di Emanuela Pessina

BERLINO. Si è conclusa ieri con la messa di Friburgo (Sud-Ovest) la visita del Papa in Germania: 90mila fedeli hanno raggiunto l’aeroporto della città per l’ultima celebrazione del pontefice nella sua terra natia, dopo quattro giorni di tappe importanti che hanno richiamato centinaia di migliaia di fedeli da tutto il Paese. Eppure c’è stata anche una parte di Germania che non ha risparmiato critiche a Benedetto XVI: al centro, inutile dirlo, la politica sessuale della Chiesa, considerata antica e ormai slegata dalla realtà.

Particolarmente discusso è stato l’incontro del Papa con alcune vittime di molestie sessuali condotte da preti e incaricati religiosi. Il colloquio è avvenuto venerdì sera in un collegio ecclesiastico di Erfurt, nella Germania centrale, dove il Papa ha poi pernottato. Dal Vaticano si sono impegnati a spiegare che l’appuntamento non era previsto, né tantomeno ufficializzato dal programma, che si è trattato di una “sorpresa”, un atto straordinario: anche se qualcuno, in realtà, già se lo aspettava.

Perché lo scandalo che ha colpito la Chiesa cattolica tedesca nel 2010 è ancora fresco nella memoria di tutti e, nella sua visita in Germania, Papa Ratzinger non poteva certo fingere indifferenza. L’anno scorso un’indagine interna partita dal collegio Canisius di Berlino ha portato alla luce una realtà di circa duecento casi di pedofilia avvenuti dal 1995 in istituzioni cattoliche in tutto il Paese, suscitando vergogna in tutto il mondo.

Con l’incontro di venerdì il Papa ha dimostrato di non rinnegare il problema della pedofilia nel clero, di aver quindi preso atto di ciò che è accaduto, e il gesto è stato particolarmente apprezzato dai credenti tedeschi, che sono accorsi a decine di migliaia per festeggiare l’appuntamento. Ma è proprio nell’attimo in cui tutte le luci erano puntate verso la questione “pedofilia nelle istituzioni cattoliche”, con la presenza importante del supremo pontefice che attirava l’attenzione, che qualcuno ha pensato bene di illuminare anche il rovescio della medaglia.

Perché venerdì, a Erfurt, c’erano un migliaio di persone che dimostravano contro Benedetto XVI e la Chiesa cattolica: i manifestanti hanno puntato il dito contro l’ambiguità e la “doppia morale” della Chiesa, un atteggiamento che ha portato a decenni di vergognoso silenzio, di cui nessuno sembra volersi prendere la responsabilità. È difficile pensare che l’incontro di Ratzinger con le vittime dell’ambiguità, in questo gesto simbolico a Erfurt, possa cambiare qualcosa e impedire altri abusi. Concretamente ci si aspetta più chiarezza da una Chiesa che sembra esprimersi con opinioni sociali fuori dal tempo.

Il rappresentante supremo della Chiesa cattolica è stato anche criticato per la discriminazione degli omosessuali, così come per l’obbligo del clero al celibato e la disparità di trattamento delle donne. La voce di protesta più potente è venuta da Berlino, dove si sono raccolte quasi 10mila persone - tra cui i membri di settanta associazioni omosessuali, antifasciste e sindacali - per chiedere alla Chiesa una politica sessuale più legata alla realtà. La contromanifestazione ha avuto luogo in occasione del discorso di Benedetto XVI nel Parlamento tedesco, evento per i manifestanti già di per sé controverso: come si può permettere di tenere un discorso in Parlamento, un’istituzione della democrazia, a qualcuno che rifiuta l’omosessualità, e dimostra quindi di non rispettare la libertà e i diritti dell’essere umano?

Come ha scritto il tedesco Werner Tzscheetzsch, ex-professore cattolico di teologia, la dottrina cattolica non prevede l’autonomia dell’essere umano e non accetta nessun pensiero indipendente, due condizioni tuttavia imprescindibili della nostra esistenza razionale. Finché non ci sarà un’evoluzione in questo senso è difficile immaginarsi una maggiore adesione del cattolicesimo alla realtà sociale, soprattutto a livello sessuale, e con ciò esso rimarrà sempre a rischio “doppia morale”: da una parte la dottrina, legata a dogmi antichi fuori dal tempo, dall’altra le necessità dell’uomo, due linee parallele che non si incontreranno mai nella realtà.

Tant’è che il viaggio del Papa a Berlino rimane, per Tzscheetzsch, pura scena, un grande spettacolo: “Quando [il Papa] se ne andrà sarà tutto come prima, non cambierà nulla”, scrive il teologo. Anche se quest’ultima costatazione non è del tutto esatta: dopo il discorso del Papa in Parlamento, ora i Verdi tedeschi cominciano a chiedersi perché non invitare anche il Dalai Lama. E già questo potrebbe essere visto come un piccolo passo avanti.

 

di Michele Paris

I già complicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan hanno subito giovedì una nuova gravissima scossa. L’ufficiale più alto in grado nelle forze armate americane, il capo di Stato Maggiore, ammiraglio Mike Mullen, ha infatti accusato pubblicamente i servizi segreti del paese centro-asiatico di avere avuto un ruolo diretto nei recenti spettacolari attacchi che hanno colpito il contingente NATO in Afghanistan.

Parlando di fronte ai membri della Commissione per le Forze Armate del Senato, Mullen ha sostenuto che l’attentato del 10 settembre scorso contro una base NATO di Kabul, nel quale hanno perso la vita cinque persone e sono stati feriti 77 soldati della coalizione, e l’assalto della settimana scorsa all’ambasciata USA, che ha fatto 16 morti tra civili e poliziotti afgani, sono stati opera della rete terroristica degli Haqqani con il sostegno concreto dell’ISI (Inter-Services Intelligence), la principale agenzia spionistica pakistana.

Senza mezzi termini, Mullen ha affermato che “gli Haqqani agiscono come se fossero una vera e propria sezione dell’ISI”, pur senza specificare che genere di supporto i servizi segreti pakistani avrebbero fornito a questo gruppo di insorti né citare alcuna prova concreta al riguardo.

Esponenti del governo e delle forze armate americane spesso accennano più o meno esplicitamente alla complicità delle autorità pakistane con i gruppi talebani che operano nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, al fine di estendere la propria influenza in quest’ultimo paese. Mai però era stata fatta un’accusa così esplicita da una personalità autorevole come Mullen, ritenuto oltretutto, nell’establishment militare statunitense, tra i più convinti sostenitori della necessità di stabilire rapporti amichevoli con il Pakistan.

Le accuse del Capo di Stato Maggiore americano vanno ad aggiungesi a numerosi altri episodi che negli ultimi mesi hanno già incrinato notevolmente i rapporti tra i due improbabili alleati, a cominciare dal blitz dello scorso mese di maggio contro il rifugio di Osama bin Laden nella cittadina pakistana d Abbottabad.

La nuova disputa, inoltre, accresce le pressioni sul Pakistan per rompere definitivamente i rapporti con i gruppi terroristici che operano sul proprio territorio e, con ogni probabilità, preannuncia un intensificarsi delle incursioni americane con i droni nella province nord-occidentali, le quali causeranno nuove vittime civili e frizioni con Islamabad e alimenteranno l’odio delle popolazioni locali.

La risposta del governo pakistano alle accuse di Mullen è giunta tempestivamente per voce del Ministro del Interni, Rehman Malik, il quale ha negato il coinvolgimento dell’ISI negli attacchi di Kabul. Malik ha anche affermato che il Pakistan non consentirà azioni militari americane entro i propri confini contro la rete degli Haqqani nel Waziristan del Nord.

Di questa ipotesi si è probabilmente parlato martedì scorso a Washington, dove il numero uno dell’ISI, generale Ahmed Shuja Pasha, ha incontrato il direttore della CIA, generale David Petraeus. Il Pakistan è particolarmente sensibile alla questione, soprattutto dopo la palese violazione della propria sovranità verificatasi con l’azione delle forze speciali americane incaricate di assassinare bin Laden.

I ripetuti contrasti tra i due paesi avevano recentemente spinto il Pakistan ad intraprendere alcune misure nei confronti degli USA, tra cui l’allontanamento della maggior parte degli “istruttori militari” presenti sul proprio territorio. Iniziativa a cui Washington ha risposto con la minaccia di tagliare gli oltre 2 miliardi di dollari in aiuti militari stanziati annualmente.

Nonostante gli incerti passi avanti che sembravano aver avuto luogo nelle ultime settimane, le pesanti accuse dell’ammiraglio Mullen contro l’intelligence pakistana rischiano ora di aggravare le relazioni bilaterali tra i due paesi e di aumentare ulteriormente le tensioni in tutta la regione.

di Mario Braconi

Sono molti i temi affrontati nel corso degli incontri tra rappresentanti dei governi americano e turco avvenuti tra lunedì e martedì a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York: gli attuali pessimi rapporti tra Ankara ed Israele, la possibile esplosione di una guerra civile in Siria, le rinnovate tensioni su Cipro e, inevitabilmente, la questione della nazione palestinese portata all’attenzione delle Nazioni Unite. Le tensioni tra i due alleati NATO ci sono, e si sentono: Hillary Clinton non ha fatto mistero della preoccupazione americana sul grave deterioramento dei rapporti tra la Turchia e Israele, specificando che in questo specifico momento non è desiderabile un aumento di tensione in Medio Oriente.

Maggiore sintonia si registra tra le posizioni di Obama ed Erdogan sul caso Assad: da quando il premier turco ha preso una netta posizione contro i “regimi di violenta repressione” del dissenso, su questo tema è tornato il sereno. Tensioni permangono inevitabilmente sul tema dello showdown con Israele e sul pieno appoggio turco alla decisione dell’Autorità Palestinese di continuare la sua lotta per lo stato palestinese alle Nazioni Unite. Educatamente respinte al mittente dagli Americani, invece, le parole del ministro degli esteri turco Davutolu che, discutendo la decisione della parte greca di Cipro di dare il via a ricerche di gas nel Mediterraneo orientale, ha parlato di “provocazione”.

Da un punto di vista di strategia politica, potrebbero essere proprio i punti di dissenso con gli americani più che quelli di sintonia a rendere cruciale la figura di Recep Tayyip Erdo?an nel futuro prossimo del Medio Oriente. Innanzitutto, con la primavera araba (in particolare dopo la caduta di Mubarak) è evidente l’attivismo con cui il premier turco si sta muovendo sullo scacchiere del Medio Oriente, per accreditare il suo paese come potenza di riferimento nel mondo islamico. In questo senso va interpretato il suo recente tour in Egitto, Tunisia e Libia; perfino il modo muscolare con il quale ha affrontato la questione della Mavi Marmara tradisce l’intenzione di aumentare in modo facile la sua popolarità nei paesi islamici.

Del resto, se Erdogan è diventato famoso “come una rockstar” é anche grazie alla sua passione per le boutade grossolane ad alto gradimento delle masse. Bisogna però dire che, come ricorda Owen Matthews su The Daily Beast, questo atteggiamento qualche volta si traduce in un boomerang: ricordiamo ad esempio la volta in cui definì Hamas un gruppo di “combattenti per la libertà”. Eppure, al di là degli errori politici e dei difetti personali, è essenziale che gli Stati Uniti - ma anche tutti i paesi occidentali nominalmente interessati allo sviluppo di una compiuta democrazia nei paesi islamici - prendano atto del peso politico delle posizioni espresse dal primo ministro turco nel corso della sua visita in Tunisia: “La Turchia è uno stato democratico, laico e sociale.

Per quanto riguarda la laicità, uno stato laico mantiene l’equidistanza rispetto a tutti i gruppi religiosi, inclusi musulmani, cristiani, ebrei e atei.” Va detto che la sua storia decennale di contrasto agli estremisti laicisti è stata confermata in diverse occasioni e non tutte degne di patenti democratiche: colpi di Stato ed annullamento di risultati elettorali, fino al risultato ottenuto nel 2008 con l’abolizione del divieto di indossare il velo nelle università turche.

Eppure, l’ambasciatore israeliano ad Ankara, secondo il contenuto di un cablo di pubblicato da Assange arrivò a definire Erdogan “un pericoloso estremista islamico che ci odia dal punto di vista religioso”. Forse non è in errore Matthews quando definisce la Turchia di Erdogan “la nuova superpotenza mediorientale”: un paese a maggioranza assoluta islamica che ha raddoppiato il suo prodotto interno lordo in meno di un decennio e che può costituire un modello per le nuove democrazie arabe.

I Paesi islamici hanno bisogno di sentir parlare di diritti e di libertà da qualcuno che sentano vicino, specie dopo anni in cui le parole “libertà” e democrazia sono state spese da personaggi come Bush, divenendo sinonimo di guerra e abusi. E sarebbe bene che anche Israele comprendesse che normalizzare i rapporti con l’ex alleato, anche a costo di qualche passo indietro, è anche nel suo interesse.

di Luca Mazzucato

NEW YORK. I tempi sono cambiati. “Un anno fa, da questo podio avevo chiesto la creazione di una Palestina independente, ricorda Barack Obama all'Assemblea Generale dell'ONU, credevo allora come ora che il popolo palestinese meriti il proprio Stato”. Ma ora evidentemente ha cambiato idea. Il suo discorso alle Nazioni Unite è stato un tale capolavoro di voltafaccia che forse il comitato del Nobel starà pensando come riprendersi indietro il premio. Chi è stato a far cambiare idea a Obama, un anno fa favorevole e ora contrario all'indipendenza palestinese?

La settimana scorsa, ci sono state le elezioni suppletive per il Congresso a Brooklyn e Queens. Si votava per il seggio abbandonato dal democratico Anthony Weiner, dimessosi dopo l'ennesimo scandalo sessuale. In questo distretto, i democratici superano i repubblicani tre a uno. Sorpresa: ha vinto il repubblicano, facendo una campagna elettorale concentrata su Israele. E saccheggiando tutti i voti della grande comunità ebraico-ordossa, tradizionalmente democratica. Chi ha orecchie per intendere...

A meno di improbabili ripensamenti dell'ultimora, Abbas lancerà la bomba a mano venerdì: la richiesta al Consiglio di Sicurezza di riconoscimento dello Stato Palestinese. Il toto big è presto fatto: Cina e Russia a favore, gli Stati Uniti metteranno il veto, Francia e Inghilterra indecisi fino all'ultimo minuto. Abbas deve raccogliere almeno nove sì tra i quindici Paesi nel Consiglio di Sicurezza, una maggioranza che costringerebbe gli Stati Uniti a porre il veto creando un enorme imbarazzo diplomatico per Obama.

Tra gli altri Paesi favorevoli ci sono i Sudamericani (ad eccezione della Colombia) i Paesi Arabi, la Turchia e la Spagna, con il resto dell'Europa indeciso (che sorpresa...). La cosa interessante è che in tutti i Paesi, inclusi quelli contrari e indecisi, i sondaggi danno un costante settanta per cento della popolazione a favore del riconoscimento dello Stato Palestinese. In questa nuova partita di risiko il solco tra Vecchio e Nuovo Mondo è lampante.

I Paesi un tempo detti emergenti, superata la crisi finanziaria che sta deragliando l'Occidente, stanno iniziando a far sentire il proprio peso. Abbas, per una volta, sta preparando quello che sembra un gioiello diplomatico. A far sembrare Abbas un gigante tra gli statisti però, è tutto merito del premier israeliano Netanyahu, la cui sanità mentale sembra ormai andata, dopo la serie di fallimenti clamorosi collezionati negli ultimi anni.

Lo stato ebraico non si è mai trovato così isolato dai tempi della guerra dei sei giorni, ora che Turchia, Egitto e Giordania hanno sospeso le loro relazioni diplomatiche. Essendo gli ultimi due gli unici Paesi confinanti con cui Israele aveva relazioni diplomatiche, ed il primo l'unico Paese musulmano nella NATO, l'isolamento è letteralmente su tutte le frontiere di terra e di mare. Un bel colpo.

I diplomatici israeliani, non avendo idea di come uscire dal cul de sac da loro stessi preparato, ne hanno pensata una bella. Martedì sera giravano per il Palazzo di Vetro, al di fuori delle aule dove si stavano svolgendo i negoziati, minacciando a gran voce che se Abbas presenterà una mozione per lo Stato Palestinese, allora Israele chiederà al Consiglio di Sicurezza l'annessione di tutta la West Bank. Non resta che far loro i più sinceri auguri!

Il convitato di pietra, ovviamente, è la popolazione araba in rivolta, che in pochi mesi ha stravolto tutti gli equilibri post guerra fredda che ancora congelavano l'area. Laddove UE e Stati Uniti, alle prese con l'austerity, stringono i cordoni degli aiuti all'ANP, Russia - e soprattutto Cina - macinano incontri con i Palestinesi e si propongono come campioni della causa. Hanno capito che aria tira in Medioriente e vogliono essere sicuri al cento per cento che, una volta che la rivoluzione araba decollerà anche nel Golfo, la popolazione saudita liberata si ricorderà dei veri amici.

La parte del leone ovviamente la fa la Turchia. Erdogan, fresco di riconferma elettorale, ha deciso di trasformare il proprio paese in una potenza regionale. I tempi in cui la Turchia doveva mendicare un posto a Bruxelles per vedersi però sbattere la porta in faccia sono quanto mai lontani. Ora è la Turchia a dettare legge in Medioriente, dalla Siria a Israele alla Libia, passando per il nuovo Egitto. L'Occidente impotente non può far altro che alzare la voce, ma i Paesi emergenti cominciano a sospettare che ormai il cane, che pure che abbaia, non morde più: ha perso i denti e non ha più neanche un soldo per comprarsi una dentiera.

di Michele Paris

Di fronte a proteste e manifestazioni andate in scena in mezzo mondo, gli Stati Uniti hanno messo ancora una volta in mostra il loro aspetto più brutale quando, nella tarda serata di mercoledì, hanno portato a termine l’esecuzione di Troy Davis in un carcere della Georgia. Il 42enne detenuto di colore, nel braccio della morte da 22 anni, era stato condannato per un omicidio commesso nel 1989 in seguito ad procedimento legale a dir poco discutibile, durante il quale erano stati palesemente calpestati i suoi diritti di cittadino di un paese democratico.

Proclamatosi innocente fino all’ultimo, Davis è deceduto alle 23.08 ora locale, dopo che gli sono state somministrate le tre sostanze previste dalla procedura dell’iniezione letale. Poco prima di morire, il condannato ha guardato negli occhi i familiari della vittima presenti nella stanza, ribadendo la sua innocenza. “Non ho ucciso personalmente vostro figlio, padre, fratello”, sono state le ultime parole di Davis. “Quello che vi chiedo è che continuiate a fare chiarezza su questo caso, così da arrivare finalmente a trovare la verità”.

La sorte di Troy Davis era stata irrevocabilmente stabilita martedì scorso, quando la Commissione per la Grazia e la Libertà sulla Parola dello Stato della Georgia aveva respinto in maniera definitiva un appello dei suoi legali per fermare l’esecuzione e indire un nuovo processo. Negli ultimi due decenni, Davis era già stato ad un passo dalla morte, ma in tre occasioni erano giunte sospensioni dell’ultimo minuto per fare luce sulla sua presunta colpevolezza.

I dubbi sulla correttezza del procedimento a carico di Davis erano infatti numerosi, tanto che più di 600 mila persone avevano firmato una petizione per bloccare la sua condanna a morte, tra cui personalità come l’ex presidente Jimmy Carter, l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e 51 membri del Congresso americano.

Troy Davis era stato condannato nel 1991 per l’assassinio di Mark McPhail, poliziotto fuori servizio che stava svolgendo un secondo lavoro come guardia giurata all’epoca dei fatti. In una serata del 1989, McPhail era intervenuto per soccorrere un senzatetto vittima di un’aggressione in un parcheggio di un fast-food a Savannah, in Georgia, quando venne colpito da un’arma da fuoco al volto e al cuore.

I legami di Troy Davis con l’omicidio di McPhail sono sempre stati esili. L’arma del delitto non venne mai ritrovata, né furono rinvenute impronte digitali, tracce di DNA o macchie di sangue di Davis sulla scena del crimine. Inoltre, almeno tre giurati che durante il processo si espressero per la per la pena capitale avevano successivamente firmato dichiarazioni giurate nelle quali dicevano di nutrire dubbi sulla correttezza del verdetto e che Davis non doveva essere condannato a morte.

Soprattutto, però, com’è stato inutilmente ripetuto durante l’udienza di lunedì scorso davanti alla Commissione della Georgia che ha espresso il parere definitivo sulla sorte di Davis, sette dei nove testimoni dell’accusa durante il primo processo a suo carico avevano ritrattato le loro deposizioni. Le loro testimonianze erano infatti state estorte sotto minaccia della polizia. Una testimone, addirittura, aveva sostenuto di aver sentito un certo Sylvester “Redd” Coles - il primo testimone ad identificare Davis come l’assassino - confessare di aver ucciso McPhail. Un’ipotesi confermata anche dalle dichiarazioni giurate di altri testimoni.

Oltre a tutto ciò, va ricordato che tra il 1991 e il 1996, durante i procedimenti di appello, a Troy Davis venne negata l’assistenza di un legale, poiché lo stato della Georgia non prevede l’assegnazione di un avvocato d’ufficio per gli imputati che non se ne possono permettere uno. Com’è successo poi a molti altri condannati a morte, le opzioni di Davis erano state ridotte dall’entrata in vigore di una legge del 1996 - ATEDP (“Antiterrorism and Effective Death Penalty Act”) - che limita severamente la possibilità di un condannato a morte di appellarsi al circuito delle corti federali americane.

Nell’agosto del 2009, in ogni caso, la Corte Suprema degli Stati Uniti ordinò ad una corte federale di rivedere il procedimento contro Troy Davis e di riconsiderare le varie testimonianze. Nel giugno successivo, la Corte Federale del distretto di Savannah, presieduta dal giudice William Moore, venne dunque convocata. La Corte ascoltò le dichiarazioni dei testimoni che accusavano la polizia di averli costretti a coinvolgere Davis. Il giudice Moore, tuttavia, pur ammettendo che le testimonianze sollevavano qualche dubbio sulla sua condanna, decise che le nuove prove emerse non erano sufficienti per aprire un nuovo processo.

Quest’anno, infine, i legali di Troy Davis si sono appellati nuovamente alla Corte Suprema, la quale nel marzo scorso si è però rifiutata di prendere in considerazione il caso, senza aggiungere alcuna motivazione. All’approssimarsi dell’appuntamento con il boia, l’ultima speranza di fermare l’ingranaggio della morte di fronte ad un’ingiustizia così palese era rappresentata dalla Commissione per la Grazia e la Libertà sulla parola della Georgia. In questo Stato, infatti, il governatore non ha la facoltà di fermare le condanne capitali.

L’esecuzione di Troy Davis nel carcere statale di Jackson era in realtà prevista per mercoledì alle ore 19, ma è stata rimandata di qualche ora in attesa di un ultimo pronunciamento della Corte Suprema di Washington. Il più alto tribunale del paese non è però riuscito a mettere assieme una maggioranza di cinque giudici con il coraggio di fermare un vergognoso atto di violenza sanzionata dallo Stato, limitandosi invece ad emette un comunicato di poche parole che negava un atto di clemenza per il condannato.

In precedenza, sempre nella giornata di mercoledì, i legali di Davis avevano provato, senza successo, di convincere la Commissione a rivedere la propria decisione. Nessun esito ha avuto anche la richiesta fatta alle autorità della Georgia di sottoporre Davis alla macchina della verità. Le varie associazioni a difesa dei diritti civili, che hanno assistito Davis nella sua battaglia, avevano inoltre provato a percorrere altre strade, chiedendo un intervento del pubblico ministero del processo originario e del procuratore distrettuale della Contea di Chatham.

Significativo è stato infine anche il silenzio e il rifiuto di intervenire per salvare Troy Davis di Barack Obama, presidente di un paese che si rende responsabile quotidianamente di assassini mirati, torture, detenzioni segrete e bombardamenti indiscriminati contro civili in paesi non in guerra con gli Stati Uniti. Era distratto da altro?


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