di Michele Paris

La settimana scorsa, una serie di avventate dichiarazioni da parte di esponenti di spicco del nuovissimo governo conservatore ungherese, sulla presunta situazione economica del paese, ha scatenato il panico sui mercati internazionali, precipitando l’euro ai minimi storici nei confronti del dollaro. Anche se in parte ingiustificato, e perciò rientrato immediatamente, il lamento di Budapest ha contribuito tuttavia ad amplificare le preoccupazioni per i livelli raggiunti dal “debito sovrano” nei paesi dell’Unione Europea. Timori alimentati ormai a dismisura dai media, dai governi e dalle istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e che preannunciano minacciosamente una nuova durissima stagione di tagli indiscriminati alla spesa pubblica.

A causare lo scompiglio era stato inizialmente, Lajos Kosa, il vice-presidente del partito di governo Fidesz, il quale aveva sostenuto che l’Ungheria rischiava una crisi simile a quella greca, con un deficit di bilancio che nel 2010 avrebbe potuto toccare il 7,5 per cento del PIL. Poco più tardi era toccato a un portavoce del primo ministro Viktor Orban rincarare la dose. L’Ungheria appariva cioè in una situazione molto delicata, possibilmente a rischio di default sul proprio debito. Secondo il nuovo esecutivo di centro-destra, il governo socialista uscente aveva manipolato il bilancio dello stato, occultando un quadro complessivo ben più grave del previsto.

Questi allarmi hanno causato il crollo del fiorino ungherese, seguito a ruota dall’euro, e il rialzo record degli interessi sui titoli di stato decennali. Già nel fine settimana, l’UE e il FMI si sono in ogni caso affrettati a gettare acqua sul fuoco per rassicurare gli investitori, mentre il governo di Budapest è stato costretto ad una mortificante marcia indietro, garantendo che l’ipotesi della bancarotta appariva ben lontana e che l’obiettivo di ridurre il deficit al 3,8 per cento del PIL entro il 2010, come stabilito dai termini del prestito internazionale negoziato nel 2008, sarebbe stato raggiunto.

Sebbene il debito dell’Ungheria non sia nemmeno paragonabile a quello della Grecia e, essendo al di fuori dell’area euro, Budapest può ricorrere alla svalutazione della propria moneta per stimolare l’economia, gli avvertimenti lanciati dal nuovo governo sorprendono fino a un certo punto. Al contrario, sono in molti a credere che essi facciano parte di una strategia ben programmata. Con l’UE e il Fondo Monetario che chiedono rigorose misure di austerity per ridurre il debito, il primo ministro Orban e il suo gabinetto si trovano costretti a muoversi su un terreno minato, fatto di pesanti tagli che rischiano di rendere da subito impopolare una coalizione che solo lo scorso mese di aprile aveva conquistato una vittoria a valanga nelle elezioni parlamentari.

Tanto più che, di fronte alla politica di rigore del governo socialista di Gordon Bajnai, il partito di Orban aveva condotto una campagna elettorale basata sulla promessa di rilancio dell’economia senza ricorrere a nuove tasse e a misure di contenimento della spesa particolarmente drastiche. La rappresentazione esagerata dello stato dell’economia ungherese è giunta così come avvertimento alla popolazione e come giustificazione dei sacrifici che stanno per arrivare. Puntualmente, infatti, dopo aver rinfrancato i creditori internazionali, il governo conservatore ha varato un pacchetto di provvedimenti punitivi che è stato subito presentato in Parlamento.

Come in molti altri paesi europei, anche in Ungheria si sta dunque per procedere con l’illusione di rivitalizzare l’economia intervenendo prematuramente sull’aggiustamento del deficit, peraltro gonfiato dall’incremento della spesa pubblica seguito alla crisi del 2008. In un paese come l’Ungheria, particolarmente colpita da una enorme bolla immobiliare e la cui ripresa appare alquanto incerta (+0,1% nel 2010 secondo le stime di Goldman Sachs), una ulteriore compressione della domanda interna, prodotta dai tagli alla spesa, rischia di prolungare drammaticamente il periodo di recessione in corso.

Un percorso che sarà segnato da elevatissimi livelli di disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita di buona parte della popolazione. Su questa strada si sono già incamminati non solo i paesi più a rischio, come Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda, ma anche le economie europee più forti. Solo pochi giorni fa, il FMI ha nuovamente incoraggiato i paesi dell’area euro ad adottare nuovi tagli per non mettere a repentaglio la fiducia dei mercati finanziari. Corollario dell’austerity, naturalmente, anche “l’apertura dei mercati” e “la deregolamentazione del mercato del lavoro”.

Per quanto il Segretario al Tesoro americano, Tim Geithner, abbia chiesto ai paesi europei di stimolare la loro domanda interna, sia pure per favorire l’export a stelle e strisce, la tendenza da questa parte dell’oceano sembra invece andare dalla parte opposta. In concomitanza con le iniziative di Budapest, i governi conservatori di Londra e Berlino hanno annunciato i loro piani d’intervento per ridurre la spesa pubblica.

Ricalcando un motivo ormai consueto, il primo ministro David Cameron ha definito la situazione finanziaria britannica “peggiore del previsto”, costringendo il nuovo governo di coalizione ad operare tagli selvaggi per riportare il deficit sotto controllo. Se anche l’alleato dei conservatori, il liberale Nick Clegg, ha assicurato che la Gran Bretagna non rivivrà l’incubo degli anni Ottanta sotto la guida di Margaret Thatcher, le prospettive non sono incoraggianti.

Allo stesso modo, nubi minacciose si stanno per abbattere sui lavoratori tedeschi, dove il cancelliere Angela Merkel ha appena presentato un piano di austerity che prevede un colossale taglio alla spesa pubblica, e in particolare ai generosi programmi sociali, pari a 85 miliardi di euro entro il 2014. Il programma del governo tedesco include, tra l’altro, la soppressione di dieci mila posti di lavoro nel settore pubblico e la drastica riduzione dei sussidi alle famiglie e ai disoccupati. Per non guastare i rapporti della Merkel con l’alleato ultraliberista Guido Westerwelle, leader del Partito Liberale Democratico (FDP), non è previsto invece alcun aumento delle tasse, nemmeno per i redditi più alti.

di Michele Paris

Mentre tutto indica che le operazioni per contenere la fuoriuscita di greggio nel Golfo del Messico potrebbero proseguire senza successo ancora per parecchi mesi, continuano ad emergere sempre più chiaramente i legami tra la potente industria petrolifera e la politica americana. Contributi elettorali nell’ordine di centinaia di milioni di dollari, aggressive attività di lobbying e un incessante scambio di persone e ruoli tra i vertici delle corporation del petrolio e le agenzie governative incaricate di sorvegliare l’attività estrattiva, hanno contribuito a creare un ambiente nel quale il rispetto delle regole è stato puntualmente disatteso, causando il peggiore disastro ambientale della storia americana.

L’impulso dato dalle ultime due amministrazioni statunitensi alle esplorazioni al largo delle coste del paese ha non a caso coinciso con un colossale esborso di denaro da parte di compagnie come BP per oliare i meccanismi della politica d’oltreoceano. Secondo i dati raccolti dal Center for Responsive Politics, istituto di ricerca indipendente di Washington, negli ultimi dieci anni l’industria del gas e del petrolio ha versato oltre 250 milioni di dollari alla classe politica americana sotto forma di contributi diretti ai candidati o ai loro comitati elettorali.

Ancora più consistenti appaiono poi le uscite destinate a sovvenzionare i lobbisti reclutati per curare i loro interessi nella capitale. Solo nell’ultimo anno, sono stati 174 i milioni di dollari fatturati dalle svariate società di consulenza alle compagnie operanti nel settore energetico, di cui 16 milioni alla sola BP. A partire dal 1998, la cifra complessiva spesa per influenzare le decisioni prese dalla politica in questo ambito ha toccato addirittura il miliardo di dollari.

Il risultato di questa pioggia di dollari è stata la certezza di poter operare sostanzialmente in un regime di autoregolamentazione, come hanno dimostrato in particolare recenti indagini giornalistiche sull’agenzia governativa preposta alle concessioni per le trivellazioni (Minerals Management Service, MMS). Pratica comune per quest’ultima era il rilascio di licenze per esplorazioni off-shore senza richiedere alle aziende petrolifere i permessi obbligatori e, soprattutto, senza svolgere le indagini ambientali stabilite per legge o accertare le relative misure di sicurezza, che avrebbero dovuto prevenire esplosioni e fuoriuscite di greggio.

Alcune delle donazioni più generose sono state ovviamente riservate a quei membri del Congresso che siedono nelle commissioni che si occupano di legiferare in campo energetico. I senatori facenti parte della Commissione per l’Energia e le Risorse Naturali, così, hanno finora ricevuto dalle grandi aziende che estraggono gas e petrolio in media 52 mila dollari a testa per la campagna elettorale in corso. Per maggiore scrupolo, tuttavia, nemmeno gli altri parlamentari sono stati trascurati, tanto che quest’anno il 78 per cento dei membri della Camera dei Rappresentanti e l’84 per cento dei senatori ha incassato fondi da queste aziende.

Sebbene i beneficiari privilegiati del denaro erogato dai grandi interessi petroliferi siano tradizionalmente i repubblicani, i democratici sono stati tutt’altro che trascurati. Barack Obama nel 2008 è stato il candidato ad una carica federale ad ottenere più denaro da questo settore del business con quasi un milione di dollari, subito dopo il suo sfidante John McCain. Un feeling particolare univa però il futuro presidente con la BP, la quale riservò all’allora senatore dell’Illinois l’importo più alto in termini di contributi elettorali assegnati rispetto a qualsiasi altro singolo candidato ad una carica nazionale.

Incuranti delle critiche provocate dall’incidente accaduto nel Golfo del Messico il 20 aprile scorso, le corporation del petrolio continuano a finanziare la corsa al Congresso dei politici americani. Molti di essi hanno già ricevuto donazioni che superano singolarmente i centomila dollari. È il caso della senatrice democratica dell’Arkansas Blanche Lincoln (280 mila dollari), membro della Commissione per l’Energia e le Risorse Naturali, alle prese con una complicata campagna per la sua rielezione. Oppure dei senatori repubblicani David Vitter e Lisa Murkovski (200 mila dollari ciascuno), rappresentanti di due degli stati maggiormente interessati dalle trivellazioni come Louisiana e Alaska.

Oltre al denaro direttamente versato nella competizione politica, vi sono poi i già accennati legami che contraddistinguono tutta una schiera di lobbisti e dirigenti delle agenzie governative che regolano l’attività di estrazione. Particolarmente inquietante è la situazione del Dipartimento degli Interni, guidato dall’ex senatore del Colorado Ken Salazar, egli stesso molto vicino all’industria petrolifera e già ardente sostenitore delle trivellazioni off-shore. Salazar, solo per citare un episodio,
lo scorso anno scelse come vice-assistente segretaria per la gestione delle terre e delle risorse naturali Sylvia Baca, ex manager proprio della BP.

Anche lo stimato Segretario all’Energia di Obama, Steven Chu, sembra avere qualche scheletro nell’armadio. All’università di Berkeley, il fisico premio Nobel era a capo di un istituto di ricerca che aveva ottenuto un finanziamento di 500 milioni di dollari dalla BP. Entrato a far parte della nuova amministrazione democratica, Chu avrebbe poi nominato alla carica di sottosegretario per le questioni scientifiche Steven Koonin, a sua volta già a libro paga della BP nel settore ricerca.

Già la precedente amministrazione Bush, peraltro, si era distinta per questo intenso scambio di ruoli. Eclatante fu il caso di Steve Griles, ex lobbista per l’industria del carbone, vice-segretario agli Interni e membro della task force per l’energia voluta da Dick Cheney. Dopo aver lasciato la politica, Griles fondò una propria società di lobbying operante nel settore energetico, prima di finire condannato a dieci mesi di carcere per aver ostacolato la giustizia nel corso dell’indagine che portò alla condanna di un altro famigerato lobbista, Jack Abramoff.

L’interesse delle aziende petrolifere e delle società di lobbying di Washington nelle personalità che hanno occupato importanti cariche politiche è d’altra parte risaputo. L’accesso alle stanze del potere può essere assicurato precisamente da chi ha avuto incarichi all’interno del governo federale e il cui mandato viene spesso considerato solo un trampolino di lancio per una futura e ben remunerata carriera di lobbista nel settore privato. Sempre secondo i dati del Center for Responsive Politics, dei 37 lobbisti registrati per la BP, 22 hanno avuto incarichi governativi o parlamentari.

Per quanto l’opinione pubblica americana sia furiosa nei confronti delle pratiche che hanno prodotto deleterie collusioni tra la politica e le compagnie petrolifere, tale attitudine appare talmente radicata da mettere a rischio l’accertamento delle responsabilità nel disastro del Golfo del Messico. A conferma di ciò, qualche settimana fa è giunta la discutibile nomina da parte di Obama di uno dei due direttori della speciale commissione incaricata di fare chiarezza sull’incidente dell’aprile scorso. Assieme all’ex senatore e governatore della Florida, il democratico Bob Graham, a guidare la commissione sarà William K. Reilly, già capo dell’agenzia di protezione ambientale (EPA) ma anche attuale membro del consiglio di amministrazione del gigante del petrolio ConocoPhillips.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il tribunale amministrativo regionale di Berlino e Brandeburgo (OVG) ha autorizzato una scuola superiore berlinese a proibire la preghiera rituale a uno studente musulmano. Secondo il giudice, la preghiera potrebbe disturbare la tranquillità del liceo e intaccare la libertà degli altri studenti: l’istituto ospita una grande concentrazione di religioni differenti e questa varietà contiene un alto potenziale conflittuale. La decisione può essere letta in differenti prospettive, ma non v’è dubbio sull’importanza della polemica che va ad aprire. Si tratta di temi di grande importanza quali la libertà di professione religiosa e la neutralità delle istruzioni scolastiche, argomenti troppo spesso - per un motivo o per l’altro - ignorati da chi di competenza.

La diatriba si è aperta nel 2008, quando otto studenti quattordicenni musulmani si sono stesi sulle loro giacche nel bel mezzo del corridoio scolastico del liceo berlinese Diesterweg per pregare, tra gli sguardi stupiti dei loro coetanei. L’Islam prevede cinque orazioni quotidiane di dieci minuti ciascuna, durante le quali il credente si inginocchia verso la Mecca, indipendentemente dal luogo in  cui si trova, per porgere la sua devozione a Allah.

La preghiera rituale dei giovani studenti, tuttavia, andava a minacciare la neutralità dell’istituzione scolastica. E la preside della scuola, Brigitte Burchardt, si è sentita in dovere si proibire ai ragazzi l’atto rituale religioso. “Devo garantire la libertà di tutti i miei 650 studenti”, ha spiegato nel 2008 Burchardt, sottolineando che il 90% dei suoi alunni appartengono a famiglie con passato migratorio. Il liceo Diesterweg, tra l’altro, raccoglie ragazzi che provengono da ben 29 Paesi differenti e vanta esponenti di tutte le principali religioni al mondo. Si trova a Wedding, nel nord di Berlino, un quartiere con una percentuale d’immigrazione del 31,4%.

Il divieto ha provocato lo sdegno di Yunus M., uno dei piccoli devoti, che ha sporto denuncia al tribunale di Berlino: in quest’occasione, i giudici hanno riconosciuto al ragazzo il diritto alla preghiera, obbligando la preside a mettere a disposizione dello studente un’aula separata, così da garantire all’istituto la sua imparzialità in materia religiosa. La preside non si è arresa ed è ricorsa in appello.

Ora, a sorpresa, il risultato finale: il tribunale amministrativo supremo di Berlino e Brandeburgo ha negato al giovane Yunus la possibilità di esercitare le sue preghiere rituali durante le ore di pausa tra una lezione e l’altra e ha sollevato la scuola dall’obbligo di predisporre una stanza per le preghiere del giovane. I motivi sono numerosi, tra cui, appunto, la garanzia della pace nel liceo stesso.

La grande concentrazione di diverse religioni nella scuola contiene, secondo il giudice, un alto potenziale di conflitto. Già in diverse occasioni si sono sviluppate discussioni e liti su questioni fondamentali religiose e la preghiera rituale di Yunus non farebbe altro che aumentare il rischio di eventuali ostilità.

Secondo il giudice, inoltre, la stanza a disposizione di Yunus presupporrebbe anche degli spazi di preghiera per ogni altro studente con il suo differente credo. Chiaramente, la cosa non è attuabile, poiché supererebbe la capacità effettiva degli edifici scolastici. Dopo la prima sentenza ci sono state decine di richieste di stanze per la preghiera in tutta Berlino, tra cui diverse anche da alcuni studenti ebrei.

Infine, il tribunale ha presentato una dichiarazione dell’islamista Tilman Nagel, secondo cui il giovane può riprendere le sue preghiere in un secondo momento senza intaccare le disposizioni del Corano: la preghiera durante le ore di lezione non è necessaria.

Ora la decisione finale spetta alla Corte Costituzionale Federale: il tribunale supremo ha lasciato aperta la possibilità di revisione, vista l’importanza e la gravità della faccenda. L’avvenimento ha già attirato comunque l’attenzione dei media e non ha mancato di provocare reazioni contrastanti; la maggior parte della politica berlinese ha accolto la sentenza con approvazione, mentre la cristianità, insieme ai liberali, ha reagito con scetticismo. E la cosa non stupisce.

Se a una prima lettura la decisione sembra controversa, la sua attuazione rappresenta in realtà un tentativo molto ampio di garantire alle istituzioni scolastiche un’assoluta imparzialità dalle religioni tutte. A questo proposito, nel 1995 la Corte Costituzionale Federale aveva deciso che il crocefisso nelle classi era “inconciliabile” con la neutralità dello Stato e delle sue istituzioni: questo non ha portato, tuttavia, all’eliminazione effettiva del simbolo cristiano.

Forse, la cristianità tedesca teme che il dibattito possa portare a galla un vecchio problema che si rimanda da troppo tempo. E anche quei partiti che fanno del crocefisso una questione d’identità non possono fare a meno di preoccuparsi. Da ammirare, in ogni caso, l’attenzione che si da’ a delle problematiche che invece, altrove, vengono rimosse e sottratte all’attenzione pubblica in ogni modo.

 

 

di Eugenio Roscini Vitali

In tutto il mondo la reazione di condanna al massacro della Mavi Marmara e al sequestro della “Freedom Flotilla” è stato unanime: un uso sproporzionato della forza e un inutile bagno di sangue contro un convoglio civile e 10 mila tonnellate di aiuti umanitari, un atto equiparabile agli attacchi dei pirati somali nel golfo di Aden. Avvenuto sotto gli occhi sbigottiti della comunità internazionale, il blitz delle teste di cuoio della Shayetet 13, l’unità speciale della Marina Militare Israeliana, ha causato nove morti e numerosi feriti, l’arresto di centinaia di attivisti filo-palestinesi, trattenuti senza una particolare accusa per oltre due giorni nella prigione di Beersheba, alle porte del deserto del Neghev ed il sequestro delle sei imbarcazioni partite dal molo turco-cipriota di Famagosta e dirette a Gaza, requisite e dirottate sul porto di Ashdod, a sud di Tel Aviv.

Nonostante l’evidente violazione del diritto internazionale (l’attacco è avvenuto in acque internazionali, a 75 miglia dalla costa israeliana) e la drammaticità dell’evento, la Casa Bianca ha comunque cercato di stemperare la paventata risoluzione di condanna dell’Onu e, dopo dodici ore di schermaglia con la Turchia, ha guidato il Consiglio di Sicurezza verso una posizione meno “aggressiva”, dove non si parla di assalto israeliano alla Mavi Marmara ma più genericamente di “atti” avvenuti a bordo dell’imbarcazione. Una dichiarazione che Israele definisce in ogni caso “un riflesso condizionato basato unicamente su certe immagini televisive e su una certa dose d’ipocrisia, non sulla conoscenza dei fatti”.

Dal punto di vista politico, per lo Stato ebraico l’arrembaggio alla “Freedom Flotilla” rappresenta sicuramente un danno d’immagine potenzialmente catastrofico, un’operazione mediocre nella quale il calcolo del male minore ha offuscato la reale entità della minaccia. Pensando alle due possibili alternative, Gerusalemme avrebbe potuto lasciar forzare il blocco navale o fermare la flotta: nel primo caso avrebbe certamente reso insignificanti le intimidazioni fatte fino ad oggi, dando un segnale di debolezza in una regione dove i deboli hanno quasi sempre la peggio. Bloccare il convoglio avrebbe altresì aperto una crisi diplomatica con la Turchia e con i Paesi Arabi moderati che comunque si sarebbe risolta nell’arco di qualche mese, un po’ come accaduto per il blitz di Dubai, dove un commando di 11 agenti israeliani ha ucciso il dirigente di Hamas, Mahmoud al-Mabhouh, utilizzando passaporti falsi australiani, britannici, irlandesi e tedeschi di persone residenti in Israele.

La terza alternativa, quella del massacro, non era probabilmente contemplata. A nulla vale quindi cercare di giustificare il fallimentare intervento dei reparti speciali con il solo fatto che dietro la flotta partita da Nicosia ci fosse stata la mano dell’IHH, l’organizzazione non governativa turca che ha legami con Hamas e altre sigle della galassia integralista internazionale e che, negli anni Novanta, ha avuto un ruolo chiave nell'ingresso dei Jihadisti in Bosnia.

Le immagini diffuse dai militari israeliani mostrano, infatti, lo sbarco ripreso da un elicottero e la reazione degli attivisti che con spranghe e coltelli e con il lancio di qualche molotov hanno cercato di fermare il commando; manca la reazione degli infiltrati jihadisti con l’uso di armi da fuoco.

In un artico pubblicata sul Washington Post l’ex agente dei servizi segreti israeliani, Victor Ostrovsky, parla di operazione “tanto stupida quanto stupefacente”. L’ex spia, in forza al Mossad dal 1982 al 1990, ritiene Flotilla 13 (traduzione inglese del Shayetet 13) un reparto fantastico, una delle migliori unità israeliane che di norma pianifica tutte le fasi delle operazioni anti-pirateria nelle quali è coinvolta con un precisione quasi maniacale e che riesce a riprendere il controllo delle navi sequestrate nell’arco di pochi minuti.

Dal punto di vista intelligence, Ostrovsky ritiene che il Mossad fosse in possesso di tutte informazioni necessarie a disegnare un profilo dettagliato dei  passeggeri e dell’equipaggio che componeva il convoglio, così come era certamente riuscito ad infiltrare suoi agenti a bordo delle navi, in modo da avere un aggiornamento della situazione in tempo reale ed aveva monitorato tutte le fasi dell’imbarco avvenute a Cipro.

E’ difficile quindi pensare che ci potessero essere state lacune nella raccolta delle informazioni, nella preparazione e nell’aggiornamento della missione; il problema sarebbe quindi scaturito da un’errata valutazione della minaccia e da pressioni esterne che avrebbero forzato i tempi e i modi dell’attacco. Pressioni politiche che sarebbero potute arrivare da Gerusalemme: dal premier Netanyahu o dal suo ministro degli esteri, l’ultra conservatore Avigdor Lieberman.

Calarsi sulla coperta di una nave dopo aver attirato l’attenzione delle persone presenti a bordo con il frastuono degli elicotteri e cercare di fermare la flotta in acque internazionali non rappresenta certo la migliore delle soluzioni, sapendo soprattutto che sul ponte i militari avrebbero trovato un nutrito gruppo di persone non affini a questo tipo di situazioni e giornalisti pronti a riprendere e raccontare l’assalto. Un altro sbaglio è stato quello di voler assumere innanzitutto il controllo del ponte di coperta anziché arrembare la poppa e la prua per poi convergere verso il centro.

Errori inspiegabili per lo Shayetet 13, che in alternativa avrebbe potuto tentare la carta della sorpresa e con l’utilizzo dei mini-sommergibili, una volta arrivate in acqua territoriali, fermare le navi danneggiando le eliche di propulsione. Una tattica sicuramente migliore che potrebbe essere utilizzata contro un altro ospite indesiderato, la Rachel Corrie, la nave irlandese pronta a raggiungere Gaza e che sicuramente, a sessantatre anni di distanza, non avrebbe fatto della tragedia della Exodus un simbolo rovesciato.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Il Presidente della Repubblica federale tedesca, Horst Koehler, ha rassegnato ieri le sue dimissioni: dimissioni improvvise, con effetto immediato e non discutibili che hanno lasciato tutti a bocca aperta, politici e cittadini. "Le mie dichiarazioni sulle missioni estere delle forze armate tedesche hanno incontrato critiche tanto violente quanto infondate, che hanno portato a gravi mancanze di rispetto nei confronti della figura istituzionale che rappresento" ha spiegato Koehler, al suo secondo mandato, in una conferenza stampa. Ed è proprio con un colpo di scena che Kohler ha deciso di lasciare il palcoscenico della politica: come a richiamare l'attenzione di tutti per riguadagnare il rispetto perduto.

La questione era nata una settimana fa da alcune osservazioni di Koehler rilasciate in un'intervista radiofonica. Dopo aver sopreso la Germania con una visita inaspettata alle sue truppe in Afganistan, il capo di Stato aveva detto che "nel dubbio e nella necessità una missione militare può servire anche a tutelare gli interessi economici della Germania, tra cui la garanzia della libertà delle vie commerciali". Die Linke e i principali quotidiani non si sono risparmiati le critiche più feroci: attribuita all'Afghanistan, una tale affermazione risulta alquanto maldestra e fuoriluogo, considerati gli sforzi dell'Occidente tutto a presentare i vari interventi in Medio Oriente come missioni di pace. I commenti negativi dell'opposizione sono arrivati a esprimere un'insoddisfazione generale nei confronti della figura di Koehler.

Koehler, da parte sua, ha parlato subito di un grave fraintendimento: le sue parole non si si riferivano all'Afghanistan, ma ad altre missioni estere della Germania, tra  cui le operazioni contro i pirati al largo delle coste somale e del Golfo di Aden. "Mi rattrista pensare che si sia potuti arrivare a un fraintendimento tale in una questione così importante e difficile", ha aggiunto l’ormai ex Presidente durante la conferenza stampa di ieri sera. I più maliziosi, tuttavia, pensano che il suo disappunto sia dovuto ad altri motivi e non mancano di sottolineare quanto poco plausibile appaia il motivo della sua ritirata.

Tanto per cominciare, la Coalizione nero-gialla che lo ha riconfermato lo scorso settembre a capo dello Stato ha spezzato poche lance a suo favore. Eppure Koehler è da sempre considerato "l'uomo di Angela Merkel" per l'affinità dimostrata con la Cancelliera durante i suoi mandati. L'unico intervento in suo sostegno è stato quello del ministro della Difesa Theodor zu Guttenberg (CSU), che ha sottolineato come il libro bianco dell'esercito tedesco preveda la difesa degli interessi vitali in momenti di necessità. Inaspettatamente, Angela Merkel non si è espressa:  la Cancelliera non considerava suo dovere immischiarsi nelle faccende di un altro organo costituzionale.

E ora, alla Coalizione non restano che gli occhi per piangere. Dopo aver tentato invano di dissuadere Koehler, la Merkel si è detta "assolutamente rattristata" dell'inaspettata decisione, così come il vicecancelliere Guido Westerwelle (FDP): si tratta di una scelta che la Cancelliera si trova comunque costretta ad accettare, ha ammesso. Koehler è stato il consigliere finanziario per eccellenza della Cancelliera: l'ex-direttore del Fondo Monetario Internazionale vanta una conoscenza matura e profonda dell'economia, una dote - soprattutto in questo periodo di crisi - molto preziosa.

Tra l'altro, Koehler è, tra i politici tedeschi, il più amato dagli elettori; la sua perdita va a incidere negativamente su un governo già di per sé abbastanza provato e discusso.  Anche dall'opposizione arrivano commenti di ammirazione e rammarico: il presidente socialdemocratico, Sigmar Gabriel (SPD), riconosce di aver stimato, così come tutto il popolo tedesco, l'ex presidente e la sua condotta.

D'altra parte, Horst Koehler ha sempre cercato l'imparzialità in forza della figura istituzionale che ha rappresentato: il suo obiettivo è stato quello di mantenersi al di sopra dei partiti e delle politica stessa, tant'è vero che ha sempre cercato il consenso dei cittadini più di quello dei suoi colleghi. Per qualcuno, la mancanza di sangue freddo di Koehler è da attribuire alla sua poca esperienza politica: nato e formatosi in seno all'economia, Koehler non avrebbe saputo gestire in maniera equilibrata le critiche ricevute.

E ora non resta che indovinare chi sarà il suo successore, che verrà eletto nei prossimi trenta giorni dall'Assemblea Federale, un organo speciale composto dai membri del Bundestag, il Parlamento tedesco, e da un ugual numero di delegati scelti dai parlamenti dei 16 Laender. La questione rimane aperta e ha sollevato in Germania numerosi dubbi e una grande sorpresa: le dimissioni di un capo dello Stato non sono certo una cosa all'ordine del giorno. Come non lo é una voce dal sen fuggita. Da ora, comunque, la Merkel è più debole.


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