di Sara Nicoli

Naturalmente alla Casa Bianca si sono subito rallegrati con Al Gore per il Nobel per la Pace ottenuto ex aequo con l'Ipcc (il Comitato Intergovernativo per i Mutamenti Climatici dell'Onu) che ha stilato il recente rapporto sui poco rassicuranti cambiamenti climatici del pianeta. Ma quello di Bush è sembrato un omaggio dovuto più che voluto. Non c'è dubbio, infatti, sul fatto che con la sua campagna contro il riscaldamento progressivo del pianeta, Gore abbia principalmente messo in evidenza quanto devastante sia stata la politica ambientale del suo ex avversario politico e quanto quest'ultimo sia da annoverare tra i principali colpevoli del disastro ormai sotto gli occhi di tutti. Non ha fatto sconti Al Gore nel suo documentario vincitore dell'Oscar “Una scomoda verità”, campione d'incassi anche negli States e dove, in termini semplici, tali da essere compresi persino dai più riottosi negazionisti, parla di un prossimo innalzamento di circa sei metri degli oceani che sommergerebbe aree popolate da 100milioni di persone (in Europa gli interi Paesi Bassi). E ancora dello scioglimento dei ghiacci della Groenlandia che replicherebbe il fenomeno di interruzione della corrente del Golfo verificatasi in occasione dell'ultima glaciazione che colpì l'Europa qualche secolo fa. Ma è il messaggio finale del film che costituisce la vera “vendetta” di Gore contro Bush: i rimedi per fermare il riscaldamento globale sono arcinoti, manca solo la volontà politica per farlo. E i primi a doversi muovere dovrebbero essere proprio i massimi inquinatori, come la Cina, l'India e, prima ancora, la Casa Bianca.

di Giuseppe Zaccagni


Nel 1921 a Shangai erano 13 i delegati comunisti che rappresentavano circa 50 iscritti. Ora, il 15 ottobre 2007, nella grande sala pechinese della Città Proibita, al XVII° congresso, saranno in 2120 a rappresentare circa 70 milioni di membri del Partito diretto dal sessantatreenne Hu Jintao. Appuntamento epocale, perché dovrebbe segnare una svolta, nel senso di una “purga” generale da sviluppare nel momento in cui l’intera società cinese si trova a fare i conti con la collusione (reale e documentata) tra potere e denaro per quei dipendenti statali iscritti al Pcc. E non è un caso se nella cartella che è consegnata ai delegati c’è un dossier - approntato dalla “Commissione per il controllo della disciplina” – che contiene la bozza di un "Regolamento per impedire severamente gli interessi illeciti ricavati dagli incarichi". Questo vuol dire che il livello di guardia si è notevolmente alzato e che le recenti affermazioni del segretario generale - “Operare con un pensiero chiaro, con una politica ferma e uno stile concreto” - saranno il tema centrale del congresso. Che sarà chiamato, tra l’altro, (come scrive il Renmin Ribao, il “Quotidiano del popolo”) a “rafforzare la coscienza delle difficoltà”, a “guardarsi dall'arroganza e dall'impulsività”, ad “intensificare lo studio e lavorare con diligenza per rafforzare la solidarietà”. Si tratta - è chiaro - di giri di parole che annunciano i cambiamenti che si intendono effettuare in vista della eliminazione (politica, s’intende) di quanti si sono messi di traverso nei confronti della linea generale.

di Fabrizio Casari

Che gli Stati Uniti siano i leader della democrazia è questione tutta da confutare, ma che lo siano nell’esportare armi non v’è dubbio. Gli USA, infatti, dopo qualche anno di parziale ridimensionamento, sono tornati ad essere il primo paese al mondo per esportazione di armi convenzionali. Lo dice il CRS, il Servizio d’investigazione del Congresso statunitense. Ufficialmente le vendono ai paesi “sviluppati”, in realtà questi ultimi rappresentano solo una parte delle commesse militari yankee. La presidenza Bush, che con le guerre ha una dimostrata familiarità, ha ridato slancio all’industria bellica, confermandone il peso specifico nell’economia e nella politica estera statunitense, già denunciata da Eisenhower, che parlava di “complesso militar-industriale”. Gli studi del CRS, che da venti anni sono considerati i migliori nel settore, sono coordinati da Richard Grimmet; i risultati dell’inchiesta vengono considerati altamente affidabili e si basano su informazioni pubbliche e confidenziali e comprendono vendita ed assistenza. Secondo il rapporto 2006, gli accordi di compravendita di armi hanno generato un volume di 40.300 milioni di dollari, circa il 13% in meno rispetto all’anno precedente.

di Eugenio Roscini Vitali

Il 28 settembre scorso, il presidente libanese Emile Lahoud ha chiesto alla comunità internazionale di adoperarsi affinché il confronto parlamentare, che entro novembre dovrebbe portare all’elezione del nuovo Capo dello Stato, non subisca ulteriori pressioni. Parlando dell’attuale situazione politico-istituzionale libanese, Lahoud ha rivolto la sua attenzione a quei membri del Consiglio di Sicurezza delle Onu, compresi gli Stati Uniti, che con il loro atteggiamento concorrono ad accrescere una situazione già difficile. Il presidente libanese ha precisando che questo tipo di interferenze potrebbe trascinare il Paese in una spirale di violenza che certamente determinerebbe il collasso istituzionale; un intervento negli affari interni che Lahoud ha definito “contrario a quanto stabilito dalle leggi internazionali” e che ha già provocato le reazioni degli shiiti e dei gruppi politici dell’opposizione. Le reazioni del mondo politico internazionale all’appello lanciato da Lahoud sono state subito contrastanti. Alcuni hanno letto l’intervento come un’iniziativa intesa a risolvere una situazione di stallo che sta andando avanti dallo scorso novembre, cioè da quando il governo anti-siriano del premier Fuad Siniora ha subito la defezione di sei ministri filo-siriani; per altri è stata l’ennesima dimostrazione che Lahoud è legato a Damasco a doppio filo e che sta lavorando per sostenere la candidatura di un uomo vicino alle posizioni di Hezbollah.

di Carlo Benedetti

La notizia è nota, ma è bene ripeterla per ampliarne i contorni, poiché la situazione russa - come sempre - è complessa e difficile da illustrare. Un tempo, in casi del genere, il rischio era quello di apparire o filo o antisovietici, russi o antirussi. Oggi il problema è più semplice poiché sono cadute le barriere ideologiche. Tutto a Mosca rientra nell’ambito di una corsa per il potere, in un ambiente collettivo dominato dalla dittatura delle banche e delle borse. Con la scelta di campo che non è solo un fatto economico. Ci sono due appuntamenti istituzionali: quello del 2 dicembre 2007 - elezioni per il rinnovo del Parlamento-Duma - e quello del 9 marzo 2008 - elezione del nuovo presidente del paese. Volendo seguire un ordine cronologico, c’è un presidente che si chiama Vladimir Putin. Classe 1952. Una infanzia a Leningrado, studi di diritto e di tedesco. Poi una passione per i servizi segreti. Nel 1975 entra nel Kgb e frequenta i corsi per divenire agente del controspionaggio. Ha tutti i requisiti richiesti. Capacità di apprendere al volo e di mantenere il silenzio anche quando gli chiedono il nome. E’ mandato a lavorare - in collaborazione con la Stasi di Misha Wolf- a Dresda, nella Rdt. Arriva al crollo dell’Urss e del Muro di Berlino e lui rientra in patria e lavora a Leningrado, nell’amministrazione comunale di Sobciak e fa una rapida carriera.


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