di Giuseppe Zaccagni

Un tempo - erano gli anni della guerra fredda - si annunciava il possibile arrivo a Roma degli odiati cosacchi sovietici pronti ad abbeverarsi all’acqua delle fontane di piazza San Pietro. Ora invece - sotto la minaccia di una reale crisi idrica - dovrebbe essere il mondo occidentale a bere l’acqua della Russia. Le previsioni, infatti, sono per noi pessime. Si dice che siamo agli sgoccioli, mentre Mosca fa sapere, con orgoglio, che le sue risorse idriche sono eccezionali perchè l’immenso territorio che va dal Baltico al Pacifico rappresenta uno dei polmoni verdi della terra, con una vastissima estensione di foreste boreali e altrettanti giganteschi bacini di fiumi di portata continentale. E mentre gli esperti di Putin annunciano che il Cremlino potrà, senza difficoltà alcuna, inserirsi nella prevedibile “corsa all’acqua” dei prossimi 15-30 anni, si comprende subito che oltre ai tubi del gas siberiano ci dovremo attaccare anche a quelli che portano acqua che arriva dal freddo. C’è, infatti, un allarme generale che viene lanciato a livello dell’Onu e che riguarda la situazione delle risorse idriche mondiali. Le previsioni, secondo gli esperti, annunciano che nei prossimi venti anni saranno due miliardi le persone che vivono nelle regioni più aride della Terra a rimanere prive di acqua, mentre due terzi dell’intera popolazione del pianeta non avrà acqua a sufficienza.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Come in un copione scritto da Stephen King: a volte ritornano. E questa volta tocca a Lev Davidovic Trotskij che, assassinato il 20 agosto del 1940 e bollato dalla storia del comunismo sovietico come "nemico acerrimo del leninismo”, si presenta, puntuale, all’appuntamento del XII congresso dei comunisti di Zjuganov. Tutto avviene mentre un documento “riservato” (saverscenno sekretno) circola nelle organizzazioni periferiche del Partito Comunista della Russia. Viene dal vertice dell’ortodossia - la Commissione centrale di Controllo - e mette in guardia gli iscritti da un serio “pericolo” che minaccia l’unità del partito. Perchè - è detto nella circolare - ci sono elementi che diffondono teorie e tattiche neotrotkiste. E vengono fuori i nomi. In primo luogo quello di Pavel Basaniez, un attivo e combattivo dirigente dei comunisti che operano nei quartieri occidentali della capitale. Personaggio sempre presente in tutte le manifestazioni di massa e noto per aver più volte attaccato la politica del Cremlino e di Putin in particolare. Scomodo, quindi, perchè incontrollabile. Esponente di uno zoccolo duro ma anche forte dell’appoggio dell’ex vice direttore della Prava, Anatoly Baranov, che oggi è la voce su Internet dell’intero partito. Ed è appunto in questa funzione che s’impegna a diffondere i discorsi del “neotrotskista” Basaniez.

di Agnese Licata

Vent’anni fa, quando migliaia di manifestanti pagarono con la propria vita la contrarietà al nuovo governo militare, molto era diverso. A guidare la Birmania era sempre il capo dell’esercito (Saw Maung allora, Than Shwe oggi), come uguali erano le motivazioni economiche che fecero esplodere le proteste contro un regime tra i più illiberali del pianeta. Uguale è anche uno dei centri più attivi: la pagoda di Sule, da cui nel 1988 partì la rivolta degli studenti. Ma a fare la differenza tra quella strage - priva di forti conseguenze per chi la portò avanti - e questa, che ieri ha fatto le sue prime sei vittime (oltre a centinaia di feriti), non c’è “soltanto” un diverso equilibrio tra nazioni, ma soprattutto una tecnologia che oggi consente a molti - non solo leader politici e servizi segreti - di conoscere e far conoscere quanto accade praticamente ovunque. “Tutto il mondo può seguire, grazie a Internet, quanto sta accadendo in Birmania. Il governo non può isolare il Paese dal resto del mondo”, ha detto Said Win, capo redattore di Mizzima News, un gruppo diretto da alcuni birmani in esilio in India. Una differenza che deve avere un suo peso se in questi ultimi nove giorni la marcia dei monaci è arrivata sulle prime pagine dei giornali, diventando una delle principali preoccupazioni dell’Onu.

di Bianca Cerri

Il rapporto dell’F.B.I. pubblicato il sette settembre scorso, non lascia adito a dubbi: Saint Louis, in Missouri, è la città più pericolosa d’America. I crimini violenti sono aumentati almeno del 20% rispetto allo scorso anno. Per quanto riguarda i reati commessi da minori, l’aumento supera il 10%. Ogni 100.000 abitanti, almeno 64 verranno assassinati. Un buon numero di reati di sangue avviene durante il mese di agosto. La categoria più a rischio sono i conducenti di taxi, seguiti dai commercianti. Un altro dato molto triste e significativo è l’alto numero di suicidi tra le persone che perdono il lavoro. Del resto, quando si tira troppo la corda della disparità sociale, uscirne indenni è praticamente impossibile. Molti non riescono a farcela pur lavorando dalla mattina alla sera ma i top managers continuano ad essere pagati fino a trecento volte la paga standard di un comune lavoratore. La crisi dell’industria ittica ha gettato nella miseria oltre mille lavoratori. La crisi risale ad oltre un decennio fa ma non era stato fatto nulla per impedire la chiusura degli allevamenti di pesce-gatto, uno degli alimenti base della cucina del Missouri. E se per coloro che hanno fatto grossi investimenti, come i proprietari del Casino Queen, i profitti sono stati immensi per la gente comune la vita è una battaglia quotidiana. Tra l’altro, il casino è circondato da guardie armate e i giocatori vengono accompagnati all’interno attraverso un tunnel in modo che non abbiano contatti con i locali.

di Eugenio Roscini Vitali

Il 9 settembre scorso, a Baghdad, il contrammiraglio statunitense Mark Fox ha annunciato che l'ideatore dell’attentato compiuto nel nord dell'Iraq il 14 agosto 2007, nel quale erano morte 400 persone, era rimasto ucciso la settimana precedente in un bombardamento sferrato da un aereo della coalizione. Le vittime di quel sanguinoso atto terroristico, compiuto con quattro camion-bomba esplosi simultaneamente nei villaggi di Al Khataniyah e di Al Adnaniyah, nella provincia di Niniveh, erano tutti curdi-iracheni appartenenti alla setta religiosa yazidi. Dall’inizio del conflitto (marzo 2003), la piccola comunità yazidi è stata colpita numerose volte dalla furia omicida del terrorismo islamico ma in seguito al devastante attacco del 14 agosto i membri del gruppo sono stati costretti a chiedere la protezione del governo. Una situazione di costante pericolo che il portavoce dell’Associazione yazidi per la pace, Hebert Yegorova, definisce inaccettabile, soprattutto se si pensa alle discriminazioni subite e alla condizione di isolamento nella quale sono costretti a vivere gli yazidi. Pochi mesi prima di quest’ultimo atto terroristico, il gruppo avevano subito un altro barbaro attacco. Nel mese di aprile, nei pressi di Mosul, un uomo armato si era impadronito di un autobus di lavoratori tessili diretti a Bashika; dopo aver fatto scendere tutti gli uomini di fede cristiana e musulmana, il terrorista aveva giustiziato i 23 individui rimasti a bordo del mezzo, tutti curdi-iracheni appartenenti alla setta yazidi.


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