di Michele Paris

Il secondo turno delle elezioni presidenziali in Polonia, nello scorso fine settimana, ha decretato la vittoria del candidato favorito, il presidente del Parlamento Bronislaw Komorowski, del partito di centro-destra Piattaforma Civica (PO). Il suo successo è stato accolto positivamente dai mercati finanziari internazionali e dai grandi interessi economici polacchi, confortati dall’avere finalmente due politici sulla stessa lunghezza d’onda ai vertici del paese - il primo ministro Donald Tusk fa parte dello stesso partito - in grado ora di dare l’assalto al settore pubblico con nuovi tagli alla spesa.

L’ottimo risultato ottenuto dal rivale del neo-presidente, l’ex primo ministro ultraconservatore Jaroslaw Kaczynski, produrrà però forse qualche scrupolo nel partito di governo, perché le misure impopolari che si appresta a varare potrebbero costare la vittoria nelle elezioni politiche del prossimo anno.

Il fratello gemello dell’ex presidente Lech Kaczynski, deceduto in un incidente aereo in Russia lo scorso aprile, aveva visto crescere rapidamente i propri consensi nel paese alla vigilia del voto, finendo addirittura per sfiorare una clamorosa affermazione. Rivolgendosi ad una base elettorale identificabile principalmente nelle aree rurali, duramente colpite dalla crisi economica e dalle politiche neo-liberiste degli ultimi anni, Jaroslaw Kaczynski e il suo partito Diritto e Giustizia (PiS) hanno condotto una campagna elettorale all’insegna del populismo e della demagogia, attenuando i toni fortemente nazionalistici ed anti-europei e promettendo misure a favore delle classi più disagiate.

Quest’ultima svolta aveva peraltro caratterizzato anche la fase finale del mandato del fratello Lech, il quale era stato protagonista di più di uno scontro con il primo ministro Tusk ed aveva posto il veto su varie leggi introdotte dal suo governo per ridimensionare drasticamente i programmi sociali sopravvissuti negli ultimi due decenni.

Se all’interno della Piattaforma Civica potrebbero farsi sentire le voci di quanti auspicano un approccio più moderato alle “riforme” economiche promesse, per timore di un’ulteriore erosione di consensi a favore del partito di Kaczynski, le dichiarazioni del nuovo presidente all’indomani della vittoria alle urne non hanno lasciato tuttavia molto spazio ai dubbi sulle iniziative future.

Significativamente, il primo pensiero di Komorowski è andato alla necessità di maggiore disciplina per quanto riguarda il bilancio dello Stato. Una preoccupazione condivisa dallo stesso governo, ben deciso a tagliare il debito pubblico dal 6,9 per cento attuale, al 3 percento entro il 2013, così da soddisfare i criteri di ammissione all’Eurozona.

Come il governo polacco intenda raggiungere quest’obiettivo è superfluo dirlo. Gli attacchi ai programmi sociali, al sistema sanitario e scolastico pubblico, le privatizzazioni delle aziende statali, il giro di vite nei confronti dei dipendenti pubblici, la liberalizzazione del mercato del lavoro sono d’altra parte all’ordine del giorno del gabinetto guidato da Donald Tusk dal 2007. L’aver promosso a capo dello stato un compagno di partito del premier dovrebbe spianare ora la strada a nuovi e più duri provvedimenti senza la minaccia del veto presidenziale.

Komorowski, da parte sua, ha alle spalle sufficiente esperienza in ambito di disciplina di bilancio. Nei primi anni Novanta fece parte dei governi succeduti alla caduta del regime comunista in Polonia e che implementarono la terapia d’urto della transizione all’economia di mercato, producendo più che altro disoccupazione di massa e povertà diffusa tra la popolazione.

Al di là dei proclami opportunistici, in ogni caso, un eventuale successo di Jaroslaw Kaczynski non avrebbe prospettato alcun percorso sostanzialmente alternativo. Durante gli anni da primo ministro, tra il 2006 e il 2007, Kaczynski aveva infatti perseguito uguali misure anti-sociali, in un governo oltretutto pervaso da spinte omofobe e antisemite.

Al ballottaggio di domenica scorsa ha partecipato circa il 55 per cento degli elettori polacchi, un’affluenza leggermente superiore a quella delle elezioni del 2005 ma che in definitiva ha determinato la vittoria di Komorowski grazie alle preferenze espresse per lui da appena un quarto degli aventi diritto. Un successo, insomma, che è apparso come il risultato della mancanza di reali alternative in una sfida a due che vedeva di fronte un candidato conservatore ed uno reazionario.

Una situazione che è in gran parte il risultato della condotta della principale forza della sinistra, l’Alleanza della Sinistra Democratica (SLD), erede del partito unico durante il regime stalinista e il cui candidato alle presidenziali, il deputato Grzegorz Napieralski, al primo turno è stato capace di raccogliere solo il 14 per cento dei consensi.

I socialdemocratici polacchi continuano a pagare le conseguenze del profondo malcontento popolare nei loro confronti provocato dai numerosi scandali e dalle politiche neo-liberiste che hanno segnato il periodo di governo tra il 2001 e il 2005.

Un’evoluzione quella del panorama politico polacco riscontrabile anche in molti altri paesi dell’Europa orientale e non solo, sfociata nel dominio pressoché incontrastato delle forze conservatrici e di governi e capi di stato che rappresentano unicamente i grandi interessi economici e finanziari.

di Eugenio Roscini Vitali

Mahmoud Al-Mabhouh, funzionario di Hamas conosciuto con il nome di battaglia di Abu al-Abd e tra i fondatori delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato del Movimento islamico di resistenza palestinese, non doveva morire: questa è l’ultima conclusione cui sarebbero arrivati gli uomini dell’intelligence americano. Che puntano piuttosto sull’ipotesi del rapimento e sulla possibilità che l’ostaggio sarebbe poi entrato a far parte di una trattativa di scambio per ottenete la liberazione del caporale Gilead Shalit, il soldato israeliano catturato il 25 giugno 2006 da un commando palestinese nei pressi di Kerem Shalom, kibbutz non lontano dall’omonimo varco al confine con la Striscia di Gaza.

La valutazione dell’intelligence, riportata sul web da alcuni organi di stampa israeliani, parte dal presupposto che i servizi segreti dello Stato ebraico sono stati sempre certi del ruolo svolto da Mabhouh all’interno dell’organizzazione che gestisce l’approvvigionamento di armi iraniane verso Gaza e che, per la sua liberazione, Hamas sarebbe stato pronto ad accettare qualsiasi richiesta.

Secondo il piano, gli uomini del commando, arrivati negli Emirati con voli provenienti da Parigi, Francoforte, Roma e Zurigo, avrebbero dovuto intercettare Mabhouh all’interno dell’hotel Al-Bustan Rutana di Dubai prima che lo stesso ripartisse per Bandar Abbas, in Iran, dove lo stava attendendo una spedizione di armi da inviare a Gaza. All’interno della camera, Mabhouh sarebbe stato messo fuori combattimento con una quantità di droga tale da poterlo scortare fuori dalla hall sulle sue gambe e senza destare sospetti. Raggiunto il porto, sarebbe stato imbarcato su uno yacht, con il quale avrebbe raggiunto il Mar Rosso.

Una volta superato il Golfo di Aden, sarebbe stato consegnato ad una nave militare israeliana e scortato fino al porto di Eliat, in Israele. Secondo i servizi segreti americani la seconda parte del piano non sarebbe però andata a buon fine e Mabhouh sarebbe morto a causa dell’eccessiva dose di farmaci somministratagli e al suo stato di salute. Di fronte al tragico “incidente”, il capo della cellula che aveva il compito di portare il leader palestinese al di fuori dell’albergo avrebbe deciso di annullare l’operazione, ordinando agli agenti di ripiegare e lasciare il Paese in tutta fretta.

Per alcune ore i servizi di sicurezza di Dubai hanno pensato che la morte del palestinese, arrivato da Damasco con il volo EK912, fosse dovuta a cause naturali e, quando hanno iniziato ad analizzare le immagini del capillare sistema di telecamere a circuito chiuso, era ormai troppo tardi: il team si era dileguato e quelle che rimanevano erano solo una serie di false identità contenute in undici passaporti (sei britannici, tre irlandesi, uno tedesco ed uno francese) che hanno fatto arrabbiare i governi occidentali e hanno messo in grave imbarazzo Israele, che comunque continua a negare ogni coinvolgimento.

Ma per il capo della polizia di Dubai, Dahi Khalfan Tamim, non ci sono dubbi: dietro la morte di Mabhouh c’è il Mossad e, a confermare tale ipotesi, ci sono gli undici ordini d’arresto emessi contro i presunti sicari e il fermo di altre cinque o sei persone, compresi un’ex funzionario dell’entourage del presidente Abu Mazen e Nehru Massud, uno dei fedelissimi del numero uno di Hamas che si sospetta abbia aiutato gli israeliani ad identificare la vittima e che la mattina del 20 gennaio sarebbe stato visto a Damasco in compagnia di Mabhouh.

Se l’operazione fosse andata in porto, sarebbe però passata alla storia come un’impresa eccezionale, un tentativo che, alla luce dei fatti, ha solo prodotto una crisi diplomatica e costretto il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, a riprendere in considerazione la proposta del mediatore tedesco Gerhard Konrad. La morte di Mabhouh ha inoltre fatto un’altra vittima illustre, il capo del Mossad, Meir Dagan, affondato da quella serie di passi falsi, veri o presunti, che negli ultimi anni hanno minato un’immagine di uomo invincibile costruita in oltre quarant’anni di carriera.

A volerlo a capo dell’Istituto per l'intelligence e servizi speciali era stato Ariel Sharon, che nel 2002 lo aveva nominato direttore al posto di Ephraim Halevy. Fiducia confermata nel 2006 dal primo ministro Ehud Olmert, che gli aveva affidato il delicato compito di scoprire i segreti della struttura di comando e controllo degli Hezbollah, per altro fallito, e poi da Benjamin Netanyahu, che lo autorizzò a progettare ed eseguire il sequestro di Mahmoud Al-Mabhouh, miseramente conclusosi con la morte del membro di Hamas.

Sotto la guida di Dagan il Mossad ha sicuramente aumentato la sua attività e, a differenza del periodo in cui dirigeva Halevy (1998-2002), ha rilanciato le micidiali operazioni sotto copertura che negli anni Settanta l’hanno reso famoso. Preoccupato per la minaccia rappresentata dai legami tra Iran, Siria, Hamas ed Hezbollah, nel febbraio del 2008 avrebbe autorizzato l’attacco contro Imad Fayez Mughniyeh, esponente di spicco del movimento sciita libanese ucciso a Damasco dall’esplosione della sua auto, saltata in aria nei pressi del quartier generale dell’intelligence siriana.

Sei mesi più tardi, nell’agosto dello stesso anno, una cellula operativa del Mossad avrebbe inoltre partecipato all’assassinio del Generale siriano Mohammed Suleiman: il consulente per la sicurezza del presidente Bashar Al-Assad, venne assassinato a Tartus con una pallottola in testa sparata da un cecchino mentre passeggiava nel giardino della sua villa.

Fallita l’operazione “Al-Mabhouh”, la liberazione di  Gilad Shalit ha ripreso la strada della trattativa diplomatica, quella dello scambio di prigionieri proposto lo scorso anno dal mediatore tedesco Gerhard Konrad. Secondo quanto riportato dalla Tv araba Al Jazeera, il premier Benjamin Netanyahu avrebbe dato il suo assenso al rilascio di mille detenuti palestinesi, che potrebbero rientrare nei territori subito dopo l'assenso di Hamas al rilascio del caporale israeliano.

Ricordando il prezzo pagato dal fratello Jonathan, ucciso nel 1976 ad Entebbe, durante l’operazione che portò alla liberazione dei passeggeri del volo Air France dirottato in Uganda da un commando di terroristi palestinesi e tedeschi, Netanyahu ha però precisato che i detenuti più pericolosi non potranno tornare in Cisgiordania e che, nella lista dei mille prigionieri, non potranno essere inseriti i nomi di quelli ritenuti più pericolosi: «Tutti vogliamo il ritorno di Shalit, ma come Primo Ministro devo prendere in considerazione tutto ciò che possa evitare il ripetersi degli errori del passato e che possa causarci nuove tragedie».

Un discorso liquidato da Hamas come mero tentativo di manipolare l’opinione pubblica e che in Israele ha raffreddato gli entusiasmi di quella parte del Paese che sostiene la campagna pro-Shalit e preme sul governo in favore della trattativa.

 

di Carlo Musilli

Impacchettati, messi su un aereo e portati in un paradiso fiscale. Così, dal 2007 ad oggi, più di 3 miliardi di dollari in contanti hanno preso il volo dall’aeroporto di Kabul. Sembra che fossero soldi dichiarati e che il loro trasporto fosse perfettamente legale. Sennonché, la somma era un tantino troppo alta per non destare sospetti, specialmente in un paese dall’economia ristretta come l’Afghanistan, il cui prodotto interno lordo nel 2009 era di appena 13 miliardi e mezzo. E agli americani dei piccoli sospetti sono venuti.

Fonti governative statunitensi hanno dichiarato al Wall Street Journal che la maggior parte di quei soldi è stata accumulata all’estero da alti funzionari afgani e proviene dagli aiuti europei e statunitensi, dal commercio d’oppio e dall’estorsione. Una fortuna fatta di dollari americani, corone norvegesi, rupie pachistane, riyal sauditi e perfino vecchi marchi tedeschi. Le banconote atterravano a Dubai, per poi finire in una delle paradisiache banche degli Emirati Arabi o essere ulteriormente spostati negli Stati Uniti, in Europa, in Pakistan o di nuovo in Afghanistan.

Nita Lowey, la sovrintendente americana allo stanziamento di fondi per l’Afganistan, ha tagliato dal disegno di legge per il 2011 tutti gli aiuti non destinati all’assistenza umanitaria diretta. Il che significherà inviare poco meno di 100 milioni, 3,9 miliardi meno del previsto. “Non ho intenzione di stanziare neanche un altro centesimo per gli aiuti all’Afghanistan - ha dichiarato la Lowey - fino a quando non sarò sicura che i soldi dei contribuenti americani non vadano a finire nelle tasche di funzionari governativi corrotti, spacciatori di droga e terroristi”. Giovedì scorso il Congresso ha approvato.

In risposta, l’Alto Ufficio dell’Anticorruzione del governo afgano ha aperto un’inchiesta per chiarire la situazione. Ma difficilmente questo rassicurerà gli americani, visto che tra coloro che sono maggiormente sospettati di inviare soldi sporchi all’estero figurano anche vari parenti di Karzai (incluso uno dei fratelli, Mahmood Karzai), membri della sua amministrazione (fra cui il Vice Presidente Mohammed Fahim) e compagnie afgane legate a lui in modo più o meno diretto.
Ora, perché non si riesca a indagare sui soldi volanti una volta che sono atterrati a Dubai è facilmente comprensibile. Ma com’è possibile che non si riesca a sapere granché nemmeno di quando erano in Afghanistan?

Semplice, il denaro non si sposta seguendo i tradizionali protocolli bancari, ma attraverso le hawalas, reti di rapporti fiduciari che consentono di trasferire soldi sulla base di prestiti d’onore e parole-codici. Nessuna contabilità. Ovviamente costano molto meno delle transazioni bancarie e sono anche molto più rapide. Alla dogana poi i corrieri non dichiarano l’origine del denaro che trasportano e sui documenti il nome del mittente non compare mai. “Non sappiamo niente di quei soldi - ha detto nel dicembre scorso il ministro delle finanze afgano, Omar Zakhilwal - né di chi siano, né perché escano dal paese, né dove vadano”.  E stiamo ancora parlando di soldi dichiarati legalmente alla dogana, non di quelli portati illegalmente aldilà del confine.

Tutto questo per Barack Obama rappresenta l’ennesimo problema da risolvere. Il Presidente americano accarezza il sogno di ritirare le truppe in tempo per la campagna elettorale del 2012 e presumibilmente non vorrebbe farlo alla maniera di Nixon. Ma anche soltanto per ipotizzare di lasciare l’Afghanistan in mano agli afgani, è essenziale che il governo del paese goda di un minimo di credibilità. Purtroppo non è così.

Non solo la legittimità della rielezione di Karzai è più che dubbia, causa brogli, ma la corruzione e il sospetto che il potere afgano sia coinvolto nella sparizione di aiuti internazionali e perfino nel traffico di oppio causa la grande impopolarità del governo.

D’altra parte nessun funzionario è ancora stato arrestato, il che fa sorgere qualche incertezza sulla buonafede di Karzai. E più scendono le quotazioni del Presidente, più si rafforza la posizione dei Taliban. Per la Casa Bianca combattere la corruzione in Afghanistan è importante tanto quanto combattere i ribelli. Fare chiarezza sui soldi volanti conta quanto vincere una battaglia sul campo.

Il vero problema è il conflitto d’interessi: indagare su chi ha portato il denaro fuori dal paese vorrebbe dire mettere sotto accusa i principali alleati nella guerra contro i Taliban in uno dei momenti più difficili dall’inizio del conflitto. Zabiullah Mujahedd, portavoce dei ribelli, ha dichiarato in un’intervista alla Bbc: “Siamo certi di vincere. Perché mai dovremmo alzare le mani, avviare un dialogo, ora che le truppe straniere stanno pianificando il loro ritiro e i nostri nemici hanno grandi divisioni al loro interno?”. 
          

di Michele Paris

Il 22 gennaio 2009, due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, in un gesto di rottura altamente simbolico, l’allora neo-presidente degli Stati Uniti Barack Obama firmò un ordine esecutivo per disporre la chiusura del carcere di massima sicurezza di Guantánamo. Alla fine del 2009, di fronte a mille difficoltà e resistenze, la scadenza per lo sgombero del famigerato campo di detenzione venne però rimandata di qualche mese.

Oggi, invece, sono in molti a credere che Obama abbia quasi del tutto abbandonato gli sforzi per cancellare uno dei simboli principali degli eccessi della lotta al terrorismo e che la prigione continuerà a restare operativa anche dopo la fine del suo primo mandato presidenziale nel gennaio del 2013.

Sopraffatta dalla complessità del compito affidatale, la speciale commissione incaricata di valutare la posizione dei detenuti a Guantánamo, e di procedere verso la chiusura del carcere, nel luglio dello scorso anno ottenne dalla Casa Bianca un prolungamento di sei mesi per portare a temine il proprio lavoro. Già allora iniziava però a diffondersi una certa sfiducia circa la possibilità di rispettare la scadenza iniziale fissata da Obama. Alla fine, nel mese di dicembre, arrivò l’ammissione ufficiale che la promessa di chiudere Guantánamo entro gennaio 2010 non sarebbe stata mantenuta.

Allo stesso tempo, sembrava che qualcosa stava cominciando a muoversi per trovare una soluzione alternativa alla struttura costruita sull’isola di Cuba. Il Dipartimento della Difesa ottenne infatti il mandato di acquistare una prigione statale dall’amministrazione carceraria dell’Illinois per la somma di 350 milioni dollari. Nella cittadina di Thomson, a poco meno di 250 chilometri a ovest di Chicago, era stato individuato un carcere di massima sicurezza in disuso che sembrava adatto a ricevere i detenuti più “complicati” ospitati a Guantánamo.

Se le autorità locali apparivano ben disposte verso un’iniziativa che avrebbe portato centinaia di nuovi posti di lavoro in un momento di grave crisi economica, decisamente meno disponibili si sono dimostrati al contrario i membri del Congresso di entrambi gli schieramenti. Che le intenzioni di Obama non fossero ben accolte alla Camera dei Rappresentanti e al Senato, lo si era peraltro capito già lo scorso anno, quando i due rami del parlamento negarono il trasferimento dei detenuti di Guantánamo sul territorio americano se non per apparire nelle aule dei tribunali nel corso di processi a loro carico.

Ancora più chiaro il dissenso dei parlamentari USA si è manifestato poi qualche settimana fa, quando le commissioni preposte di Camera e Senato hanno bloccato all’unanimità lo stanziamento dei fondi per i lavori di adeguamento del carcere in Illinois. Come se non bastasse, sono stati congelati anche i trasferimenti dei detenuti verso alcuni paesi “a rischio”, come Afghanistan, Arabia Saudita, Pakistan, Somalia e Yemen, dai quali provengono oltre il 70 per cento dei 181 attuali ospiti di Guantánamo.

Per la Casa Bianca la responsabilità di questa inerzia va assegnata proprio al Congresso e alla sua pressoché totale indisponibilità a cercare una soluzione che preveda la chiusura del carcere. Secondo altri, tra cui lo stesso presidente della commissione per il controllo delle Forze Armate del Senato, il democratico del Michigan Carl Levin, l’amministrazione Obama non si starebbe impegnando abbastanza per far valere tutta la propria influenza di fronte ai parlamentari recalcitranti.

Le vicende legate al fallito attentato ad un volo partito da Amsterdam e diretto a Detroit il 25 dicembre scorso e quello ugualmente non riuscito a Times Square, a New York, a maggio, hanno poi contribuito a creare un ambiente ostile alla chiusura di Guantánamo e alla liberazione di alcuni detenuti. La percezione di una costante minaccia terroristica è tornata così a diffondersi negli USA, tanto che i sondaggi che davano una leggera maggioranza degli americani favorevoli allo smantellamento del carcere nel gennaio 2009, oggi indicano che un 60 per cento lo vorrebbe ancora operativo.

Una delle categorie di detenuti a Guantánamo che crea i maggiori problemi alla Casa Bianca è rappresentata dai 58 cittadini yemeniti ai quali è stato dato l’OK per la liberazione, ma che non possono essere trasferiti nel loro paese d’origine perché, appunto, valutato troppo instabile. Nello Yemen, secondo il governo americano, questi detenuti potrebbero finire nuovamente ad ingrossare le fila dei gruppi affiliati ad Al-Qaeda che si dice siano presenti sul territorio.

In alternativa, l’amministrazione Obama aveva chiesto all’Arabia Saudita di inserire alcuni yemeniti nel suo programma di riabilitazione per jihadisti. La risposta è stata però negativa, come ha confermato qualche giorno fa lo steso sovrano saudita al presidente americano durante una visita ufficiale a Washington.

Ancora più scottante è la sorte di una cinquantina di presunti terroristi valutati come elementi pericolosi che con ogni probabilità continueranno ad essere detenuti a Guantánamo o altrove pur senza sufficienti prove a loro carico e quindi senza processo. La loro posizione rivela chiaramente la natura illusoria della promessa di Obama d’invertire la rotta rispetto agli abusi del suo predecessore.

Se anche Guantánamo dovesse chiudere nel prossimo futuro, le forzature legali che prevedono la reclusione senza prove e praticamente senza diritti per i detenuti continuerebbero infatti immutate. Semplicemente, nei piani della Casa Bianca, le detenzioni arbitrarie verrebbero spostate da una base navale a Cuba ad un carcere del Midwest in territorio americano.

In attesa di un accordo sulla chiusura, e di una cornice legale che permetta di tenere in carcere indefinitamente i sospettati di terrorismo senza istruire alcun processo, è probabile che nei prossimi mesi giungeranno nuove iniziative che cercheranno di convincere l’opinione pubblica dei cambiamenti in atto per dare un volto umano a Guantánamo. La parziale limitazione fissata da Obama ai brutali metodi di tortura avallati da Bush e Cheney, assieme alla limitata revisione delle procedure che regolano l’attività delle commissioni militari per dare qualche diritto in più agli imputati, rientrano precisamente in questo scenario.

Nonostante i tentativi, tuttavia, la vera fine di tutto ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare il carcere di Guantánamo avverrà solo quando la pienezza dei diritti legali sarà ristabilita per tutti i detenuti, siano essi americani o europei, afgani o pakistani, sauditi, somali o yemeniti.

di Emanuela Pessina

BERLINO. E' stato più complicato del previsto, ma alla fine il risultato é arrivato. La Germania ha un nuovo Presidente della Repubblica: si chiama Christian Wulff, ha 51 anni e vanta una lunga carriera politica tra le fila della CDU. Candidato alla presidenza dalla Coalizione di Angela Merkel (CDU) e Guido Westerwelle (FDP), Wulff è stato eletto al terzo turno di votazioni con una maggioranza assoluta di soli tre voti.

E' una vittoria incredibilmente faticosa, che rappresenta uno schiaffo morale alla Cancelliera e alla sua Coalizione. In effetti, la difficoltà che ha incontrato l’elezione di Wulff va a infierire su una situazione, quella del Governo federale tedesco, già delicata: la Coalizione nero-gialla si difende con tutti i mezzi, ma la stampa non perdona. La crisi esistenziale della Cancelliera sembra appesantirsi sempre più.

In realtà, tutto lascia intuire per l’ex-primo ministro della Bassa Sassonia Christian Wulff una presidenza dignitosa e sicura: avvocato di professione, Wulff è iscritto al partito dei Cristianodemocratici dal 1975 ed è un grande esperto di res politica. Chi ha fatto una pessima figura è la Coalizione nero-gialla: CDU e FDP hanno trasmesso l’immagine di un governo debole, diviso e insoddisfatto. Pur avendo la maggioranza assoluta nella Bundesversammlung, l’organo incaricato dell’elezione del Presidente federale, i cristianodemocratici e i liberali hanno raggiunto la maggioranza dei voti solo al terzo scrutinio.

I numeri parlano chiaro: 44 membri del Governo non hanno dato l’appoggio al proprio candidato Wulff nel primo turno e, nonostante gli appelli dei maggiori rappresentanti di partito, 20 lo hanno rifiutato anche nel secondo. Un vero e proprio ammutinamento nella già di per sé sbieca nave della Coalizione.

Prima del terzo scrutinio, a dimostrazione della situazione di emergenza e di preoccupazione, sono intervenuti Horst Seehofer, il presidente della CSU, la consorella bavarese dei cristianodemocratici, e il ministro dell’Assia Roland Koch (CDU). Il primo ha ricordato ai suoi colleghi la grande “responsabilità storica” del momento, mentre Koch ha invitato palesemente la Coalizione al buonsenso, ammettendo forse la crisi esistenziale in seno al proprio Governo. “Suicidarsi per la paura di morire non è un’alternativa”, ha detto Koch, riferendosi all’insoddisfazione che i membri della Coalizione stessa hanno voluto esprimere nei confronti del lavoro del Governo Merkel con il loro voto.

Perché la fatica con cui Wulff è stato eletto, in realtà, è il chiaro segnale della crescente disapprovazione dei membri del Governo tedesco nei confronti della Cancelliera. Il quotidiano di sinistra Tageszeitung individua maliziosamente nelle “decisioni solitarie” di Angela Merkel la causa della sua impopolarità, dall’approvazione del pacchetto europeo di aiuti salva-euro alle proposte zigzaganti per il mercato finanziario. Tra le fila della Coalizione, qualcuno è talmente deluso da mettere in gioco la sopravvivenza del Governo stesso. Secondo la stampa tedesca, Angela Merkel è stata colpita: le sono sfuggite le redini del suo Governo e ora deve presiedere in un’atmosfera di sfiducia manifesta.

La lista dei temi da affrontare, tuttavia, è ancora lunga: oltre alla riforma del sistema sanitario, il Governo tedesco ha in agenda la riapertura delle centrali nucleari e la riforma fiscale. Per quanto riguarda la salute, le proposte sono già state fatte. Secondo il Tagesspiegel, i vertici dei tre partiti di maggioranza si sarebbero accordati per un aumento dei contributi al servizio sanitario di 0.6 punti, che salirebbero a quota 15.5%. Insieme all’aumento dei contributi per la disoccupazione, che dal 2.8% passeranno a 3%, le spese salariali totali torneranno a superare il 40% della busta paga: un effetto che la maggior parte di politici non approvano poiché potrebbe impedire la ripresa economica. Per quanto riguarda la riforma fiscale, invece, il Governo si aggiornerà mercoledì prossimo.

Se la Coalizione riuscirà ad affrontare tutti questi nodi con successo, è ancora da vedere. Per ora la Merkel è alle prese con un altro tipo di successo, quella calcistico della Germania contro l’Argentina a Città del Capo, in Sudafrica. La Cancelliera, infatti, ha voluto partecipare alla partita personalmente e la grande performance della squadra tedesca non può che offrire un’interessante distrazione alla situazione di profonda crisi in cui sembra versare “la ragazza venuta dall’est”.

 


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