di Carlo Benedetti

MOSCA. C'è stata festa al Cremlino per la recente firma del "Salt 2" e si è manifestata, negli ambienti della presidenza russa, una certa soddisfazione per la ripresa diplomatica di queste ultime settimane. Ma ora arriva la doccia fredda. Perchè mentre gli analisti russi iniziano a studiare i risultati della riunione dei ministri degli Esteri dei paesi della Nato (svoltasi a Tallin, sulle rive del Baltico, nei giorni scorsi) piomba su Mosca una notizia che riporta indietro le lancette della distensione.

Obama, infatti, ha dato luce verde ad una nuova arma potentissima in grado di colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta. L’arma non userà ordigni nucleari ma gli effetti saranno equivalenti come confermato dal fatto che la Russia aveva già inserito nello Start 2 un preciso riferimento al Pgs (Prompt Global Strike) facendo contare ogni unità come una bomba atomica.

Ora la super-bomba made in Usa - trasportata da un missile Minuteman - potrà raggiungere entro 60 minuti qualsiasi angolo del pianeta. Dotata di sofisticatissime strutture di precisione, l'arma ha già una sua lunga storia. Era stata progettata a suo tempo da George W. Bush ma era stata bloccata dalle proteste di Mosca, che aveva fatto rilevare come i Minuteman Usa - trasportando ordigni nucleari - potevano essere considerati come "strumenti" micidiali validi per l’inizio di un attacco nucleare.

Ed ecco che Obama per tranquillizzare i russi (e i cinesi) si mobilita per offrire le garanzie necessarie per evitare malintesi: i silos dei missili della nuova arma - dice - saranno tenuti distanziati da quelli con ordigni nucleari e potranno essere ispezionati periodicamente dagli esperti russi e cinesi. Per ora, comunque, Mosca e Pechino dovranno accontentarsi delle verità ufficiali.

Quanto alla superbomba, questa potrebbe essere lanciata lanciata con un Minuteman in grado di volare sopra i 115 chilometri di altitudine, capace di sganciare un aliante dotato di strumenti supersofisticati che forniranno, dialogando con i satelliti, dati accuratissimi sulle manovre di avvicinamento al bersaglio da colpire. Il Pentagono, intanto, fa sapere che i test della nuova arma cominceranno nel 2014 e che entro il 2017 potrebbe entrare nell’arsenale Usa.

E c'è di più sul fronte di questo riarmo che non è per nulla "strisciante". Perché mentre il Pentagono da luce verde per il progetto del Pgs, è già operativa la nuova navicella militare X 37-B, a metà fra un minishuttle e un aereo militare ipertecnologico. E’ stata lanciata nello spazio, in gran segreto, dalla base della Nasa di Cape Canaveral in Florida. È un progetto top-secret e di dettagli ve ne sono pochi. Il suo scopo dovrebbe essere quello di supportare dallo spazio gli altri sistemi di combattimento a distanza. Un comunicato del Pentagono fa poi sapere, laconicamente, che il velivolo spaziale è stato concepito per «diventare un laboratorio dove testare le nuove tecnologie». E l'annuncio trionfale è che l’ordigno potrà colpire ogni angolo del pianeta in un’ora. Nello spazio ci sarà anche un drone militare destinato a guidare gli attacchi.

Quanto al vertice di Tallin - dove si è discusso il nuovo "Concetto strategico" destinato a dare forma all’Alleanza Atlantica nel prossimo decennio - gli analisti del Cremlino notano che la Nato punterebbe ad impegnarsi in aree mai immaginate nel 1999, dall’Afghanistan al cyberspazio. L'Alleanza, quindi, si rivela sempre più pericolosa presentandosi come un poliziotto globale.

Su questo aspetto insistono i media russi più accreditati, che avanzano, in merito, pungenti interrogativi. Alla radio di Mosca si annuncia che il "gruppo di 12 saggi", guidato dall’ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, dovrebbe presentare entro maggio al Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, una relazione sulle prospettive dell’Alleanza. C'è poi da rilevare che i capi di Stato e di governo della Nato decideranno le nuove prospettive nel mese di novembre, durante un vertice annunciato a Lisbona.

Ma le linee d’intervento sono state già fissate con chiarezza. Ed è stato il segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, che al vertice di Tallin ha tenuto un discorso programmatico sul tema “la solidarietà dell’Alleanza nel 21esimo secolo”, in cui ha evidenziato i modi attraverso i quali gli Alleati stanno dimostrando la loro solidarietà. E spiegando le tappe di questa nuova escalation - che già agita le acque delle diplomazie mondiali - il generale ha ribadito essere più che mai necessaria la presenza sempre più visibile della Nato su tutto il territorio alleato.

Per quanto poi riguarda lo scudo antimissilistico, ogni decisione in merito è stata rinviata al vertice di Lisbona, dove i Paesi membri della Nato decideranno se impegnarsi nella difesa antimissile, trasformandola in una vera e propria missione dell’Alleanza. Sempre a Tallin, i paesi dell'Alleanza hanno deciso di includere la Bosnia Erzegovina nel programma di pre-adesione della Nato (Map), ma il tutto avverrà soltanto se la leadership del Paese balcanico metterà in moto un processo di riforme rimasto finora in sospeso. E comunque sia Sarajevo ha chiesto di aderire al Map già nel 2009.

La temperatura, quindi, sale. Soprattutto se ci si riferisce alla situazione generale nei confronti dell'Iran. Anche in questo teatro Obama sta cercando soluzioni per normalizzare l'intera area senza allarmare i tradizionali alleati. Israele in particolare.

 

di Michele Paris

Il 21 settembre 1976 l’automobile su cui viaggiavano l’ex ministro del governo Allende, Orlando Letelier, la sua segretaria, Ronni Moffitt, e il marito Michael, saltò in aria all’altezza dello Sheridan Circle a Washington, a meno di due chilometri dalla Casa Bianca. L’esplosione, che provocò la morte dei primi due, rappresentò forse il più eclatante atto di terrorismo internazionale eseguito in territorio statunitense fino a quel momento. I responsabili dell’attentato si erano mossi nell’ambito delle operazioni clandestine della famigerata Operazione Condor, implementata con la supervisione del governo americano.

A quasi trentaquattro anni di distanza, una serie di documenti declassificati dagli Archivi della Sicurezza Nazionale, confermano come le mani del premio Nobel per la Pace Henry Kissinger, allora Segretario di Stato nell’amministrazione Ford, siano macchiate del sangue di Letelier e della 25enne attivista del New Jersey.

Nominato ambasciatore negli USA da Salvador Allende nel 1971, Orlando Letelier ricoprì successivamente incarichi importanti nel governo riformista cileno. Ministro degli Esteri, degli Interni e della Difesa, Letelier fu uno dei primi esponenti di spicco dell’amministrazione Allende ad essere arrestato dopo il colpo di stato militare del 13 settembre 1973 guidato dal generale Augusto Pinochet. Incarcerato e più volte torturato, nel settembre 1974, in seguito alle pressioni diplomatiche della comunità internazionale, venne rilasciato e poté raggiungere dapprima Caracas e poi la capitale americana.

Qui iniziò ad insegnare presso l’American University e a lavorare per l’Institute for Policy Studies, un istituto di ricerca dedicato agli studi di politica internazionale, dove si stava appunto dirigendo la mattina della sua morte. Nel suo esilio di Washington, Letelier divenne immediatamente la principale voce critica del regime di Pinochet, rivelandone i metodi repressivi e battendosi per un boicottaggio internazionale che riuscì a impedire l’erogazione di prestiti e aiuti militari, provenienti soprattutto dall’Europa. Il 10 settembre 1976, con un decreto governativo, gli venne infine revocata la cittadinanza cilena.

Per l’omicidio di Letelier vennero indagati e poi condannati svariati individui. Il responsabile della preparazione dell’esplosivo fu individuato nell’ex agente della CIA Michael Townley, un espatriato americano alle dipendenze della DINA (Dirección de Inteligencia Nacional), la polizia segreta di Pinochet. Townley venne estradato negli USA nel 1978, con un accordo secondo il quale avrebbe rivelato solo ciò che era rilevante in relazione alla violazione delle leggi americane, omettendo qualsiasi informazione riguardante il coinvolgimento della DINA e del governo cileno, ovvero dei mandanti dell’assassinio di Letelier. Il processo a Townley si concluse con una condanna a dieci anni, ma dopo aver scontato metà della pena venne rilasciato e messo sotto la protezione del governo americano, che lo inserì in un programma federale di protezione testimoni.

Gli esecutori materiale dell’omicidio provenivano dagli ambienti anti-castristi operativi sul suolo statunitense con l’appoggio della CIA. Al progetto dell’operazione contribuì in maniera determinante l’organizzazione CORU, fondata da Luis Posada Carriles. Carriles era (ed è tutt’ora) anch’egli al soldo dell’intelligence a stelle e strisce e implicato in numerose azioni terroristiche, tra cui l’esplosione in volo di un aereo civile della Cubana de Aviaciòn sui cieli delle Barbados, che causò la morte di 76 persone. Posada Carriles è responsabile, oltre a numerosi atti di terrorismo contro personale cubano in ogni dove del continente americano, anche dell’organizzazione di una serie di attentati a L’Avana nel 1997. In uno di questi, una bomba collocata nella hall dell’hotel Copacabana, uccise il cittadino italiano Fabio Di Celmo e altre undici persone risultarono ferite.

A dare l’ordine dell’uccisione di Letelier furono invece i vertici del regime cileno, nelle persone del capo della DINA, generale Manuel Contreras, e dello stesso Pinochet. Secondo quanto confessato da Contreras ad un giudice in Cile nel 2005, l’assassinio di Washington venne portato a termine grazie al supporto della CIA, degli esuli cubani e di membri del servizio segreto venezuelano (DISIP). Lo stesso vice-direttore della CIA dell’epoca, Vernon Walters, avrebbe informato direttamente Pinochet della pericolosità di Letelier, impegnato a Washington nella formazione di un governo cileno in esilio.

Il governo americano aveva d’altra parte rivolto la propria attenzione al Cile da tempo. Lo stesso Kissinger considerava l’instaurazione di un governo socialista in questo paese un pericoloso esempio per il resto del continente e non solo. Sotto la sua supervisione, immediatamente dopo le elezioni del 1970, la CIA aveva manovrato senza successo negli ambienti militari cileni per impedire l’insediamento di Allende alla presidenza. Nei tre anni successivi, tuttavia, Kissinger fece di tutto per indebolire il nuovo governo con l’obiettivo di rimuovere il legittimo presidente dal potere, manovrando gli ambienti interni al Dipartimento di Stato americano che si opponevano ad un intervento diretto degli Stati Uniti negli affari cileni.

del resto, l’8 settembre 1974, il New York Times rivelava che, secondo una testimonianza resa il 22 aprile dello stesso anno da William Colby, direttore della Cia, di fronte alla Sottocommissione dei servizi armati sull’intelligence della Camera dei rappresentanti, l’amministrazione Nixon avrebbe stanziato oltre otto milioni di dollari per le attività della Cia contro il regime del presidente Salvador Allende. Le operazioni di intervento, secondo Colby, erano state approvate in blocco dalla Commissione dei quaranta, un quadro di comando di alto livello addetto all’approvazione dei piani di sicurezza guidati da Henry Kissinger, segretario di Stato degli Stati Uniti, e furono considerate come prova schiacciante delle tecniche di sovvertimento di altri governi attraverso lo stanziamento di fondi.

Per Kissinger, in sostanza, la “questione era troppo importante per essere lasciata al giudizio degli elettori cileni”. Allo stesso tempo giudicava impensabile che la sua amministrazione restasse a guardare “un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità del suo popolo”. Rimanere indifferenti agli eventi politici in corso a Santiago sarebbe stato interpretato nel resto dell’America Latina come un segnale di debolezza che avrebbe potuto scatenare una reazione a catena insostenibile per gli interessi americani. Gli sforzi di Kissinger culminarono così nel golpe contro Allende e proseguirono nei mesi e negli anni successivi quando venne il momento di reprimere il dissenso contro il nuovo regime sia in patria che all’estero.

Ai documenti già resi noti da qualche anno, nei quali veniva rivelato come Pinochet avesse manifestato a Kissinger le sue preoccupazioni per le attività di Letelier negli Stati Uniti, ottenendo tutta la “comprensione” del governo americano, le carte desecretate pochi giorni fa mettono in luce piuttosto il ruolo dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon nell’avallare l’Operazione Condor. Il 3 agosto 1976, alcuni funzionari del Dipartimento di Stato indirizzarono a Kissinger una nota nella quale veniva criticato il programma di assassini predisposto dai governi sudamericani con il beneplacito di Washington. L’appoggio americano a queste operazioni rappresentava, infatti, un grave motivo di imbarazzo di fronte alla comunità internazionale.

Il 30 agosto, la sezione del Dipartimento di Stato che si occupava dell’American Latina redasse così un documento ufficiale da inoltrare a sei governi, con particolare enfasi per Uruguay, Argentina e Cile. Nel documento li si ammoniva circa la prosecuzione della campagna di omicidi diretta contro gli oppositori dei loro regimi all’estero, in quanto avrebbe creato “seri problemi di ordine morale e politico”. Mentre è risaputo da tempo che tale comunicazione non venne mai recapitata ai destinatari, le nuove carte pubblicate indicano proprio in Henry Kissinger il responsabile della soppressione del documento.

E’ ormai acclarato, infatti, che il 16 settembre 1976, cinque giorni prima dell’omicidio di Letelier, da Lusaka, in Zambia, dove si trovava in quel momento, Kissinger recapitò un messaggio al suo assistente per gli affari inter-americani, Harry Shlaudeman. Riferendosi appunto alla nota del dipartimento di Stato del 30 agosto precedente, circa l’Operazione Condor, il Segretario di Stato negò la sua approvazione all’invio di essa a Montevideo, la capitale dell’Uruguay, lasciando di fatto via libera al proseguimento di assassini e repressioni nell’intero continente.

Quattro giorni più tardi, lo stesso Shlaudeman, dal Costa Rica, confermò la decisione in un telegramma al suo vice a Washington, William Luers, informandolo di “dare istruzioni agli ambasciatori americani in America Latina di non intraprendere nessuna ulteriore azione, dal momento che non sussistono indicazioni che nelle prossime settimane verrà riattivato il piano Condor”. Precisamente il giorno successivo, in una strada trafficata della capitale americana, Orlando Letelier e Ronni Moffitt persero la vita.

L’omicidio di Letelier a Washington aveva seguito una già lunga striscia di attacchi terroristici a scopo repressivo messi in atto dai regimi di destra che presero il potere in Sudamerica tra il 1964 e il 1976 con l’appoggio degli Stati Uniti. Con l’Operazione Condor, le dittature militari di questi paesi adottarono un programma di sterminio indirizzato sia verso la resistenza alla dittatura nei singoli paesi sudamericani, sia verso quegli oppositori che avevano trovato rifugio all’estero e da dove proseguivano nel loro attivismo politico.

Prima di Letelier, altre due personalità di spicco della politica cilena in esilio erano state bersaglio dell’Operazione Condor. Nel settembre 1974 a Buenos Aires a saltare in aria fu il generale Carlos Prats, ex ministro della Difesa di Allende, mentre l’anno successivo l’ex vice-presidente cileno Bernardo Leighton scampò ad un attentato a Roma. Secondo stime parziali, complessivamente l’Operazione Condor fece tra i cinquanta e i sessantamila morti.

Nonostante le rivelazioni delle responsabilità dirette del governo americano, alla pratica dell’assassinio al di fuori del diritto internazionale di oppositori veri o presunti, gli USA continuano ampiamente a farvi ricorso anche dopo oltre tre decenni. Alla categoria dei “sovversivi” di sinistra si è sostituita ora quella dei “nemici combattenti”, bersagli indiscriminati della guerra totale al terrorismo lanciata da George W. Bush e fatta propria senza scrupoli - e senza significativi risultati, almeno per ora - dall’amministrazione Obama.

di Alessandro Iacuelli

La Corea del Nord ha chiesto il riconoscimento ufficiale di "potenza nucleare", dopo anni di trattative e tira e molla, soprattutto con gli Stati Uniti ed il Giappone, da sempre contrari allo sviluppo atomico del regime corano. Il governo di Pyongyang ha dichiarato, attraverso l'agenzia di stampa di Stato, che costruirà tutti gli armamenti atomici che ritiene necessari. Il ministero degli Esteri ha anche detto, attraverso un memorandum reso pubblico, che il Paese si unirà agli sforzi internazionali sulla non proliferazione "solo se sarà trattato alla pari dalle altre potenze nucleari", ribadendo inoltre la richiesta di un trattato di pace permanente con gli Stati Uniti che rimpiazzi l'armistizio che mise fine alla guerra di Corea del 1950-1953.

Da Washington è stata subito respinta l'idea di un trattato di pace, se Pyongyang rifiuta di mettere fine al suo programma nucleare. In pratica, secondo l'agenzia Kcna, voce del governo di Pyongyang, "la Corea del Nord produrrà tanto nucleare quando riterrà necessario, ma non parteciperà alla corsa agli armamenti nucleari né ne produrrà più di quelli che sente necessari".

Certo, suona decisamente contraddittorio il voler produrre armamenti nucleari e contemporaneamente non voler partecipare alla corsa agli armamenti. Così come, sul piano internazionale, ma anche su quello del buon senso, ci si chiede cosa potrebbe significare quel "non ne produrrà più di quelli che sente necessari". Necessari per cosa? La Corea del Nord, oltre ad una mancata piena ripresa dei rapporti diplomatici con la vicina Corea del Sud, non è minacciata militarmente da nessuno ed è sotto l'ala protettiva del potente vicino cinese. Lo si è visto in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU, dove da anni la Cina pone il veto ogni volta che si parla di sanzioni verso il regime coreano.

Di sicuro non vanno d'accordo con USA e Giappone, ma allora perché produrre armamenti nucleari? La cosa preoccupa fortemente il vicino Paese del Sol Levante, soprattutto dopo i recenti test missilistici coreani, che hanno dimostrato come i vettori di Pyongyang hanno gittata sufficiente per colpire proprio il Giappone.

Secondo alcuni esperti americani, il Paese asiatico dispone di circa 50 kg di plutonio, quantità sufficiente a realizzare da sei a otto armi nucleari. Pyongyang, che secondo alcune indiscrezioni di stampa starebbe preparando un terzo test nucleare a maggio o a giugno, ha boicottato i colloqui per il disarmo nucleare con cinque potenze regionali (tra cui gli Stati Uniti) per oltre un anno, ponendo condizioni sul suo ritorno al tavolo tra cui la fine delle sanzioni ONU imposte dopo i suoi test nucleari dello scorso maggio. Naturalmente questo terzo test complicherebbe una vicenda diplomatica già tesa, e contribuirebbe ad un ulteriore isolamento del Paese sul piano internazionale.

La chiave di lettura, probabilmente, è proprio in questo: nell'isolamento. La richiesta di essere riconosciuta come potenza nucleare, il voler essere trattati alla pari delle altre potenze nucleari, è forse il segnale chiaro che l'isolamento e le sanzioni ONU iniziano a pesare sulla testa del regime. Il Paese vuole "contare di più" sul piano internazionale. Ma non è un Paese con risorse e commerci tali da guadagnarsi l’attenzione, né trattasi di un Paese democratico sotto il profilo dei diritti umani. Non lo sono nemmeno Cina e Russia, certo. Ma con una seria differenza: la Russia può contare grazie alle sue risorse sul piano energetico, la Cina invece ha dalla sua il sistema industriale in crescita spaventosa e l'invasione commerciale dei mercati di tutto il mondo. Alla Corea del Nord cosa resta? Una manciata di bombe atomiche le torna quindi utile.

Questa presa di posizione internazionale della Corea infatti arriva proprio all'indomani del Vertice sulla Sicurezza Nucleare che ha riunito i rappresentanti di 47 paesi a Washington il 12 e 13 aprile, dove è stato affrontato il tema della potenziale minaccia rappresentata dal "terrorismo nucleare". Dal canto suo, il presidente Obama, che ha fatto della sicurezza nucleare uno dei suoi cavalli di battaglia, ha affermato che non useranno, né minacceranno di usare, armi nucleari contro i paesi che aderiscono al Trattato di Non Proliferazione. Trattato mai firmato dalla Corea del Nord che, assieme all'Iran, è stata esplicitamente esclusa dagli Stati Uniti dal recente vertice. Con la differenza che a tutt'oggi non vi sono prove che dimostrino che Teheran stia perseguendo un programma nucleare di tipo militare, mentre Pyongyang è ufficialmente in possesso di armi nucleari.

Convocando un vertice sulla sicurezza nucleare senza invitare la Corea del Nord e l'Iran, cioé un Paese in possesso di armi atomiche e un Paese firmatario del Trattato di non proliferazione che sta sviluppando un proprio programma nucleare, si sceglie di non dialogare con due Stati con i quali sarebbe essenziale discutere i temi della sicurezza nucleare mondiale. Obama, secondo soprattutto gli analisti arabi, ha dato un pessimo esempio di una politica di "doppio standard" nei confronti degli altri Paesi, un esempio di politica dei "due pesi e due misure".

di Giuseppe Zaccagni

L'Iran annuncia che "nei prossimi giorni" discuterà con i Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (invece che con gli Stati del gruppo 5+1) la proposta di scambiare il proprio uranio scarsamente arricchito con uranio al 20%. Intanto la Francia respinge preventivamente ogni nuova proposta di Teheran. Risponde il ministro degli Esteri di Teheran, Manucher Mottaki: "Nei prossimi giorni condurremo discussioni dirette con i 14 membri del Consiglio di sicurezza e indirette con il quindicesimo membro, gli Stati Uniti, sullo scambio di combustibile". L'Iran, quindi, sul suo nucleare tratta, ma non molla. E rilancia all'Occidente una proposta tesa alla costituzione di un organo internazionale indipendente e la relativa sospensione dall'Aiea di chi minaccia di usare l'atomica.

E' questa la sintesi del vertice di Teheran che ha visto riuniti nei giorni scorsi  i ministri degli Esteri di otto paesi - tra in quali Iraq, Siria e Libano - e i viceministri di altri 14, tra i quali la Russia, oltre a esperti nucleari di una sessantina di nazioni. Anche la Cina, tra l'altro, era presente al vertice pur se con un rappresentante di secondo piano.

Nel corso dell'incontro si è parlato molto del Trattato di non proliferazione (Tnp), del disarmo delle potenze nucleari e del pericolo rappresentato dall'arsenale atomico israeliano. E in tal senso i partecipanti alla conferenza hanno messo in guardia contro qualsiasi attacco contro i siti nucleari iraniani, lanciando un appello ad Israele affinchè aderisca al Tnp.

E' chiaro, comunque, che l'iniziativa è stata anche una risposta al vertice sulla sicurezza nucleare andato in scena a Washington il 12 e 13 aprile scorsi e che è stato utilizzato dal presidente Obama per fare pressioni sui leader mondiali al fine di affrettare l'approvazione di nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica di Ahmadinejad. Ma alle iniziative del leader della Casa Bianca ha subito risposto la Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei, che con un messaggio ufficiale ha ribadito che "il solo criminale nucleare del mondo e cioè gli Usa afferma falsamente di essere impegnato a combattere la proliferazione di armi nucleari, ma non ha intrapreso nè intraprenderà mai alcuna serie azione in questo senso". Tesi e temi scottanti che spingono verso i fronti della nuova guerra fredda.

Dal canto suo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha proposto, oltre a una "revisione equa" del Tnp, la creazione di "un organo internazionale indipendente sotto l'egida dell'Onu" che disponga di "pieni poteri per pianificare e supervisionare il disarmo e la non proliferazione nucleare". Inoltre, ha chiesto che "tutti gli Stati che sono dotati dell'arma nucleare, che l'hanno utilizzata o che hanno minacciato di utilizzarla" siano "sospesi dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea)". Un chiaro riferimento alla nuova dottrina in materia di nucleare approvata recentemente da Obama, che non esclude l'uso da parte degli Usa di armi atomiche contro l'Iran (e la Corea del Nord).

Nel vertice di Teheran - e sempre nel quadro di un pericoloso precipitare degli eventi - si è insistito soprattutto sulla piena attuazione del Trattato di non proliferazione che, ha spiegato il ministro degli Esteri iraniano, Manucher Mottaki, "fu costituito  sulla base di tre principi fondamentali: il disarmo nucleare, la non-proliferazione delle armi nucleari e l'uso pacifico dell'energia nucleare". Tuttavia - ha sottolineato  Mottaki - alcuni stati   nucleari "non hanno onorato" gli impegni in  materia di non  proliferazione, poichè  "hanno fornito assistenza a  Stati non del Tnp in particolare Israele a acquisire armi nucleari o sviluppare ulteriormente tali ordigni disumani".

Dello stesso avviso anche Kazem Jalali, portavoce della Commissione parlamentare per la Sicurezza Nazionale e Politica Estera, secondo cui alla prossima Conferenza di revisione del Tnp, in programma a maggio a New York, saranno presenti due fronti: "Il primo, guidato dagli Stati Uniti, mira a limitare il numero dei Paesi che intendono accedere alla tecnologia nucleare per usi pacifici, mentre il secondo fronte è costituito da Paesi non nucleari, che chiedono il disarmo in tutto il mondo".

Si è, di nuovo, al punto di partenza in un crescendo di tensioni. Perchè alla minaccia di nuove sanzioni Teheran risponde dando il via libera a dieci nuovi "siti" dove verranno realizzati impianti per l'arricchimento dell'uranio. E si sa che, attualmente, la Repubblica Islamica arricchisce il suo uranio presso l'impianto di Natanz senza rispettare gli "avvertimenti" del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. E allora: nubi nere sul futuro? Forse c'è anche qualche timida schiarita. Perchè il ministro degli Esteri iraniano Mottaki ha dichiarato di voler discutere con tutti i membri del Consiglio eccetto che con gli Usa. Da Washington per ora, non ci sono risposte. I tempi si allungano e la tensione resta alta. 

di Emanuela Pessina

BERLINO. Poco prima di Pasqua, il ministero dell'Economia tedesco ha pubblicato il rapporto annuale 2008 sulle esportazioni di materiale bellico della Germania. Una comunicazione poco vistosa, diffusa quasi in sordina proprio mentre il Bundestag, il Parlamento tedesco, era in ferie e, soprattutto, fatta in grande ritardo. Il comunicato descrive in maniera particolareggiata le autorizzazioni e le licenze concesse dal Governo Merkel per l'export delle armi da guerra e degli armamenti nell'ormai lontano 2008: nonostante il ritardo, non ha mancato di destare l'attenzione dell'ala più critica dell'opinione pubblica tedesca. La relazione ufficiale è stata diffusa in questi giorni dal BITS, il Centro Informazioni per la Sicurezza Transatlantica di Berlino. A Otfried Nassauer, direttore del Centro, il compito di commentarne il contenuto nell'edizione odierna del quotidiano berlinese Tagesspiegel.

Nel 2008 il Governo tedesco ha autorizzato l'esportazione di materiale bellico per un totale di 5,8 miliardi di Euro, superando il valore dell'anno precedente di oltre 2 miliardi di Euro. I dati parlano chiaro: per quel che riguarda l'export di armamenti, tra cui radar e satelliti, camion, trasporto truppe e logistica a terra, la Germania ha aumentato il suo volume d'affari virtuale del 57,6 per cento nel giro di un anno. Secondo quanto riporta il quotidiano berlinese Tagesspiegel, si tratterebbe della cifra più alta raggiunta negli ultimi 13 anni. Forse, aggiunge Nassauer, addirittura dell'intera storia della Repubblica federale.

I dati contenuti nel comunicato ufficiale permettono anche un'analisi più approfondita del fenomeno.  Le autorizzazioni per l'esportazione di materiale bellico sono aumentate soprattutto per quel che riguarda le armi da guerra leggere nel senso più banale e crudele del termine, quell armi che possono essere trasportate facilmente da una persona singola o da un gruppo di persone, come mitra, lanciagranate, munizioni o mine antiuomo.

Dai 464 milioni di Euro previsti nel 2007, la Germania è passata ad autorizzare un'esportazione di 2,62 miliardi nel 2008. Altro particolare interessante, dal comunicato emerge che il 95 percento delle autorizzazioni sono state concesse a stati "terzi", non appartenenti né alla Nato né alla Comunità Europea.

Ciò che non viene affrontato in maniera chiara, invece, è il volume effettivo degli affari conclusi dallo Stato tedesco nell'ambito dell'export dell'equipaggiamento bellico in generale. E cioè quante sono le transazioni concretamente portate a termine indipendentemente dal valore delle autorizzazioni concesse dal Governo. Da questo punto di vista, secondo Nassauer, le informazioni vengono fatte passare con il contagocce e arrivano, spesso, troppo tardi. Come a voler evitare un confronto diretto con l'opinione pubblica.

Nel rapporto 2008, l'unico dato reso noto a questo riguardo è il valore delle armi da guerra, quelle finalizzate all'uccisione, effettivamente vendute dalla Germania. Secondo quanto riporta Nassauer, nel 2008 l'esportazione concreta di queste ultime - indipendentemente dalle licenze concesse - è diminuita leggermente, da 1,5 a 1,4 miliardi di Euro. Ma Nassauer non si lascia illudere: "Molte delle autorizzazioni alla vendita rlasciate dal Governo tedesco nel 2008 sono state probabilmente utilizzate per operazioni vere e proprie conclusesi soltanto nel 2009", sottolinea il direttore del BITS. Con ogni probabilità, stando ai ritmi attuali, per conoscere i dati relativi all'anno 2009 si dovrà aspettare il 2011.

Tra le esportazioni autorizzate nel 2008, tra l'altro, vengono segnalate anche alcune vendite "problematiche". Come le licenze per gli export verso l'Arabia Saudita, con cui sono state concesse autorizzazioni per un valore complessivo di 55 milioni di Euro, per la maggior parte investiti nell'acquisto di fucili d'assalto Heckler & Koch G36. Il Pakistan, invece, ha ottenuto permessi per una somma complessiva di 93 milioni di Euro, mentre alla Thailandia è stato venduto un simulatore di sommergibile: a quanto sembra, quest'ultima starebbe pianificando la costruzione di una flotta di sommergibili.

E sono proprio i sommergibili e i carri armati a essere tra i beni prodotti dall'industria bellica tedesca che riscuotono maggiore successo all'estero. A marzo, il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) ha pubblicato la classifica dei Paesi considerati i maggiori esposrtatori di materiale bellico del 2009: dopo gli Stati Uniti e la Russia, la Germania si ritrova al terzo posto. Un podio di scarso onore. 
 
 
 


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