlaki avrebbe poi fornito un qualche appoggio sia al giovane nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab, che il giorno di Natale del 2009 tentò di far esplodere in volo un aereo della Northwestern Airlines partito da Amsterdam e diretto a Detroit, sia a Faisal Shahzad, protagonista di un fallito attentato con un’autobomba a Times Square nel maggio 2010.

L’amministrazione Obama lo scorso anno aveva incluso Anwar al-Awlaki in un elenco di presunti terroristi che avrebbero potuto essere colpiti dalla macchina da guerra americana in qualsiasi momento. Il presidente democratico era giunto in questo modo dove nemmeno l’amministrazione Bush aveva osato arrivare nella “guerra al terrore”. La semplice designazione di “terrorista globale” è infatti diventata sufficiente a segnare la sorte di un sospettato, senza che l’accusa sia supportata da prove e senza passare attraverso un qualsiasi meccanismo legale.

Il caso di Awlaki era poi ancora più clamoroso, dal momento che il presunto numero uno di Al-Qaeda in Yemen possedeva appunto un passaporto americano. La sua presenza sulla lista nera del governo di Washington era stata perciò oggetto di una denuncia, senza successo, da parte del padre di fronte ad un tribunale statunitense. L’esecuzione extra-giudiziaria di Awlaki in Yemen è stata così portata a termine nonostante nessuna accusa formale sia mai stata sollevata nei suoi confronti negli Stati Uniti né, tanto meno, sia mai stata emessa una sentenza di condanna a suo carico.

L’uccisione di Anwar al-Awlaki segna inoltre una inquietante escalation nella guerra globale al terrore degli Stati Uniti. L’allargamento del fronte allo Yemen era peraltro annunciato da tempo. Lo scorso mese di giugno, una fonte anonima dell’intelligence a stelle e strisce aveva rivelato alla stampa l’avvio della costruzione di una base CIA in una località imprecisata del Medio Oriente, proprio per operare in maniera più efficace le incursioni con i droni in Yemen e colpire la divisione di Al-Qaeda operante nella penisola Arabica (AQAP).

A luglio, poi, il neo-segretario alla Difesa ed ex direttore della CIA, Leon Panetta, aveva confermato che uno degli obiettivi primari della strategia anti-terrorismo degli USA era precisamente la rimozione, cioè l’assassinio deliberato, di Ayman al-Zawahri - il successore di Osama bin Laden al vertice di Al-Qaeda - e dello stesso Awlaki.

Il rinnovato impegno degli americani in Yemen è giunto in corrispondenza della rivolta popolare contro il regime autoritario del presidente Ali Abdullah Saleh, da sempre fedele alleato di Washington. Il caos che sta attraversando l’impoverito paese arabo viene di fatto sfruttato dagli Stati Uniti per intensificare la loro presenza in un’area strategicamente molto importante.

L’eventuale caduta del regime di Saleh, infatti, alimenterebbe i timori americani per una transizione fuori controllo in un paese che si affaccia sullo stretto di Bab-el-Mandeb, all’imbocco del Mar Rosso, dove transitano quotidianamente più di tre milioni di barili di greggio destinati al mercato internazionale.

Gli interessi USA devono essere così difesi ad ogni costo, anche per mezzo di operazioni militari dalla dubbia legalità, per fermare una minaccia terroristica la cui portata appare tutta da dimostrare.

di Michele Paris

La fiducia dei cittadini americani nel proprio sistema politico e nei loro rappresentanti al potere continua a far segnare nuovi record negativi. A dimostrarlo è un recentissimo sondaggio -commissionato da New York Times e CBS News - che mette in evidenza tutto il malcontento verso le istituzioni di Washington e le apprensioni ampiamente diffuse nel paese per il futuro della prima potenza economica del pianeta.

Uno dei dati più eclatanti emersi dall’indagine telefonica pubblicata martedì è l’89 per cento degli americani che dichiara di non nutrire alcuna fiducia nel governo. Più precisamente, per il 74 per cento degli intervistati gli Stati Uniti, sul fronte economico, sono indirizzati su un binario sbagliato. Il Congresso è l’istituzione che raccoglie il minor consenso, con appena il 9 per cento che dice di approvarne l’operato - un minimo storico - e ben l’84 per cento che lo disapprova esplicitamente. L’insoddisfazione verso il Congresso riguarda entrambi i partiti, dal momento che i repubblicani detengono la maggioranza alla Camera e i democratici prevalgono al Senato.

Numeri più favorevoli fa segnare invece il presidente Obama, anche se oggettivamente tutt’altro che incoraggianti. La percentuale degli americani che lo approva e di quelli che lo disapprova è identica (46 per cento). Il suo gradimento è leggermente migliorato rispetto al recente passato, secondo il New York Times grazie ai presunti successi da poco incassati in politica estera, come il rovesciamento e l’assassinio di Gheddafi o l’annunciato ritiro delle truppe USA dall’Iraq. Le proposte di Obama in ambito economico sono peraltro decisamente meno popolari.

Il sondaggio NYT/CBS affronta poi la questione della popolarità del movimento “Occupy Wall Street”. Secondo il 46 per cento degli intervistati, le ragioni che stanno alla base del movimento riflettono il sentire della maggioranza degli americani. In una rilevazione dello scorso febbraio, circa il 27 per cento pensava lo stesso relativamente ai Tea Party. Una differenza di dati importante che, oltre a confermare come quest’ultimo movimento sia più che altro un fenomeno ingigantito dai media e dietro al quale ci sono rappresentanti dei poteri forti, rivela come siano diffuse non solo le ansie per le prospettive dell’economia USA ma anche l’avversione verso l’intero sistema capitalistico, di cui “Occupy Wall Street” è portatore.

La disillusione di gran parte degli americani emerge anche dalle risposte date a un'altra serie di domande poste nel corso del sondaggio, relative alle disuguaglianze di reddito negli Stati Uniti. Il 66 per cento ritiene, infatti, che la ricchezza dovrebbe essere distribuita più equamente. A pensare che la ricchezza sia distribuita in maniera ineguale sono nove su dieci elettori democratici, due terzi degli indipendenti e anche un terzo di quelli repubblicani. Proprio quello Repubblicano è percepito come il partito dei privilegiati, con il 70 per cento degli intervistati che sostiene che le sue politiche favoriscono i ricchi.

Estremamente significativa è la citazione da parte del New York Times di una dichiarazione raccolta a margine dell’indagine telefonica da uno degli intervistati. L’87enne Jo Waters, pensionato di Pleasanton, in California, riassume in maniera lapidaria la realtà della società americana, dicendo al compilatore del sondaggio che “in questo paese tutto è per i ricchi”.

Riguardo le politiche economiche concrete, i due terzi dei cittadini statunitensi sono contrari ai tagli alle tasse per le corporation e vorrebbero piuttosto aumentare il carico fiscale sui milionari. Queste posizioni, condivise dalla maggioranza degli americani, sono diametralmente opposte al percorso che stanno seguendo i politici di Washington in questo periodo di crisi. In particolare, esse contrastano fortemente con i programmi presentati dai candidati alla Casa Bianca per il Partito Repubblicano, tutti o quasi impegnati a promettere un sistema fiscale regressivo ad aliquota fissa (flat-tax) che penalizza ulteriormente i redditi più bassi per offrire nuovi sgravi a quelli più alti.

A spiegare la sfiducia degli americani nel sistema politico di Washington ha contribuito anche uno studio dell’Ufficio per il Budget del Congresso (CBO) proprio sulla distribuzione della ricchezza nel paese, reso noto sempre nella giornata di martedì. La ricerca, richiesta dai senatori Max Baucus (democratico) e Charles Grassley (repubblicano), ribadisce i risultati già ottenuti da svariate organizzazioni private ed economisti vari ma risulta particolarmente autorevole dal momento che è stata condotta da un autorevole organismo indipendente e si basa sui dati dell’Agenzia delle Entrate (IRS) e dell’Ufficio del Censo.

Lo studio sottolinea chiaramente come i vertici della piramide sociale negli USA abbiano aumentato oltre misura le proprie entrate negli ultimi anni a spese delle classi più disagiate. Contro la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ricordano i ricercatori del CBO, ben poco hanno fatto le politiche dei governi succedutisi a Washington in tre decenni, i quali si sono adoperati piuttosto per neutralizzare “l’effetto livellatore del sistema fiscale federale”.

I dati presentati dalla ricerca indicano come nel 2007 l’uno per cento della popolazione ha incamerato il 17 per cento del reddito complessivo USA, mentre nel 1979 questa quota era attestata attorno all’8 per cento. Se si considera poi il 20 per cento dei contribuenti con maggiori entrate, la loro fetta di reddito complessivo supera per il 2007 la metà del totale (53 per cento), contro il 43 per cento del 1979. Sul fondo della scala sociale, al contrario, il 20 per cento degli americani più poveri si sono spartiti nel 2007 solo il 7 per cento del redito complessivo del paese, con un aumento di appena il due per cento in tre decenni.

In termini assoluti, lo stesso uno per cento di super-ricchi ha visto crescere le proprie entrate tra il 1979 e il 2007 addirittura del 275 per cento, mentre per il quinto della popolazione più benestante l’incremento è stato del 65 per cento. Il reddito dei meno abbienti, invece, ha fatto segnare nello stesso periodo di tempo un progresso del 18 per cento e quello della classe media - corrispondente ai tre quinti della popolazione - poco meno del 40 per cento.

Il recente sondaggio sull’umore degli americani e, soprattutto, il rapporto dell’Ufficio per il Budget del Congresso dovrebbero abbattersi come un macigno sul dibattito politico in corso negli USA sulle questioni del debito, della riforma fiscale e della crescita economica. In realtà, questo ritratto della situazione del paese non avrà nessun effetto concreto, al di là di qualche dichiarazione di circostanza rilasciata da alcuni esponenti politici.

Ciò che attende la maggioranza degli americani sono anzi nuovi devastanti tagli alla spesa pubblica e una probabile revisione del carico fiscale a favore delle grandi aziende e dei redditi più elevati in nome della crescita economica. Queste, con ogni probabilità, saranno anche le conclusioni della speciale commissione bipartisan del Congresso che entro la fine dell’anno sarà chiamata a presentare le proprie proposte per ridurre il deficit federale di 1.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio, approfondendo ancora di più le già enormi differenze nella distribuzione delle ricchezze negli Stati Uniti.

La classe politica che dovrebbe in teoria rimediare alle disuguaglianze sociali, d’altra parte, è la stessa che ha contribuito deliberatamente a determinare questa situazione, rispondendo interamente agli interessi di una ristretta minoranza di privilegiati che continua a spartirsi la gran parte della ricchezza del paese.

di Eugenio Roscini Vitali

E' stato sabotato il gasdotto Arab Gas Pipeline che collega l’Egitto alla Giordania e Israele; l’attacco, il sesto dalla caduta del regime Mubarak, è stato portato all’alba di ieri da un commando entrato in azione a circa venticinque chilometro da al-Arish, città portuale sulla costa Mediterranea del Sinai settentrionale. Colpitala la stazione di misurazione di al-Maidan, chiuso l’impianto gestito dalla compagnia egiziana per il trasporto del gas GASPO, interrotta la fornitura verso Israele e la Giordania.

Secondo fonti della sicurezza egiziana non è stata ancora accertata l’origine dell’incendio, ma alcuni testimoni parlano di un’esplosione udita a diversi chilometri di distanza e di fiamme alte 15 metri. All’attacco, che ha causato il ferimento di un uomo che si trovava nei vicini uliveti, avrebbero partecipato sei uomini armati che, dopo essere giunti sul posto a bordo di un fuoristrada, avrebbero abbattuto la recinzione di filo spinato e piazzato una bomba sotto le tubature dell’impianto.

Nel tentativo di sradicare la rete jihadista che ormai controlla gran parte del Sinai e per combattere la nebulosa collaborazione che lega questi gruppi alle formazioni palestinesi della Striscia di Gaza, lo scorso agosto il  governo di transizione del Cairo aveva portato a termine con i capi di due delle tredici tribù beduine che abitano la penisola, i Sawarkas e i Tiyaha, un accordo che prevede una sorta di collaborazione militare per la messa in sicurezza dell’area che dalla costa Mediterranea fiancheggia la Philadelphi Route e dal posto di confine di Nitzana si estende fino al centro della penisola. Nello stesso periodo la polizia e l’esercito egiziano avevano dato il via ad una vasta operazione militare che aveva portato all’arresto di alcune persone sospettate di aver preso parte agli attacchi terroristici che nel solo mese di luglio hanno colpito il gasdotto per ben tre volte.

L’attacco alla stazione di al-Maidan ripropone la questione della sicurezza in una delle zone più strategiche del Sinai orientale. Gli eventi degli ultimi mesi hanno indotto Israele ad accelerato i lavori di completamento dell’impianto che a breve dovrebbe mettere in sicurezza i 240 chilometri di confine che dividono lo Stato ebraico dall’Egitto, ma secondo fonti di intelligence le reti metalliche e il sofisticatissimo sistema di sorveglianza visiva e di sensori capaci di captare qualsiasi movimento non sembra ancora in grado di fermare il traffico d’armi verso Gaza.

Mentre nel sud della Libia le forze del Consiglio nazionale transitorio (Cnt) danno la caccia a Muammar Gheddafi e la Casa Bianca si impegna a collaborare con le nuove autorità per proteggere l’arsenale ereditato dal regime del colonnello, uno stock di  missili terra-aria SA-24 Grinch (nome in codice russo Igla-S 9K338) e di mine antinave MDM-3 sarebbe già sulla strada che porta ai tunnel che collegano la penisola egiziana a Rafah.

Del caso dei missili di fabbricazione russa si era già parlato all’inizio di settembre, quando da uno dei magazzini militari abbandonati dalle truppe di Gheddafi erano spariti 482 SA-24 Grinch. Ora però è stato anche ritrovato il mezzo con il quale sarebbe stato trasportato parte del carico trafugato a Tripoli, intercettato dalle forze di sicurezza egiziane nei pressi di Ismailia, cento chilometri a sud di Porto Said, sulla riva occidentale del Canale di Suez. Sul camion sarebbe stato abbandonato un numero imprecisato di casse vuote che originariamente avrebbero dovuto contenere i sistemi d’arma SA-24 (lanciatori 9P522 e missili 9M342) e le mine antinave russe MDM-3.

A tutt’oggi non è ancora stato stabilito quante armi siano cadute nelle mani dei trafficanti e delle cellule jihadiste infiltrate tra gli insorti; sicuro è che non tutto l’arsenale di Gheddafi è finito sotto il controllo del Cnt e che una buona parte di esso ha già preso altre strade, da quelle che accompagnano i lealisti fino alla Libia meridionale e al massiccio algerino del Tassili n'Ajjerl’, altopiano rifugio del terrorismo salafita, alle alture dei monti Air, nel Niger settentrionale, roccaforte dei ribelli Tuareg, al Sinai orientale, porta d’accesso verso l’estremismo palestinese. Ed è proprio verso quest’ultima tappa che sembra siano diretti gli SA-24 che viaggiavano sul velivolo rintracciato a Ismailia, un sofisticato sistema missilistico terra-aria a raggi infrarossi che potrebbe creare non pochi problemi all’aviazione israeliana.

Gli SA-24, evoluzione russa dell’americano FIM-92 Stinger, hanno un raggio d’azione di 5.2 chilometri e possono raggiungere una quota di 3.500 metri e una velocità massima di Mach 2.3; possono essere lanciati con un lanciatore spalleggiabile da un singolo uomo e grazie al sistema di guida a infrarossi sono utilizzabili anche di notte o con scarsissime condizioni di visibilità, sia contro aerei ed elicotteri da combattimento che contro droni e missili superficie-superficie.

Insieme agli SA-24 dalla Libia potrebbe arrivare a Gaza anche qualche vecchio SA-7 Strela-2 (9M32), missile utilizzato dalla fanteria della coalizione araba durante la Guerra dello Yom Kippur e che in termini diretti causò l’abbattimento di una mezza dozzina di aerei israeliani. E a fargli compagnia potrebbero aggiungersi gli SA-14 Strela-3 (9K34), assai temibili a quote medio basse e già utilizzati in Bosnia, dove riuscirono ad abbattere un BAE Sea Harrier inglese, in Angola, contro un Su-27 colpito mentre si trovava in fase di atterraggio e in Iraq, contro un Airbub 300 appena decollato dall’aeroporto internazionale Baghdad.

 

 


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy