di Giuseppe Zaccagni

Il vertice del 29-30 marzo nella capitale siriana è il 20esimo per il mondo arabo ed ha come tema centrale l’analisi geopolitica dell’intera regione, con la questione israeliano-palestinese che domina a tutto campo (gli avvenimenti a Gaza e nei Territori, i seguiti di Annapolis e la questione libanese) proprio per il fatto che il presidente di Damasco, Assad, spera di rilanciare il suo ruolo nell’area e vedere così confermata la linea decisa di comune accordo con gli alleati arabi lo scorso anno a Riyadh. E precisamente una normalizzazione dei rapporti con Israele, ma solo a patto che lo stato ebraico si ritiri da tutti i territori arabi e palestinesi, incluse le alture del Golan, occupate durante la Guerra dei sei giorni del 1967. La situazione generale, intanto, si caratterizza per le molte incognite che si delineano in queste ore di vigilia. Tanto che gli oltre 900 giornalisti arabi, che sono pronti a seguire i lavori del summit, s’interrogano sul senso dell’incontro fornendo valutazioni ed analisi che evidenziano contrasti di ogni genere.

di Michele Paris

“Ricordo benissimo quel viaggio in Bosnia. Atterrammo sotto il fuoco dei cecchini. Avrebbe dovuto esserci una cerimonia di accoglienza all’aeroporto ma fummo costretti a correre sulla pista tenendo le nostre teste abbassate per raggiungere le auto della scorta che dovevano condurci presso una base militare nelle vicinanze”. Con queste parole la candidata alla nomination democratica, Hillary Rodham Clinton, aveva ricostruito la scorsa settimana le circostanze della sua visita a Tuzla nel marzo del 1996 in qualità di First Lady. Il resoconto di un atterraggio avvenuto in condizioni di estremo pericolo rientrava nella strategia messa in campo dalla Senatrice di New York volta ad accreditarsi l’esperienza necessaria per poter ambire alla Casa Bianca in situazioni di crisi internazionale. Dei rischi che Hillary avrebbe corso in quell’occasione non vi è però traccia nei documenti ufficiali; né, d’altra parte, quanti erano presenti in Bosnia quel giorno di 12 anni fa ricordano alcuna minaccia di fuoco nemico.

di Alessandro Iacuelli

La notizia, per chi ha memoria, è di quelle che potrebbero lasciare il segno: la corte d'appello federale degli Stati Uniti, a quanto ci risulta per la prima volta, fornisce un segno di speranza per Mumia Abu-Jamal, annullando la condanna a morte del giornalista radiofonico afroamericano il cui caso è da oltre venti anni una bandiera per il movimento internazionale contro la pena capitale. Sia chiaro: Abu-Jamal non ha affatto ottenuto una grazia. I tre giudici della Corte d'appello del Terzo circuito hanno ritenuto valido il suo verdetto di colpevolezza per l'uccisione di un poliziotto. Questo significa che lo stato della Pennsylvania, che ha la competenza territoriale del suo caso, può decidere di commutare la pena in ergastolo, oppure riaprire un procedimento entro 180 giorni per stabilire se Abu Jamal dovrà essere condannato a morte o al carcere a vita. In pratica, si apre la possibilità di celebrare un nuovo processo che potrebbe concludersi con una diversa sentenza.

di Carlo Benedetti

Non c’è solo la Cecenia a tenere in tensione il Cremlino del nuovo arrivato, Medvedev. Perchè ora - a colpi di kalashnikov e granate - irrompe, sulla scena geopolitica e militare della Russia, il Daghestan, una regione del Caucaso settentrionale (la storia la definisce "paese delle montagne") che confina con la Cecenia e dove la rivolta islamica ha già gettato basi notevoli: con diramazioni nei gangli di quel potere locale che si ritrova arroccato nella capitale Makachkala. Ed è proprio qui (in una terra che si chiamava Avaria prima di prendere il nome musulmano di Daghestan) che esplodono i maggiori conflitti interetnici alimentati da guerriglieri che reclamano il distacco dalla Russia proponendo l’indipendenza come soluzione definitiva. Si ripete, pertanto, lo scenario ceceno (accentuato dalle soluzioni previste per il Kosovo dagli Usa, dalla Nato e, in generale, dalle diplomazie occidentali) e non è un caso se nelle valli daghestane vanno a combattere anche uomini che hanno già sconvolto altre aree caucasiche.

di Bianca Cerri

Spiagge assolate e mari di cristallo? Roba d’altri tempi, oggi la meta più trendy è il Tibet, dove i turisti si recano alla ricerca di pace e spiritualità. Arrampicarsi fino alle cime più alte guidate da uno sherpa pare permetta all’animo di conoscere la beatitudine assoluta. D’altra parte, gli occidentali sono convinti che il Tibet sia una specie di paradiso perduto incontaminato, dove gli abitanti conducono un’esistenza spartana ma armoniosa e non c’è bisogno di leggi per far rispettare l’ordine pubblico, basta il karma. Merito del buddismo, che ha sempre condannato sia la violenza che il materialismo. Insomma, il Tibet sarebbe la Shangri-la dei tempi moderni. Peccato che la storia racconti una verità assai diversa. Fino al 1959 infatti, quando il Dalai Lama andò in esilio, le leggi e l’economia tibetana erano nelle mani dell’oligarchia religiosa e delle autorità militari, tutti gli altri dovevano mettersi al loro servizio.


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