di Michele Paris

Le elezioni presidenziali americane sono regolate dal secondo articolo della Costituzione e si fondano sul concetto di “Collegio Elettorale”. Esso consiste in una delegazione di 538 rappresentanti eletti direttamente dai cittadini in ognuno dei 50 stati degli USA e nel District of Columbia, i quali a loro volta, pur essendo teoricamente liberi di votare per un qualsiasi candidato alla presidenza del paese, si esprimono in accordo alla decisione presa dagli elettori. Il candidato che riceve la maggioranza dei voti elettorali (270) viene così eletto presidente degli Stati Uniti. Ogni singolo stato assegna un certo numero di voti elettorali in relazione al numero di propri parlamentari presenti al Congresso, attribuzione a sua volta determinata in base al numero di abitanti. In seguito alla ratifica del 23esimo emendamento nel 1961, anche al District of Columbia – il distretto federale che ospita la capitale Washington – sono stati garantiti 3 voti elettorali, pari al numero di quelli assegnati dagli stati meno popolosi.

di Alessandro Iacuelli

Tra i paesi non aderenti al Protocollo di Kyoto figurano gli USA, cioè quel Paese che da solo è responsabile del 36,2% del totale delle emissioni. Eppure, l'11 dicembre 1997, alla fine della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenuta nella città giapponese, il presidente Bill Clinton aveva firmato il Protocollo ed aveva poi confermato l'adesione durante gli ultimi mesi del suo mandato. George W. Bush, poco tempo dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, come uno dei primi atti della sua amministrazione, ritirò l'adesione inizialmente sottoscritta. Erano gli anni di una delle più famose frasi negativamente celebri di Bush: "Lo stile di vita non è negoziabile". La scusa addotta dall'Amministrazione Bush fu il ritenere non provata la relazione tra emissioni di CO2 e riscaldamento globale; in seguito da Washington hanno aggiustato il tiro, dichiarando come motivazione la perdita di competitività dovuta ai costi necessari per ridurre le emissioni di anidride carbonica rispetto a Cina ed India, che invece non sono obbligate dal protocollo a limitare le proprie emissioni in quanto Paesi Emergenti.

di Bianca Cerri

Nessuno ha il diritto di rallegrarsi per l’arresto di una persona ma se mai è esistito un uomo che meritava di conoscere quello che la detenzione riesce a fare alla mente e all’anima di un essere umano questi è Jon Burge, ex-capo della polizia di Chicago per oltre un ventennio, arrestato in Florida il 21 ottobre scorso. Per il momento Burge, che aveva accolto l’arrivo degli agenti con la consueta arroganza, è riuscito ad ottenere i domiciliari contro una cauzione di 250.000 dollari ma le autorità gli hanno ritirato il passaporto. L’11 maggio del 2009 verrà processato per aver autorizzato l’uso della tortura durante gli interrogatori e ostruito il corso della giustizia dichiarando il falso sotto giuramento davanti al gran giurì. Rischia dai nove ai quaranta anni di carcere.

di Saverio Monno

Ogni quattro anni la corsa alla presidenza degli Stati Uniti ripropone, pedante, un copione che, dai tempi della dichiarazione d’Indipendenza ad oggi, non ha subito sostanziali modifiche. “Una sceneggiatura in quattro atti e due protagonisti”, questo l’elemento distintivo di un sistema elettorale reso complesso, non tanto dalla forma federale dello Stato, quanto da una visione segnatamente aristocratica della democrazia, com’era nello spirito dei padri costituenti alla fine del ‘700. L’elezione del presidente costituisce il momento più importante nella vita politica statunitense: l’Inquilino della Casa Bianca infatti, ricopre sia la funzione di Capo dello Stato, sia quella di Presidente del Consiglio dei Ministri e rappresenta, dunque, l’espressione più compiuta del potere esecutivo. Ma a dispetto delle rilevanti prerogative ad esso riservate, la procedura che conduce alla nomina della carica più prestigiosa dell’ordinamento statale, è soggetta ad un sistema elettorale indiretto, che non garantisce l’effettivo esercizio del diritto di voto.

di Eugenio Roscini Vitali

Sono decine di migliaia le persone che fuggono dal Nord Kivu, la turbolenta provincia orientale della Repubblica Democratica del Congo dove da alcuni mesi si è scatenato un sanguinoso confronto armato tra i guerriglieri del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp), guidati dal deposto generale filo-ruandese Laurent Nkunda, e le forze armate congolesi (Fardc) del presidente Joseph Kabila. La gravità della situazione è tale che a poco più di un mese dalla sua nomina a comandante del contingente di pace Onu nella Repubblica Democratica del Congo (Monuc), il Generale spagnolo Vicente Diaz de Villegas ha rassegnato le sue dimissioni. Pur adducendo "motivi personali" alla sua scelta, subito dopo essere stato sostituito dal generale Ishmeel Ben Quartey, Diaz de Villegas avrebbe ufficiosamente dichiarato che dietro la sua decisione c’è la ferma convinzione che la comunità internazionale non ha i mezzi per impedire che i combattimenti si propaghino in tutta la regione, sia perché la Monuc non ha una chiara visione del quadro generale in cui è costretto ad operare sia perché il paese è in mano ad una leadership politicamente debole. Dietro le fila dei ribelli sembra infatti che ci sia la mano del Rwanda, paese amico degli Stati Uniti che da anni offrirebbe appoggio e ospitalità agli uomini di Nkunda.


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