di Michele Paris

Alla chiusura delle urne per le elezioni presidenziali in Iran nel giugno del 2009, i candidati riformisti denunciarono immediatamente presunte irregolarità in un voto che, nonostante le aspettative alimentate nelle settimane precedenti, aveva decretato la vittoria a valanga del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Le proteste diedero vita a manifestazioni di piazza, creando il cosiddetto “movimento verde” che suscitò l’entusiasmo di buona parte dell’opinione pubblica occidentale.

A un anno di distanza dalle contestate elezioni, tuttavia, l’opposizione iraniana sembra aver perso completamente la propria spinta propulsiva, schiacciata non tanto dalla repressione governativa, quanto piuttosto dai propri errori e dallo stesso progetto politico sostenuto dai leader del movimento di protesta.

Gli scontri andati in scena a Teheran e nelle altre principali città iraniane misero di fronte migliaia di giovani e studenti ai temuti Guardiani della Rivoluzione per parecchie settimane dopo il voto. La durissima risposta del regime fece decine di morti e spedì nelle carceri politiche un numero imprecisato di manifestati. A guidare la protesta erano i candidati opposti al presidente uscente, l’ex primo ministro Mir-Hossein Mousavi e l’ex presidente del Parlamento Mehdi Karroubi. Malgrado le voci che segnalavano brogli diffusi, gli esponenti dell’opposizione non furono in grado di provare in maniera concreta che il voto era stato effettivamente falsato.

Nonostante il riconteggio ufficiale delle schede e svariate analisi indipendenti dei risultati, anche da parte di organizzazioni occidentali, confermarono il successo di Ahmadinejad con oltre il 62 per cento dei consensi, Mousavi e Karroubi - appoggiati dall’eminenza grigia dell’opposizione, Hashemi Rafsanjani, e dall’ex presidente riformista Mohammad Khatami - avrebbero continuato a chiedere alla guida suprema del paese, l’ayatollah Ali Khamenei, di annullare il voto e indire nuove elezioni.

Una nuova rivoluzione colorata, sul modello di quelle spesso fallite miseramente in alcune repubbliche ex sovietiche, sembrava essere così nata nella Repubblica Islamica. Pur mantenendo ufficialmente le distanze dalle questioni interne iraniane, gli Stati Uniti non esitarono a far sentire il loro sostegno, non solo morale, ad un’opposizione auspicabilmente in grado di rovesciare il regime e installare a Teheran un governo finalmente ben disposto verso l’Occidente e pronto ad aprirsi al mercato globale.

Il seguito che il movimento verde era riuscito a raccogliere all’indomani delle elezioni dello scorso anno sembra ora in gran parte scemato e i suoi leader indeboliti o profondamente screditati. Il mancato riconoscimento della sconfitta elettorale da parte di Mousavi è senza dubbio uno dei motivi del raffreddamento degli entusiasmi tra i sostenitori dell’opposizione. Ancora di più, le critiche rivolte dai riformisti alla politica economica ed estera di Ahmadinejad, hanno fatto riconsiderare a molti la validità delle posizioni da loro sostenute.

Mousavi aveva infatti attribuito i problemi interni all’Iran e il deteriorarsi dell’immagine diplomatica del paese all’estero alla politica del presidente in carica, trascurando le pressioni che l’Occidente ha esercitato su Teheran fin dal rovesciamento dello Shah nel 1979 e la progressiva campagna intimidatoria degli ultimi anni intorno alla questione del programma nucleare.

Il desiderio dei riformisti di normalizzare le relazioni con gli USA e i loro alleati si é scontrato insomma con la realtà dei fatti e con le scelte punitive fatte dall’Occidente nei confronti dell’Iran. L’ingenuità di Mousavi sembrava tanto più evidente nel ricordo della presidenza del riformista Khatami (1997-2005), ai cui segnali di distensione era seguita la netta chiusura di Washington.

Il ruolo d’improbabile sostenitore dei valori democratici da parte di Mousavi, è stato poi fortemente minato dalle sue responsabilità nella repressione del dissenso durante gli anni da Primo Ministro tra il 1981 e il 1989. In ogni caso, però, a decretare il collasso del movimento verde è stato soprattutto il suo carattere classista e un’agenda economica marcatamente neo-liberista, connotati spesso sfuggiti anche alla sinistra europea e americana, apertamente schieratasi con l’opposizione iraniana.

Fin dall’inizio, la base della protesta anti-governativa è stata rappresentata dalla classe media delle città iraniane. Per stessa ammissione di Mousavi, il movimento verde ha faticato a trovare sostegno tra le fasce più disagiate della società. Una responsabilità tanto più pesante, quanto i segnali di malcontento verso il governo tra i lavoratori e i poveri erano evidenti in seguito all’aumento della disoccupazione, al peggioramento delle condizioni di vita e alla progressiva soppressione voluta da Ahmadinejad dei sussidi statali ai prezzi di molti beni di consumo essenziali.

Già durante la campagna elettorale, Mousavi aveva inoltre definito i programmi sociali promossi dal governo come uno spreco di denaro pubblico che finiva per alimentare l’inoperosità degli strati più poveri della popolazione. Una caratterizzazione che non è sfuggita in particolare agli iraniani che vivono nelle aree rurali del paese. Già sospettosi verso le politiche liberiste avanzate dagli ex presidenti Rafsanjani e Khatami nel recente passato, essi hanno infatti votato a valanga per Ahmadinejad, snobbando un movimento di protesta che hanno visto appartenere esclusivamente alle élite urbane più agiate.

In definitiva, mentre la stella dell’opposizione verde a un anno dall’esplosione delle proteste è sempre più offuscata (tanto che alla vigilia del primo anniversario del voto contestato Mousavi e Karroubi hanno cancellato la prevista manifestazione di piazza) il governo di Ahmadinejad appare al contrario molto più solido sia sul piano interno che su quello internazionale. E, se pure persiste una certa insofferenza per un regime per molti versi repressivo, di fatto la situazione economica dell’Iran sembra reggere sia alla crisi che alle sanzioni occidentali.

Dal punto di vista diplomatico, infine, i recenti sviluppi intorno alla questione del nucleare hanno contribuito ad avvicinare non pochi paesi a Teheran - tra cui Brasile e Turchia, protagoniste di un recente accordo per l’invio dell’uranio iraniano all’estero per essere arricchito - mettendo in luce l’ottusità degli Stati Uniti e il doppio metro di giudizio adottato da Washington nel valutare le minacce agli equilibri internazionali (vedi Israele).

Più di tutto, però, e qualsiasi vera opposizione al regime dovrà tenerne conto, la legittimità del governo iraniano agli occhi dei propri cittadini deriva dalla capacità indiscutibile di scegliere il proprio percorso politico ed economico in maniera indipendente da qualsiasi potenza straniera. Non è tutto, ma non è poco.

di Mario Braconi

Dopo trentotto anni, è finalmente stabilita (o meglio ripristinata) la verità storica sugli eventi che il 30 gennaio 1972 sconvolsero la cittadina irlandese di Derry: nel corso di una manifestazione promossa dalla Northern Ireland Civil Rights Association (un’organizzazione per la promozione dei diritti civili dei cittadini dell’Irlanda del Nord) alcuni militari del Primo Battaglione Paracadutisti dell'esercito britannico aprirono il fuoco sui dimostranti, centrando ventisette civili innocenti ed uccidendone quattordici (ben cinque delle persone colpite erano ragazzi di 17 anni).

Fin dall'inizio, le gesta di quegli assassini trovarono una copertura nella connivenza delle istituzioni: il giorno successivo al massacro, il ministro della Difesa Lord Baniel offese la Camera Bassa con le sue intollerabili menzogne: "Analizzando gli eventi caso per caso, possiamo concludere che i soldati hanno colpito in modo mirato uomini identificati come cecchini o che erano comunque armati di bombe artigianali...Essi hanno agito per legittima difesa o per difendere i commilitoni minacciati. Respingo in modo categorico l'idea che i nostri soldati abbiano aperto il fuoco indiscriminatamente su una folla pacifica e disarmata". 

Nei mesi successivi, davanti alla Commissione Widgery, chiamata a ricostruire gli eventi occorsi in quella tragica domenica, sfilarono "testimoni" militari che, mentendo spudoratamente, giurarono di non aver avuto altra scelta salvo quella di rispondere al fuoco aperto dai manifestanti. Anche se la Commissione è passata alla storia per aver insabbiato il caso, le prove contro i militari britannici erano talmente schiaccianti che qualche brandello di verità venne fuori, perfino da un rapporto in cui la censura più pesante contro i soldati era quella di “aver adottato un comportamento ai limiti dell'incoscienza”.

Harold Evans, redattore del Sunday Times dal 1967 al 1981, ricorda che perfino quella commissione concluse che "uno degli uccisi era un ragazzo disarmato, colpito alle spalle da dietro mentre si trascinava a terra o era accosciato; che i colpi sono stati esplosi senza giustificato motivo ed in grande quantità; che gli obiettivi individuati erano evanescenti, e soprattutto che tutto ciò avveniva nel corso di una operazione militare non chiaramente autorizzata (un eufemismo ndr) fortemente disapprovata dalla polizia e, oltretutto, scatenata in un periodo in cui per mantenere l'ordine si erano sperimentati con successo altri metodi meno brutali".

Nel 1998, adottando un atteggiamento opposto al suo predecessore conservatore John Major, Tony Blair istituì la Commissione Saville per venire incontro alle pressanti richieste delle famiglie delle vittime della strage, desiderose di ripristinare l'onore dei propri cari almeno quanto di inchiodare i militari britannici alle loro responsabilità dopo lo scempio perpetrato della Commissione Widgery, che tentò di far passare i primi per terroristi e i rappresentanti del secondo per timidi boy scout.

E' così che nasce una vera e propria propria odissea giudiziaria: tra il novembre del 2000 e il gennaio 2005, la Commissione ha esaminato oltre 2.500 deposizioni, interrogando oltre 900 uomini e donne, civili, esperti di diritto, militari, paramilitari, sacerdoti e poliziotti. Ci sono voluti altri cinque anni e mezzo per giungere alle conclusioni definitive, finalmente rese pubbliche lo scorso 15 giugno, a ben dodici anni dal varo della commissione di inchiesta...

Non sono mancate, inevitabilmente, le polemiche attorno ad un macchinario pubblico che ha prodotto 160 volumi di scritti, 13 libri di fotografie, e “bruciato” oltre 200 milioni di euro solo per dare veste ufficiale ad una verità già compiutamente portata alla luce nel 1972 da un gruppo di giornalisti investigativi del Sunday Times (il cosiddetto Sunday Times Insight Team, fondato nel 1963 e soppresso dalla testata nel 2005 per risparmiare alla testata la ridicola cifra di 300.000 sterline).

Harold Evans (membro dell'Insight Team) racconta al sito di informazione The Daily Beast di come lui e suoi colleghi, barricati dentro una "topaia" (il City Hotel di Derry), abbiano raccolto a caldo le testimonianze di oltre 250 persone, tra cui anche membri dell'IRA, i quali trascrivevano per esteso su grossi bloc notes le orribili scene cui avevano assistito in quella maledetta domenica.

Il rapporto stilato da Insight Team arrivava a conclusioni molto diverse rispetto a quelle della commissione Widgery e raccontava una verità scomoda per l'esercito, smontando nel contempo alcuni miti cari ai resistenti irlandesi: "i paracadutisti spararono per primi (ed in modo incosciente). L'operazione diretta ad arrestare gli elementi più turbolenti tra la folle era stata presa dai vertici militari britannici, nella piena consapevolezza che avrebbe potuto comportare perdite civili."

Pur riconoscendo che i manifestanti più irresponsabili avevano tentato delle cariche (ma possiamo biasimarli?), il documento non lesinava critiche al governo (allora nelle mani di Margareth Thatcher, ideologa del pugno di ferro britannico in Irlanda del Nord) che aveva spedito a disperderli parà armati fino ai denti, oltretutto con la meritata nomea di gente dal grilletto facile.

Al fine di ristabilire la verità storica, però, il report giornalistico smontò anche un altro mito, confermando che, alle 4.40, furono udite delle scariche di mitragliatore dalla parte irlandese, cui certamente seguirono altri colpi d'arma da fuoco, e notando che la maggioranza del gruppo dei parà coinvolto nella strage, pur sotto stress a causa dell’uccisione dei propri commilitoni da parte dell’Esercito Repubblicano, non spararono nemmeno un colpo.

Trentotto anni dopo i fatti, la commissione Saville afferma cose molto simili a quelle contenute nel report del Sunday Times, ai tempi apostrofato dal Ministro degli Interni britannico "La Gazzetta dell'IRA”: "i colpi sparati dai soldati della Prima Divisione Paracadutisti il giorno della Domenica di Sangue hanno provocato la morte di tredici persone e il ferimento di altrettante, nessuna delle quali costituiva un pericolo per la vita dei soldati. Gli eventi della Domenica di Sangue rafforzarono l'Esercito Provvisorio Repubblicano (PIRA), aumentarono il risentimento di matrice nazionalista e l'ostilità verso l'esercito britannico, causando una escalation del conflitto violento per diversi anni a venire."

La commissione Saville entra nel merito delle responsabilità specifiche, stigmatizzando in particolare la condotta del tenente colonnello Derek Wilford, l'ufficiale cui faceva capo il Primo Battaglione quel 30 gennaio del 1972: Wilford, sostiene il rapporto, non comprese o disobbedì volontariamente agli ordini del suo superiore Patrick MacLellan, spedendo i suoi uomini (che avevano il compito di arrestare i rivoltosi) all'interno del quartiere di Bogside, dove era di fatto impossibile distinguere tra rivoltosi e pacifici manifestanti alla marcia per i diritti civili.

Inspiegabilmente, però, il Generale Robert Ford, capo delle forze di terra in Irlanda, viene toccato in modo molto più lieve dalla censura della Commissione. Se pure venne criticata la sua decisione di mandare truppe di assalto poco attrezzate per la guerriglia urbana per le strade di Derry, almeno nell’ambito della commissione Saville, non fu stato possibile provare che l'uso dell'assassinio sia mai stato considerato dall'ufficiale un metodo utile a sedare la rivolta e in generale a piegare i Repubblicani irlandesi.

A dispetto delle molte cose negative che si possono dire sulla commissione Saville, bisogna ammettere che essa rappresenta il modo, inevitabilmente imperfetto, con cui un Paese civile agisce la democrazia: le sofferte conclusioni della commissione, tardive  e costose che siano, ci parlano di un Paese in grado di riscattare la sua anima nera ammettendo i crimini anche quando sono stati commessi dalle istituzioni, stabilendo in modo netto un discrimine tra bene e male, giusto e ingiusto (in questo solco vanno lette le parole con cui Cameron ha commentato le conclusioni del report, "ciò che è accaduto quel giorno è ingiustificato e ingiustificabile. E' stato sbagliato").

A questo proposito lascia l'amaro in bocca la parziale "assoluzione" del generale Ford, il quale, secondo Ivan Cooper, attivista pacifista e tra gli organizzatori della Marcia per i Diritti Civili, la manifestazione coinvolta nel massacro, è il vero responsabile dei fatti del 30 gennaio, in quanto Comandante delle forze di terra. Tanto più che tra i documenti acquisiti dalla commissione Saville si trova un suo appunto nel quale argomenta serenamente sull'opportunità di uccidere in modo mirato i capi dei rivoltosi. Se questo documento non è una prova, certo non è un indizio rassicurante.

di mazzetta

La situazione internazionale della Corea del Nord non è rosea, ma se possibile quella interna è ancora peggiore. Lo stato d'allerta generale nel paese, scattato a seguito dell'affondamento ancora abbastanza misterioso di una nave sud-coreana, è decisamente funzionale alla gestione di una situazione interna nuovamente ai minimi. E in Corea del Nord i minimi sono storicamente molto bassi. Il Caro Leader figlio del precedente Caro Leader ha un'idea stereotipata della gestione del potere ereditata dall'augusto genitore. Presunta per legge la sua infallibilità, è per forza colpa di altri quando le cose vanno male e quando vanno malissimo le colpe chiamano punizioni esemplari.

Kim Jong-il ha mano ferma e fin dalla presa del potere alla morte del padre ha dato segno di saper gestire con sicurezza l'arte della purga, se i nordcoreani avevano sperato in cambiamenti alla morte del dittatore, capirono subito di essere caduti dalla padella nella brace. L'esordio subito in salita: durante la grande fame del 95-98 Kim si liberò del segretario all'agricoltura, e di oltre duemila dirigenti del partito, uccisi insieme alle loro famiglie com'è uso locale, tutti accusati di essere stati spie degli americani negli anni '50, poi fece uccidere anche gli incaricati della purga perché avevano “ indebolito la fiducia del popolo nel partito operando per interesse egoistico e sete di potere”.

L'esercizio ricorrente di iniziative del genere genera paura, ma soprattutto impedisce la formazione di una classe dirigente di gruppi di potere o narrazioni alternative alla dittatura, che già di suo entra pesantemente nell'intimità dei cittadini, tutti considerati sacrificabili per l bene della nazione che coincide con quello del leader.

Così, a questo giro è toccata al direttore del dipartimento delle finanze e della pianificazione Pak Nam-gi e al suo assistente, che sono stati legati a un palo e fucilati di fronte a una folla di persone che dovevano essere educate da quelle esecuzioni. Il fatto che i due fossero semi-incoscienti per le torture ha aggiunto ulteriore realismo alla minaccia, ritrovarsi tra i “traditori del popolo” è una disgrazia e le centinaia di funzionari licenziati nell'occasione avranno i sudori freddi. Servono colpevoli per la fallimentare operazione di svalutazione dello Won coreano, che ha azzerato i risparmi dei pochi coreani che ne hanno e che, insieme alla scarsità di cibo, ha proiettato i prezzi dei pochi bene disponibili verso l'alto.

La crisi in Corea significa estese mancanze di cibo, il clima e l'impossibilità di acquistare fertilizzanti hanno abbattuto i raccolti e il paese corre alle armi con la pancia vuota, coerentemente con la mobilitazione molti coreani mangiano razioni militari, mentre le élite del partito sono impegnate a sopravvivere alle epurazioni più o meno casuali che ogni tanto si abbattono sulla burocrazia che regge ogni filo della vita del paese. Ogni ondeggiamento nel partito viene vissuto dalla leadership tipicamente paranoica come una minaccia e chiaramente Kim Jong-il non è tipo da esitare, anche perché ha un unico obbiettivo noto e riconoscibile in mezzo ad un'azione di governo che si è segnalata solo per l'incompetenza e la ferocia.

Kim Jong-Eun, è il terzo Kim che si affaccia nella storia nordcoreana, è figlio e nipote di Kim e sembra proprio che il babbo abbia intenzione di curare personalmente la successione liberando da ogni ostacolo l'ascesa del figliolo. Un pensiero gentile sollecitato dall'esperienza: mentre suo padre era ancora al potere toccò a lui stesso fare una strage di ufficiali educati in Unione Sovietica che criticavano il sistema e potevano costituire una minaccia al suo avvento al potere. Kim Jong-il è stato spesso dipinto come un cialtrone dalle scarse capacità, ma nessuno può negare che sia capace di quelle sanguinose purghe che servono ad alimentare e difendere il regime dittatoriale.

Se in Corea del Nord c'è da attendersi un bagno di sangue a breve, non è scontato che il regime riesca a mantenere la presa sul paese. Piegati da una dittatura che dura dagli anni '50 e probabilmente timorosi dell'avanzare di Kim III e degli ultimi fuochi di suo padre, i nordcoreani sanno oggi meglio di ieri cosa c'è oltre la frontiera e potrebbero cogliere l'occasione per dire no alla maledizione dei Kim. Il clima di mobilitazione generale potrebbe alla lunga rivelarsi ingestibile e aprire la strada ad un'implosione del partito: un esito comunque impossibile fino a che l'autorità assoluta dei Kim non sarà contestata visibilmente e con successo dall'interno.

 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Una manifestazione oceanica: centomila ebrei ultraortodossi in piazza per rivendicare orgogliosamente il loro diritto di praticare la segregazione razziale. Un colpo d'occhio impressionante nel centro di Gerusalemme, come in una scena tratta da Matrix, dove gli agenti portano cappelli neri a tese larghe invece di occhiali a specchio.

Altrenotizie si è occupato in passato di questa incredibile storia di razzismo e discriminazione, che nasce nella colonia illegale di Immanuel, nel nord della West Bank. Nel piccolo villaggio di tremila abitanti, quasi tutti Haredim (ebrei ultraortodossi), c'è una scuola privata femminile dove si insegna sotto stretta osservanza religiosa.

In questa scuola elementare sono ammesse soltanto bambine ultraortodosse e, fin qui, niente di strano. Ora, all'interno della comunità ultraortodossa ci s’identifica in base al paese di provenienza dei propri antenati: gli Ashkenazi sono immigrati in Israele dall'Europa orientale, mentre i Sephardi provengono dai Paesi Arabi e dal Nord Africa.

La scuola di Immanuel è off limits per le figlie di genitori sefarditi. I genitori ashkenazi difendono con orgoglio la loro scelta, notando che “è come mettere americani e africani insieme: non possono studiare nella stessa classe per via della loro differenza mentale.” Una delle madri ribadisce i concetti in un'intervista rilasciata al quotidiano Haaretz: “Solo bambini puri possono andare alla nostra scuola. Le bambine sefardite hanno la televisione a casa mentre noi ashkenazi parliamo solo Yiddish. Le bambine sefardite hanno una pessima influenza sulle nostre figlie.”

Un padre sefardita, la cui figlia è stata segregata, pretende che “il Ministero dell'Istruzione intervenga per fermare la segregazione una volta per tutte. Gli ashkenazi pensano di essere più intelligenti di noi, ma in realtà quello che non sopportano è il colore della nostra pelle”. I genitori discriminati hanno fatto ricorso alla Corte Suprema, che ha obbligato la scuola (che riceve ingenti contributi statali) ad accettare le bambine sefardite. In segno di protesta, i rabbini ashkenaziti hanno ordinato ai genitori di ritirare tutte le loro figlie (ovvero la quasi totalità delle alunne) dalla scuola a fine dicembre dello scorso anno, in pratica boicottando l'intera scuola e bloccandone le attività.

La Corte Suprema ha dunque ordinato ai genitori ashkenazi di riportare le figlie a scuola oppure di finire in prigione per due settimane. Come in Italia, è illegale tenere i figli a casa per mesi interi. Secondo l'avvocato dei genitori, “in una disputa religiosa la decisione del rabbino invalida quella della Corte, perché la Torah è più potente di qualsiasi autorità.” Dopo l'ennesimo rifiuto della comunità ashkenazita di riportare i figli a scuola e mettere fine alla segregazione, la Corte ha condannato i genitori ashkenaziti a due settimane di prigione.

Giovedì mattina, ventidue madri e quattro padri si sono dati alla macchia mentre circa trentacinque padri sono saliti sul bus che li portava a Gerusalemme, dove si sarebbero consegnati alla polizia. Al loro arrivo a Gerusalemme, i genitori in stato d'arresto sono stati accolti da una folla oceanica di ebrei ultraortodossi ashkenazi, che al grido di “dio è il nostro signore”, li hanno accompagnati fino alla stazione di polizia. Prima di costituirsi, alcuni tra i genitori sono saliti sul palco della manifestazione per arringare la folla. “Vado in prigione a testa alta”, ha gridato un padre, “Faremo quello che ci ordinano i rabbini, e loro si occuperanno di educare i nostri figli.”

Una contemporanea manifestazione imponente si è verificata a Bnei Brak, il sobborgo ultraortodosso a Est di Tel Aviv. Entrambe le dimostrazioni sono state pacifiche, a differenza dei violenti scontri dei giorni scorsi, in cui centinaia di giovani ultraortodossi si sono scontrati con la polizia a Giaffa e in altre zone del Paese. Secondo i rabbini leader della protesta ashkenazita, “niente del genere era mai successo dalla seconda guerra mondiale, vedere ebrei ultraortodossi arrestati e finire in prigione.”

La comunità ortodossa in realtà è spaccata in due. Il partito ultraortodosso sefardita dello Shas, che è membro del governo Netanyahu, si trova tra l'incudine e il martello, con conseguenze a tratti demenziali se non fossero così tragiche. Il rabbino Ya'acov Yosef, figlio del famoso rabbino e leader dello Shas Ovadia Yosef, è il promotore del ricorso dei genitori sefarditi alla Corte Suprema, che ha dato inizio a tutta la faccenda. Allo stesso tempo, lo Shas è un partito religioso e non può andare contro la legge degli Haredim, che prevale sempre sulla legge dello Stato. Come compromesso, giovedì Ovadia Yosef ha dichiarato di essere contrario a ogni discriminazione, ma allo stesso tempo criticando la decisione della Corte Suprema, perché contraria alla Torah (anche se in difesa della sua comunità etnica).

La manifestazione di oggi porta con sé drammatiche conseguenze per lo Stato ebraico. La comunità ultraortodossa, i cui uomini per lo più non lavorano ma vivono dei sussidi statali, ha assunto una posizione eversiva e si è apertamente schierata contro lo Stato e le sue istituzioni. Allo stesso tempo, le scuole religiose, dove i rabbini incitano alla disobbedienza e a volte al sabotaggio, non potrebbero sopravvivere senza i massicci finanziamenti del governo.

Non passa settimana ormai senza che i giovani estremisti ultraortodossi si scontrino con la polizia, per protestare contro l'apertura di parcheggi durante lo Shabbat o la costruzione di edifici su presunti siti religiosi. Secondo Yossi Sarid, editorialista di Haaretz, lo Stato ha coltivato e coccolato una serpe nel suo seno e manca poco ormai alla guerra aperta tra ebrei laici e religiosi, ormai latente da troppo tempo. Sperando che le frange più estremiste degli Haredim, ovveri i coloni armati negli insediamenti in West Bank, non decidano di prendere alla lettera le incitazioni dei rabbini e le loro maledizioni contro alcuni membri della Knesset.

di Eugenio Roscini Vitali

A poco più di una settimana dall’attacco israeliano alla Mavi Marmara, Mahmud Ahmadinejad è tornato al centro della scena internazionale e lo ha fatto con la solita veemenza, forte del sostegno del premier turco Recep Tayyip Erdogan e attento a cogliere le opportunità offerte da un fronte anti-iraniano sempre più incerto e frammentato. Dopo mesi di negoziati, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha prodotto la Risoluzione 1929, un documento partorito il 9 giugno 2010 che ufficialmente impone nuove restrizioni commerciali alla Repubblica Islamica, ma che in realtà altro non è che il risultato del compromesso raggiunto con la Russia e la Cina e dell’opposizione espressa da Turchia e Brasile.

Tutti membri non-permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma Paesi di grande influenza regionale che, il 17 maggio scorso, hanno firmato con l’Iran un accordo di collaborazione sullo scambio di combustibile nucleare, che prevede l’invio in Turchia di 1.200 chilogrammi di uranio arricchito al 3% in cambio di 120 chilogrammi di barre arricchite al 20%, materiale che Teheran utilizzerebbe per la produzione di radioisotopi per la cura del cancro.

La risposta iraniana alla Risoluzione 1929 è stata immediata e il 12 giugno, ad un anno esatto dalla sua contestata rielezione, Mahmud Ahmadinejad ha annunciato che la Repubblica Islamica continuerà a sviluppare il suo progetto atomico e riprenderà autonomamente le fasi di lavorazione dell'uranio fino a raggiungere i parametri previsti in precedenza, vale a dire lo stesso livello di arricchimento concordato con Ankara. In una conferenza stampa rilasciata a Shanghai durante una visita all’Expo 2010, il presidente ha dichiarato: «Noi abbiamo cercato di evitare altre sanzioni, ma considerando l’andamento della questione, annunciamo che, per produrre il combustibile di cui ha bisogno, l’Iran procederà con l’arricchimento dell’uranio fino 20%; l’approvazione di sanzioni contro Teheran si trasformerà presto in una mossa fatale, sia per il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che per lo stesso presidente Barack Obama».

Il giorno successivo, ai microfoni della televisione Al’an, emittente degli Emirati Arabi, Ahmadinejad ha rincarato la dose ed ha lanciato un messaggio all’Europa. L’ex sindaco di Teheran ha invitando il vecchio continente ad assumere nei confronti dell’Iran una politica più indipendente ed ha affermato che gli Stati Uniti sono ormai una potenza in declino, una potenza costretta a mendicare il consenso dei membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per far approvare un pacchetto di restrizioni senza valore.

Nella continua evoluzione delle dinamiche regionali le sanzioni decise dal Consigli di Sicurezza dell’Onu sono solo uno dei numerosi aspetti che potrebbero influire sulla sua situazione politica ed economica dell’Iran, forse quello che a breve termine avrà un impatto minore. Il presidente iraniano potrebbe utilizzare le restrizioni commerciali imposte dalla comunità internazionale per rafforzare piuttosto la sua posizione interna, limitando il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAAE) sui siti nucleari ed infiammare la piazza per soffocare ogni possibile forma di opposizione.

Secondo quanto diramato dall’agenzia di stampa IRIB, la risposta sarebbe già pronta: domenica 13 giugno il  presidente della Commissione Sicurezza Nazionale e Politica Estera del Parlamento, Alaeddin Boroujerdi, ha dichiarato che il Majlis è pronto a discutere il disegno di legge con il quale vengono rivalutati i rapporti tra l’Iran e l’IAAE. Teheran sarebbe pronta a sospendere alcune collaborazioni volontarie con l’Agenzia Internazionale mentre per quanto riguarda la Russia e la Cina, la Repubblica Islamica non sembra intenzionata a modificare gli attuali rapporti che lo stesso Boroujerdi definisce buoni e costruttivi.

Sulla questione del nucleare iraniano la Casa Bianca ha recentemente intrapreso un atteggiamento meno votato al dialogo. La stampa americana ritiene che la prossima valutazione dell’intelligence americano (NIE) sarà decisamente diversa da quella di qualche anno fa e pur non contraddicendo il rapporto pubblicato nel 2007, quando in piena amministrazione Bush veniva elaborata la tesi secondo la quale Teheran aveva interrotto lo sviluppo di ordigni nucleari nel 2003 ed era passata ad tecnologia improntata alla produzione di combustibile atomico per uso civile, ora si parla un programma di ricerca dedicato alla costruzione di armi atomiche.

Le avvisaglie dell’intelligence non sembrano comunque scuotere più di tanto il presidente Obama che per ora tiene a freno il Pentagono e cerca di dissuadere Israele dal prendere azioni che potrebbero scatenare un conflitto dai costi enormi. Della stessa opinione potrebbe però non essere Tel Aviv, che al contrario si sente ormai assediato e sempre più vicina alle condizioni che la portarono alla guerra del Kippur del 1973.

Nei giorni scorsi il Times aveva pubblicato una notizia secondo la quale l’Arabia Saudita avrebbe messo a disposizione dei caccia israeliani il suo spazio aereo. Questo presupporrebbe un imminente attacco all’Iran ma, attraverso l’agenzia di stampa SPA, il Ministero degli Esteri saudita ha seccamente smentito l’informazione. A Teheran sono convinti che la notizia diffusa dal Times sia l’ennesimo tentativo per danneggiare i rapporti tra i due Paesi, ma che lo Stato ebraico sia sul punto di agire lo confermano le parole del Sottocapo di Stato Maggiore, il Generale Benjamin Gantz, che in un intervista a Defence News ha affermato che Israele non può esitare di fronte a prolungati periodi di  ostilità.

Facendo riferimento al piano operato in Cisgiordania, il Generale Gantz, sostiene che Israele deve ridurre la minaccia ad un livello ragionevole e per farlo deve prevedere azioni militari ripetute nel tempo: « In altre parole dubito che ci sarà la pace ma alla fine saremo in grado di estendere i periodi che intercorrono tra un picco di crisi e l’altro…. Attraverso la strategia del logoramento creeremo una situazione dove ogni nuova azione militare avrà conseguenze peggiori della precedente, e questo è un formidabile deterrente».

L’attenzione israeliana non sarebbe comunque rivolta al solo Iran e ai suoi alleati: Siria, Hezbollah ed Hamas; alla lista si è aggiunta la Turchia che da tempo tiene sott’occhio le attività israeliane in Kurdistan. Ankara sospetta che Gerusalemme possa aver appaltato al terrorismo curdo l’attacco contro la base navale turca di Iskenderun, avvenuto nello stesso giorno in cui si è consumato il dramma della Mavi Marmara. Secondo i turchi, il Mossad sosterrebbe attivamente il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (PJAK), movimento separatista curdo con base in Iraq che combatte in Siria, Turchia meridionale e Iran occidentale. Lo stesso ministro degli Interni turco, Besir Atalay, ha dichiarato che sono in corso estese indagini per accertare cosa è accaduto nell’incidente di Iskenderune e le possibili collusioni tra il gruppo che ha portato a termine l’azione e eventuali agenzie esterne.

Lo scorso anno la Turchia aveva denunciato le attività dell’esercito israeliano nel nord dell’Iraq, dove uomini del Mossad avrebbero addestrato i ribelli curdi ad azioni di terrorismo e di guerriglia urbana. Nel 2006 a parlarne era stato Seymour Hersh, giornalista investigativo americano che sul New Yorker aveva pubblicato un articolo nel quale metteva in luce il sostegno fornito da Israele e dagli Stati Uniti a un gruppo di resistenza curdo noto come il Partito per la Vita Libera del Kurdistan.


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