di Michele Paris

È atteso alla vigilia della prossima estate il primo pronunciamento della Corte Suprema statunitense da quasi 70 anni a questa parte sulla delicatissima questione del possesso per uso privato di armi da fuoco. A portare l’argomento all’attenzione dei 9 membri del tribunale costituzionale a stelle e strisce, e con ogni probabilità ad innestarlo nella prossima campagna elettorale per le presidenziali, è stata una sentenza della Corte d’Appello del District of Columbia che ha ritenuto una norma sul controllo delle armi in vigore da 31 anni contraria allo spirito del “Secondo Emendamento”, il quale stabilisce che “non deve essere violato il diritto dei cittadini di possedere e portare armi”, nell’ambito però di “una Milizia regolamentata, necessaria alla sicurezza di uno Stato libero”. In seguito all’appello di sei residenti di Washington, tra cui l’agente di sicurezza Dick Anthony Heller che intendeva portare nella propria casa a scopo autodifensivo l’arma che quotidianamente utilizza durante l’orario di lavoro, il tribunale preposto al secondo grado di giudizio ha visto nel famoso “Secondo Emendamento”, già oggetto di controversie in passato, un riferimento ad un diritto individuale, interpretazione che renderebbe automaticamente incostituzionale l’ordinanza del 1976 che nella capitale americana regolamenta il possesso di armi. Tale legge infatti, peraltro simile a molte altre che hanno lo stesso obiettivo in numerose metropoli USA, consente ai semplici cittadini il possesso di fucili a patto che essi siano disassemblati o tenuti sotto chiave nelle loro abitazioni. Le pistole invece sono del tutto illegali, tranne che per gli ufficiali di polizia.

di Fabrizio Casari

Non bastava la lite con Chavez. Il presidente colombiano, Alvaro Uribe, ha ritenuto di dover incrociare le spade anche con il suo omologo nicaraguese, Daniel Ortega. L’oggetto delle polemiche di Uribe è sempre lo stesso: il rapporto tra la sinistra latinoamericana e i guerriglieri delle Farc colombiane. Al presidente nicaraguense, che si era rivolto al Comandante delle Farc, Manuel Marulanda, definendolo “caro fratello”, Uribe ha fatto recapitare dal Ministro degli esteri colombiano, Fernando Araujo, al Cancelliere nicaraguense, Samuel Santos, una nota di protesta nella quale invita il presidente nicaraguense “a non intervenire negli affari interni della Colombia”. Ortega non ci ha pensato due volte ed ha risposto, dicendosi “deluso” per la fine della mediazione del presidente venezuelano Hugo Chavez nella trattativa per la liberazione della Betancourt e accusando Uribe di “condannare a morte” gli ostaggi in mano delle Farc. Ortega, nel reagire alle proteste colombiane, ha affermato: “Voglio far sapere che quando ci sono in gioco vite umane, non ci sono frontiere, non ci sono differenze”. “Uribe, ha aggiunto Ortega, pone come condizione la smobilitazione delle Farc. Cosa significa? Che sta condannando a morte Ingrid Betancourt e gli altri ostaggi”. “Chiedo al governo colombiano - ha detto Ortega - che capisca che non c’è nessuna ingerenza da parte nostra, semplicemente ci uniamo alle richieste della famiglia di Ingrid e di tutto il popolo colombiano”. Il leader sandinista si è dunque rivolto al querido hermano Marulanda, affinché liberi la Betancourt.

di Carlo Benedetti

Il Kosovo è una bomba ad orologeria, con una sicurezza inesistente e un’economia disastrosa che rappresentano una frattura nel sistema delle relazioni internazionali. Con un territorio (10.887 chilometri quadrati) attraversato da secolari e mai sopite tensioni interetniche. Ed ora si è ad un nuovo giro di boa che pone sul terreno di uno scontro epocale le due grandi comunità: due milioni di abitanti divisi tra la forza egemone albanese-kosovara (appoggiata dalle forze atlantiche) e quella serba che basa nell’ortodossia e nello spirito nazionale il suo passato e il suo futuro. Guerra interetnica, quindi, dai veri e propri tratti antichi e che, forse, va anche considerata come l’ultimo prodotto collaterale della Grande Guerra. Con un’accentuazione del tentativo di ideologizzare le religioni delle due etnie e di usarle per scopi geopolitica. Oggi si è nuovamente al momento delle decisioni. Che sono prese - questo è il dramma - fuori del Paese. A Washington, in particolare, e a Bruxelles. E, poi, solo poi, nella sede dell’Onu.

di Eugenio Roscini Vitali

I 35 chilogrammi di tritolo utilizzati il 12 dicembre scorso nell’attentato di Beirut sono senza dubbio lo specchio dell’attuale situazione libanese: un Paese in preda alla paura, alle cospirazione, al sospetto e alla violenza che ha però dato vita ad una reazione politica unanime a dimostrazione che qualche cosa sta cambiando. L’auto bomba esplosa alle 7.05 del mattino nel quartiere di Baabda, alla periferia est della capitale, ha ucciso il generale Francois Hajj, il suo autista e la guardia del corpo che lo accompagnava. Un attacco che ha un significato particolare perché ha colpito una delle massime cariche delle Forze Armate Libanesi; quell’esercito che l’ex presidente Emile Lahoud ha eletto a garanzia dell’integrità istituzionale e costituzionale del Paese, almeno fino a quando non sarà eletto un nuovo Capo dello Stato. Questa è la prima volta che i vertici militari vengono colpiti da un attacco dinamitardo di tale portata e Hajj rappresenta sicuramente uno degli obbiettivi ideali per dimostrare che il terrorismo non è ancora sconfitto. Ma chi sono i mandanti di questo del vile attentato? I sospetti sono subito ricaduti sulla Siria e sui gruppi palestinesi più estremisti che risiedono nei campi profughi libanesi e che il generale aveva sconfitto l’estate scorsa nella battaglia di Nahr el-Bared. Quello su Damasco rimane però solo un dubbio, un’ipotesi dovuta alle accuse di complicità negli attentati che da anni sconvolgono il Paese e all’appoggio militare offerto al braccio armato di Hezbollah.

di Carlo Benedetti

Studi di diritto, corsi di teoria dello Stato, convivenza e sopravvivenza dei gruppi sociali, ordine e pace sociale, filosofia politica e giuridica, Stato moderno e spirito della società da Hobbes passando per Locke, Rosseau, Kant, Hegel, Marx, Weber e poi Kelsen… Sono, questi, in rapida sintesi, i corsi che dal 1987 al 1990 Dmitrij Anatol'evic Medvedev frequenta nell'imponente sede dell'Università leningradese intitolata a "Zdanov". Ed è in questo tempio del diritto - allora "sovietico" - che si laurea in "Diritto privato". In quel tempo aveva 25 anni. Ed ora - a 42 anni - è il favorito per il seggio presidenziale della Russia che Putin gli ha già approntato. Naturale, quindi, che sulla sua figura e sulla sua carriera comincino a circolare sempre più notizie, dettagli, analisi e comparazioni. Una cosa, intanto, è certa ed è che questo Medvedev (in russo il suo cognome vuol dire "Orso" pur se la definizione attuale è di "Delfino") non è un personaggio della Russia sovietica. Proviene da quella esperienza solo per un fatto anagrafico. Non ha alle spalle una carriera segnata dall'ideologia del Potere dei Soviet. Per lui l'Urss è solo un ricordo della giovinezza. Perché tutte le sue vicende legate all'attività lavorativa e all'impegno in enti e amministrazioni hanno seguito strade diverse da quelle che erano tipiche della vecchia società.


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