Un nuovo attacco ucraino contro il ponte di Crimea nelle prime ore di lunedì è tornato a danneggiare l’opera che più di ogni altra simboleggia il controllo russo sulla penisola annessa da Mosca con l’appoggio della stragrande maggioranza dei suoi abitanti all’indomani del golpe neonazista del 2014. Secondo le autorità russe, a colpire sono stati due droni acquatici che, oltre a danneggiare una sezione della linea stradale, hanno causato la morte di due civili e il ferimento di una ragazzina. L’iniziativa conferma come il regime ucraino continui a prendere di mira deliberatamente edifici e infrastrutture civili ed è perciò un ulteriore segnale della disperazione che regna a Kiev e tra i governi occidentali, la cui assistenza è stata con ogni probabilità decisiva per portare a termine l’operazione di lunedì in Crimea.

Proteste di massa e pericolo concreto di destabilizzazione del paese sono tornati a caratterizzare la vita quotidiana dello stato ebraico in parallelo al rilancio, da parte dell’esecutivo di estrema destra del premier Netanyahu, dei piani di “riforma” del sistema giudiziario israeliano. Dopo qualche mese di sospensione, la legge ultra-controversa che ridimensiona drasticamente il ruolo della Corte Suprema ha superato questa settimana il primo ostacolo legislativo, innescando nuove manifestazioni pubbliche e clamorose azioni di resistenza dentro gli organi dello stato. Sullo sfondo restano le dinamiche regionali in pieno fermento, con gli Stati Uniti fortemente allarmati per i riflessi sui propri interessi strategici della deriva autoritaria del regime di Tel Aviv.

Dopo mesi di opposizione alla ratifica dell’ingresso della Svezia nella NATO, il presidente turco Erdogan avrebbe acconsentito a dare la propria approvazione grazie a un accordo, stipulato nell’immediata vigilia del vertice dell’Alleanza a Vilnius, con il segretario generale Stoltenberg e il primo ministro svedese, Olaf Kristersson. Il ruolo decisivo lo ha svolto tuttavia il governo americano e il colloquio telefonico di domenica tra Biden e Erdogan potrebbe essere stato decisivo nel convincere il presidente turco.

Al delicatissimo summit di questa settimana in programma a Vilnius, i paesi NATO arrivano con le spalle al muro per via della fallimentare “controffensiva” delle forze armate ucraine. Ufficialmente, ciò che dominerà la due giorni nella capitale lituana è l’impegno a tenere alto il livello di appoggio al regime di Zelensky nel conflitto con Mosca. Allo stesso modo, se anche a Kiev non verrà fatta nessuna offerta formale per entrare nell’Alleanza, potrebbero esserci discussioni sulle “garanzie di sicurezza” a favore dell’Ucraina, nonostante la limitata utilità di una simile promessa. Dietro le quinte, è probabile che divisioni interne e recriminazioni sulla gestione della guerra finiranno per prevalere durante il vertice, anche se la presa d’atto della sconfitta e l’individuazione di una via d’uscita che salvi la faccia all’Occidente ed eviti una conflagrazione nucleare in Europa appaiono ancora pericolosamente lontane.

Quote di PIL per ogni paese membro, rifacimento degli arsenali svuotati a favore di Kiev, ingresso della Svezia e apertura per un possibile arrivo anche dell’Ucraina, riposizionamento tattico e nuovi ruoli. L’agenda dei lavori del prossimo vertice di Vilnius della NATO appare fitta di temi ma priva di sorprese in ordine alle decisioni che scaturiranno. Il vertice avrà l’Ucraina come utile sfondo per le richieste di Washington al resto della compagine. A distanza di 3 anni dalla riunione di Madrid, che sancì l’abbandono definitivo di ogni ambiguità politica e persino lessicale sul concetto di difesa, la NATO si riunisce sia per affrontare le questioni legate al suo ruolo di gendarme mondiale che per provare a mettere a terra alcuni passaggi e modifiche dei suoi assetti.


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