di Michele Paris

A conferma del progressivo deteriorarsi della situazione in Afghanistan per le truppe della NATO, è giunto la settimana scorsa un dettagliato rapporto del Pentagono commissionato dal Congresso americano. In 150 pagine, sono stati gli stessi analisti del Dipartimento della Difesa a mettere impietosamente in evidenza la crescente espansione dell’influenza talebana nel paese e la scarsa fiducia della popolazione civile nel governo-fantoccio del presidente Hamid Karzai.

Lo studio del Pentagono, nonostante lasci comprensibilmente intravedere qualche spiraglio per le forze alleate occidentali, contraddice in maniera lampante la retorica dei vertici militari e politici statunitensi sull’efficacia di uno sforzo militare che ha dato il via a nuove sanguinose operazioni negli ultimi mesi dopo l’aumento di truppe voluto da Obama. Una volta perfezionata la strategia della Casa Bianca entro il prossimo mese di agosto, saranno infatti circa 30 mila i soldati che raggiungeranno l’Afghanistan, portando a centomila il totale degli americani impiegati.

La valutazione interna arriva in seguito all’offensiva lanciata dagli USA nella provincia meridionale di Helmand e alla vigilia di una nuova e più imponente operazione attorno alla città di Kandahar, vera e propria capitale spirituale dei Talebani. Secondo il Pentagono, la prima iniziativa ha ottenuto qualche risultato positivo, anche se gli insorti avrebbero immediatamente infiltrato loro uomini nelle strutture locali, persuadendo gran parte della popolazione a non collaborare con il governo afgano e l’esercito occupante.

Proprio nelle regioni meridionali del paese, i talebani godono di un vasto supporto tra la popolazione, tanto che il rapporto ammette che qui il movimento di resistenza difficilmente potrà essere sconfitto del tutto. Piuttosto, nella migliore delle ipotesi, sembra ci si dovrà accontentare di contenerlo nel lungo periodo, per evitare che minacci l’esistenza stessa del governo Karzai. Significativamente, tra i 121 distretti afgani più importanti al fine della stabilizzazione del paese, in ben 92 la popolazione risulta complessivamente ben disposta verso i Talebani.

Questi ultimi, oltre a mostrare un livello di sofisticazione sempre maggiore nel condurre le proprie operazioni di guerriglia, non si limitano ad intimidire le popolazioni locali. Bensì, i governatori-ombra da loro designati, contribuiscono a garantire un certo grado di giustizia e qualche servizio sociale in aree dove il governo centrale è pressoché totalmente assente.

Sfruttando la frustrazione diffusa tra la gente comune, i Talebani trovano inoltre terreno fertile per reclutare forze nuove nella loro battaglia contro gli occupanti. A ciò vanno aggiunte le accuse - quasi sempre fondate - rivolte verso la corruzione dilagante tra i rappresentanti delle istituzioni locali e del governo di Kabul. Accuse che vengono propagate in maniera massiccia grazie a efficaci campagne di informazione e propaganda.

In risposta, almeno in parte, all’aumento del contingente NATO in Afghanistan, tra febbraio 2009 e marzo 2010 il livello di violenza è aumentato poi addirittura dell’87%. Da parte americana, come se non bastasse, ci si attendono ulteriori passi avanti da parte dei ribelli nell’impiego dei cosiddetti “Ordigni esplosivi improvvisati” (IED) nei prossimi mesi. I Talebani hanno d’altra parte facile accesso ad armi ed esplosivi vari, così da potersi assicurare “efficaci mezzi” di sussistenza per le loro operazioni militari.

Un punto molto controverso del rapporto del Pentagono riguarda invece il numero di decessi causati dalle forze occupanti. Secondo gli americani, le vittime civili afgane sarebbero diminuite nell’ultimo anno, mentre la maggior parte di esse avverrebbe perché i Talebani utilizzano i civili stessi come scudi umani. Secondo alcuni media americani, tuttavia, i primi mesi del 2010 avrebbero fatto segnare un drammatico aumento delle vittime civili causate dai militari americani e dai loro alleati. Esse sarebbero state 87 durante i primi tre mesi del 2010, contro le 29 dello scorso anno durante lo stesso periodo di tempo.

Alla luce delle recenti rivelazioni sui ripetuti tentativi di insabbiamento delle stragi compiute dalle forze NATO ai danni di civili - donne e bambini compresi - c’è da ritenere peraltro che tali cifre siano abbondantemente sottostimate. La questione risulta di cruciale importanza, poiché la morte di civili innocenti si traduce in ulteriore avversione nei confronti degli americani e in sostegno per gli insorti. Tanto più che all’indomani della nomina a comandante delle forze alleate in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal, lo scorso anno aveva individuato nel contenimento del numero delle vittime civili l’obiettivo prioritario per costruire un rapporto di fiducia con la popolazione locale.

Mentre i vertici militari alleati promettono che a breve ci saranno inevitabilmente altre numerose vittime nelle operazioni a Kandahar, suscitando così nuove ostilità verso gli americani, il Pentagono si aspetta progressi da parte dei Talebani anche in aree del paese dove nel recente passato la loro presenza era stata relativamente modesta. Si tratta delle province dell’Afghanistan settentrionale e occidentale, dove la strategia dei ribelli sarà mirata a ridurre la partecipazione alle elezioni per il rinnovo del parlamento previste per il prossimo settembre.

A completare una valutazione decisamente più negativa rispetto alle analisi del recente passato, il Dipartimento della Difesa americano ha infine lanciato segnali poco incoraggianti anche per quanto riguarda le prospettive delle forze di sicurezza afgane. L’addestramento dell’esercito e della polizia locali rappresentano un momento fondamentale per procedere con un eventuale ritiro delle truppe della NATO, come chiedono da tempo gli elettori occidentali ai loro governi. Gli sforzi per la creazione di un esercito nazionale efficiente hanno prodotto però progressi molto modesti nell’ultimo anno, rendendo tuttora indispensabile la presenza nel paese delle forze NATO ai fini della sopravvivenza stessa del fragile e screditato governo Karzai.

di Michele Paris

Le consuete manifestazioni del Primo Maggio si sono trasformate quest’anno negli Stati Uniti in un vasto movimento di protesta contro i continui attacchi della politica e delle forze di polizia nei confronti degli immigrati senza documenti. A mobilitare decine di migliaia di persone in una settantina di città americane sono state, in particolare, la recente durissima legge anti-immigrazione approvata dallo stato dell’Arizona e la finora mancata promessa del presidente Obama di promuovere un nuovo quadro legislativo che consenta un percorso di integrazione agli oltre dieci milioni di immigrati irregolari presenti sul suolo statunitense.

Il corteo più numeroso che ha animato il “May Day” d’oltreoceano è stato quello di Los Angeles, al quale hanno preso parte oltre 50 mila persone, tra cui il sindaco di origine ispanica, Antonio Villaraigosa, e l’arcivescovo della metropoli californiana, Roger Mahony. Venticinquemila sono stati invece i manifestanti a Dallas, nel Texas, 10 mila a Chicago e a Milwaukee, nel Wisconsin, qualche migliaio a San Francisco, New York e Washington. Nella capitale si è vissuto qualche momento di tensione, con l’arresto del deputato democratico dell’Illinois, Luis Gutierrez, fermato dalla polizia assieme ad alcuni sindacalisti e leader delle associazioni a favore dei diritti degli immigrati per aver inscenato un sit-in di fronte alla Casa Bianca.

Queste dimostrazioni a sostegno degli immigrati irregolari erano già state annunciate dallo scorso mese di marzo, quando svariati gruppi della società civile avevano fissato per il Primo Maggio l’ultimatum al Congresso per la presentazione di una riforma complessiva. L’inerzia della politica e l’introduzione della già famigerata legge SB1070 in Arizona, ha però dato alle manifestazioni un impulso e un coordinamento del tutto inaspettati.

Molte delle personalità che hanno parlato alla folla, come il reverendo Jesse Jackson a Chicago, non hanno esitato ad accostare la lotta per i diritti degli immigrati a quella per i diritti civili degli anni Sessanta. Lo stesso Jackson ha definito l’Arizona come la nuova Selma, riferendosi alla cittadina dell’Alabama diventata il simbolo della battaglia contro la segregazione razziale nel Sud degli Stati Uniti. Tra gli aspetti più discussi del provvedimento adottato dal Parlamento locale dell’Arizona, ci sono la facoltà assegnata alle forze dell’ordine di fermare chiunque sia sospettato di essere un immigrato illegale per chiedere la verifica dei documenti, pena l’arresto e la deportazione, e l’aver reso un crimine penale il solo fatto di risiedere sul territorio dello stato senza permesso.

Al centro delle rivendicazioni dei partecipanti alle manifestazioni negli USA c’era la fine dei raid contro gli immigrati senza documenti , aumentati vertiginosamente negli ultimi mesi nonostante le garanzie offerte dall’amministrazione Obama per una risoluzione equa del problema. Per le personalità politiche (democratiche) presenti agli eventi nelle varie città americane, tuttavia, l’obiettivo principale era quello di convogliare la protesta verso il supporto per la riforma di cui si sta da qualche settimana cominciando a parlare a Washington.

Sia il sindaco di Los Angeles che il parlamentare democratico arrestato, così, si sono fatti interpreti della proposta di legge appoggiata dallo stesso Obama e che difficilmente può però essere considerata una giusta soluzione al problema dell’immigrazione. Riflettendo le continue concessioni alla demagogia repubblicana e dei gruppi di estrema destra che chiedono misure repressive, il progetto di riforma, pur prevedendo un lungo e complicato processo verso la cittadinanza americana, comprende infatti la massiccia militarizzazione del confine meridionale e l’istituzione di un sistema nazionale di identificazione personale al limite della violazione dei diritti civili.

Per quanto le manifestazioni del Primo Maggio abbiano lanciato un segnale molto forte per la politica di Washington, grazie ad una vasta mobilitazione su scala nazionale, in alcune città le presenze sono state tutto sommato modeste. In una città come New York, ad esempio, dove si stima vivano circa tre milioni di abitanti nati al di fuori dei confini americani, a Union Square si sono visti poche migliaia di dimostranti, sintomo della sfiducia e della disillusione che pervadono gli immigrati irregolari, ma anche dei loro crescenti timori nel venire a contatto con le autorità di polizia.

Anche se il testo della riforma che circola a Washington - frutto delle trattative tra il senatore democratico di New York, Chuck Schumer, e quello repubblicano della Carolina del Sud, Lindsey Graham - rappresenta una risposta quasi esclusivamente punitiva al problema dell’immigrazione, appare del tutto improbabile che il Congresso possa licenziare una nuova legge quest’anno.

Con un calendario dei lavori attualmente dominato da altre questioni delicate, come la riforma del sistema finanziario e la legge sul contenimento delle emissioni in atmosfera, anche Obama ha riconosciuto l’improbabilità di ottenere un qualche risultato concreto quest’anno. A ciò si aggiunga il desiderio da parte di entrambi i partiti di evitare dibattiti laceranti su temi scottanti come l’immigrazione durante la lunga campagna elettorale già in corso per le elezioni di medio termine del prossimo novembre.

Nonostante il polverone suscitato dalle misure adottate in Arizona e le proteste scaturite in tutto il paese, nulla di positivo c’è da attendersi nel prossimo futuro dalla Casa Bianca e dal Congresso. Come in altri ambiti, insomma, anche la questione dell’immigrazione sembra destinata a finire nella lista già folta delle illusioni e delle aspettative deluse da parte dell’amministrazione Obama.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Gratta un russo e troverai un tartaro. E' un vecchio detto che risale a Napoleone. Ma ora nel Kirghizistan della nuova rivoluzione lo slogan è "Gratta e scopri un israeliano". Tutto questo perché dietro alle proteste e alle manifestazioni di massa contro i corrotti del clan di Kurmanbek Bakiev - che agitano le piazze di Biskek - si scoprono vicende nebulose e si delineano alcuni personaggi che sembravano sepolti nell'anonimato.

I loro nomi sono ora sulla bocca di tutti. Si parla, ad esempio, della "Pasionaria" Roza Otumbaieva, che ha avviato, nelle ultime ore, iniziative politico-diplomatiche che gettano nuova luce sui fatti delle settimane scorse. Perché a sua prima missione all'estero ha avuto come meta Israele, dove si è incontrata con alcuni oligarchi israeliani (usciti dall'ex area sovietica) con l'obiettivo di ottenere da loro fondi per portare avanti la nuova rivoluzione.

Altri nomi (restati sino ad ora in secondo piano) sono quelli di due loschi personaggi - Evghenij Gurevic e Michail Nadel - che in tutti questi anni si sono arricchiti sino all'inverosimile sfruttando il caos della situazione socio-economica del Kirghizistan. Sono stati loro a ricoprire il ruolo di forze brute del potere.

Vediamoli da vicino. Gurevic (che è stato sino a ieri il consulente della famiglia "imperiale" del presidente Bakiev) è un personaggio che ha sempre navigato nel mondo delle trame economiche vivendo negli ambienti dell'economia sommersa. Con in tasca un passaporto americano e forti appoggi politici, diplomatici ed economici da parte di Tel Aviv, è sempre riuscito a volgere in suo favore le grandi transazioni commerciali e bancarie effettuate dal potere di Biskek.

Implicato, tra l'altro, anche in un’indagine che l’ha visto "agganciato" a cosche mafiose italiane,  si è distinto nella direzione  del gruppo finanziario "Mgn Capital" effettuando operazioni per 300milioni di dollari (in favore dell'allora presidente Bakiev) e guidando nello stesso tempo due holding kirghise - "Severelekto" e "Kirghiztelekom" - impegnate su basi internazionali in affari (somme da 2,7 miliardi di dollari) con "Telecom Italia" e con "Fastweb".

Gurevic è anche impegnato nella direzione dell'americana "Virage Consulting Ltd." e ha le mani sul pacchetto azionario dell'aeroporto nazionale "Manas" e sull’azienda proprietaria di tutte le stazioni elettriche kirghize. Negli "intervalli" si diletta svolgendo lezioni nell'università della California e nella "Haas School of Business" di Berkeley.

C'è poi il suo "socio" Nadel, azionista principale della "Asia Universal Bank", anche lui associato alle vicende israeliane e non solo per vincoli familiari. Nadel, tra l'altro, è riuscito ad accreditarsi in Italia grazie alla sponsorizzazione della Camera di Commercio che l’ha portato in missione nelle Marche per propagandare le opportunità commerciali dell’area dell’Asia centrale e della zona franca di Biskek. E tutto questo nonostante la "Asia Universal" di questo oligarca asiatico-israeliano sia stata esplicitamente accusata di riciclaggio di denaro sporco dalla principale banca di Stato russa, la Centrobank.

Sul piano politico del Kirghizistan di oggi c'è poi da rilevare che la Russia non ha comunque perso tempo nel riconoscere la leadership della Otumbaieva, offrendole il suo sostegno politico, economico e militare. Nello stesso tempo, i tentativi di Bakiev e del suo clan (relegati nelle provincie periferiche di Jalal-Abad e nelle confinanti Osh e Batken) di tentare di ribaltare la situazione, sembrano più che mai destinati a fallire. Le manifestazioni di piazza in favore del vecchio regime raccolgono solo un migliaio di sostenitori. E, per di più, l'ex presidente ha anche perso l'appoggio dei servizi segreti kirghizi e delle forze di sicurezza e di polizia, che credeva dalla sua parte.

Intanto a Mosca si apprende che nell'area asiatica sono stati inviati nuovi reparti delle forze speciali con l'obiettivo di rafforzare la base russa di Kant, a pochi chilometri dalla capitale Biskek. Il Cremlino, è chiaro, teme lo sviluppo di movimenti nazionalisti e autoritari che potrebbero - mettendo a rischio il centro di Kant - compromettere ulteriormente  l'equilibrio eurasiatico.

 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nelle recenti elezioni presidenziali, l’Austria ha rinnovato la fiducia a Heinz Fischer e ha negato il trionfo alla controversa leader dell’estrema destra, Barbara Rosenkranz (FPOe). Il risultato è giunto felicemente inaspettato, visti gli esiti delle legislative del 2008, in cui un austriaco su tre aveva votato per le destre radicali di Joerg Haider (BZOe), morto in un incidente stradale nell’autunno 2008, e Heinz-Christian Strache (FPOe), provocando l’imbarazzo di tutta l’Europa. E, tuttavia, le presidenziali in Austria hanno lasciato un po’ d’amaro in bocca: rivelando zone d’ombra che sono ormai tipiche di tutte le democrazie contemporanee.

Il mandato di Heinz Fischer, 71 anni, è stato confermato per i prossimi sei anni con il 78,9 % delle preferenze: una maggioranza che non lascia intravedere incertezze di sorta. Come già nel 2004, anche stavolta Fischer si è presentato come indipendente. Poco prima delle precedenti presidenziali, infatti, l’allora candidato alla più alta carica della Repubblica aveva rinunciato ufficialmente a tutti i suoi incarichi all’interno del Partito Socialdemocratico d’Austria (SPOe), dopo quasi trent’anni di militanza: la sua formazione dell’attuale Presidente resta comunque socialdemocratica.

D’altra parte, il successo schiacciante di Fischer ha precluso il trionfo a Barbara Rosenkranz, madrina dell’FPOe, lo storico partito nazionalista e liberale, che ha guadagnato sempre più importanza negli ultimi anni, facendo appunto sperare il Partito in un ottimo risultato. La Rosenkranz ha conquistato il 15,6% dei consensi: nulla, se si considera che i due partiti di estrema destra, BZOe e FPOe, si sono assicurati quasi il 30% dei voti alle ultime legislative, affermandosi tra le forze maggiori della politica austriaca.

Barbara Rosenkranz, tuttavia, si è distinta in quest’ultima campagna elettorale per alcune dichiarazioni - per usare un eufemismo - poco felici. La sua comprensione, in particolare, si è rivolta a quei gruppi che agiscono in nome di ideologie neonaziste e che arrivano a negare, in alcuni casi, l’Olocausto. La legge impedisce e punisce queste attività come illegali: la Rosenkranz, 51 anni, le vorrebbe permettere in nome della “libertà di espressione”.

Per avere un quadro completo della situazione bisogna forse ricordare che il marito di Barbara, Horst Jakob Rosenkranz, è stato membro dell’NPD, partito - inutile dirlo - di estrema destra, attualmente proibito dalla legge. La Rosenkranz è madre di dieci figli, a ognuno dei quali è stato assicurato un nome di antica e nobile provenienza germanica. Candidare Barbara Rosenkranz a una carica così importante e nobile non è stata forse, per l’FPOe, l’idea migliore.

Terzo e ultimo candidato di questa sessione era Rudolf Gehring (CPOe), del Partito Cristiano, che ha ottenuto il 5,4% dei voti. Anche Gehring, in realtà, si è presentato in modo abbastanza curioso: ha aperto la sua campagna con una messa e lotta per una maggiore presenza della cristianità nella res politica, non mancando di pronunciarsi contro l’aborto e l’omosessualità (considerata molto grossolanamente come “smarrimento”).

Ma c’è anche chi, per queste presidenziali così particolari, ha scelto di non presentare candidati. Il Partito Popolare Austriaco (OeVP), da parte sua, non ha avuto il coraggio di mettersi contro Fischer e si è mostrato più che confuso: gli elettori non hanno mancato di punire i conservativi in maniera crudele. Se alcuni Popolari si sono espressi a favore della Rosenkranz, altri hanno invitato i propri elettori a consegnare le schede elettorali in bianco in segno di protesta: ed è quello che ha fatto uno sparuto 7% dell’elettorato. Certo, da un partito che alle ultime elezioni aveva ottenuto il 25% dei consensi, ci si aspettava di più.

Anche i Verdi si sono rifiutati di presentarsi con un proprio candidato: la campagna elettorale è troppo cara, hanno accusato pubblicamente, e il partito dei Verdi non se l’è potuta permettere. Il loro sostegno è andato apertamente a Fischer, in nome dei diritti umani e della lotta contro l’estrema destra. Ma l’accusa rimane: è giusto che in Paese democratico la campagna elettorale diventi una questione di soldi?

Ma gli austriaci, da parte loro, non hanno potuto fare a meno di notare la “particolarità” di queste elezioni: alle urne si è presentato, infatti, solo il 49,2% dell’elettorato, toccando il minimo storico dell’Austria e portando avanti la tendenza dell’Europa intera. Perché nella democrazia attuale, forse, l’unica decisione degna di rispetto sembra quella del non-voto.

di Michele Paris

Da qualche giorno, lo stato dell’Arizona è salito alla ribalta delle cronache nazionali ed estere in seguito all’approvazione di una delle leggi sull’immigrazione tra le più repressive ed anti-democratiche della storia americana. Strumentalizzando la presunta minaccia di una foltissima presenza di immigrati ispanici in uno stato di frontiera che sta attraversando un periodo di profonda crisi economica, il parlamento locale dominato dal Partito Repubblicano ha adottato una legge che, tra l’altro, trasformerà in reato la sola residenza senza permesso nel territorio dell’Arizona.

I nuovi provvedimenti, se da un lato stanno galvanizzando l’estrema destra statunitense, dall’altro hanno provocato le critiche della società civile, dei democratici al Congresso e della Casa Bianca, proprio alla vigilia del dibattito che dovrà portare ad una riforma complessiva della politica sull’immigrazione negli Stati Uniti.

Ad attendere nuove misure governative in questo ambito sono circa dodici milioni di immigrati che continuano a vivere ai margini della società americana. La prima risposta non è giunta tuttavia da Washington, come aveva promesso il presidente Obama, bensì dallo stato sud-occidentale considerato la principale porta d’ingresso nel paese per gli immigrati provenienti dal Messico e dal resto del continente latinoamericano.

Le misure draconiane licenziate dall’assemblea di Phoenix sono finite lo scorso fine settimana sul tavolo della governatrice, la repubblicana Jan Brewer, la quale, pur essendo considerata relativamente moderata, ha dato il proprio assenso. La governatrice, così come il senatore dell’Arizona John McCain, dopo aver manifestato perplessità su norme così dure nel recente passato, hanno fornito il proprio appoggio alla nuova legge perché entrambi pressati da sfidanti di estrema destra nelle rispettive primarie repubblicane in programma il prossimo mese di agosto.

Tra le disposizioni più discusse, vi è quella che consentirà alla polizia di fermare chiunque sia sospettato di essere un “immigrato illegale” per chiedere la verifica dei documenti. Quanti non saranno in grado di esibire, ad esempio, una patente di giuda rilasciata dallo stato dell’Arizona, un passaporto oppure un permesso d’immigrazione come la Carta Verde, potrebbero essere soggetti ad arresto e al trasferimento presso l’Ufficio Immigrazione, senza nessuna possibilità di ricorso. Le autorità potranno rivolgere le loro attenzioni verso qualunque persona sollevi un “ragionevole dubbio” relativamente al proprio status, potenzialmente dando il via libera ad una ondata di perquisizioni e arresti per quanti abbiano un aspetto “straniero”.

Secondo la legge SB 1070, poi, sarà da considerarsi reato per un immigrato irregolare lavorare in Arizona o anche solo andare alla ricerca di un impiego. Allo stesso modo, sarà proibito ostacolare il traffico sostando lungo la strada per raccogliere i lavoratori giornalieri che quotidianamente offrono i propri servizi per una manciata di dollari. Ovviamente, sarà un crimine anche fornire protezione ad un immigrato senza documenti. Come se non bastassero la schedatura su base razziale e gli altri provvedimenti gravemente repressivi, le nuove regole sull’immigrazione dell’Arizona daranno addirittura facoltà ai cittadini di denunciare qualsiasi funzionario o agenzia dello stato ritenuto poco zelante nell’applicazione della legge stessa.

I contenuti del provvedimento appena approvato riflettono in gran parte le posizioni del suo primo firmatario, il senatore dello stato Russel Pearce, molto vicino ad organizzazioni apertamente razziste e già promotore di svariate leggi anti-immigrazione quasi sempre bocciate dai tribunali federali perché incostituzionali. Come le precedenti, anche per le misure appena approvate la prossima destinazione potrebbe essere un’aula di tribunale. La stessa Casa Bianca, infatti, ha reso noto tramite un portavoce che l’amministrazione Obama starebbe valutando la possibilità di iniziative legali per bloccarne l’entrata in vigore.

Se il palese attentato ai diritti democratici degli immigrati in Arizona nasce da una manovra di parte repubblicana dietro le pressioni di ambienti di estrema destra, il pugno di ferro sul tema dell’immigrazione appare in realtà come una questione bipartisan negli Stati Uniti. Per quanto Obama e i leader di maggioranza abbiano criticato aspramente la nuova legge e prediligano iniziative non così apertamente razziste o che non mettano in discussione l’autorità del governo federale, le proposte di legge che circolano a Washington non promettono nulla di buono.

Come ha annunciato il numero uno dei democratici al Senato, Harry Reid, la riforma dell’immigrazione sarà con ogni probabilità il tema di discussione che il Congresso affronterà una volta passata la riforma del sistema finanziario. Uno dei punti centrali del progetto in fase di perfezionamento, e frutto di un accordo bipartisan tra i senatori Chuck Schumer (democratico di New York) e Lindsey Graham (repubblicano della Carolina del Sud), prevede tra l’altro la creazione di speciali tessere della Sicurezza Sociale nelle quali verranno registrati i dati biometrici dei cittadini. Con esse, le aziende americane potranno immediatamente verificare lo status dell’immigrato, al quale, se irregolare, verrà negato qualsiasi impiego regolare.

Le intenzioni di Obama circa la risoluzione dei problemi relativi all’immigrazione erano d’altra parte già state chiarite al momento della scelta della responsabile del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. A dirigere il ministero che si occupa a livello federale del controllo dei flussi migratori, il presidente democratico aveva chiamato l’anno scorso proprio l’allora governatrice dell’Arizona, Janet Napolitano, distintasi nel suo precedente incarico per aver fatto aumentare vertiginosamente il numero di arresti e deportazioni di immigrati provenienti dal confine meridionale.

Contro una legge che calpesta il diritto di qualsiasi persona a muoversi liberamente per cercare lavoro dove ve ne sia, al contrario del capitale che ha facoltà di spostarsi da un paese all’altro alla ricerca di manodopera a sempre più basso costo, in Arizona si è già tenuta più di una manifestazione, mentre altre sono previste nei prossimi giorni. L’ondata di indignazione suscitata negli Stati Uniti, c’è da sperare, potrebbe almeno stimolare un dibattito serio sull’immigrazione e favorire un’iniziativa nazionale improntata al rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone, ai quali dovrebbero ispirarsi gli stessi valori su cui teoricamente si fonda la democrazia americana.


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