di Miriam Giannantina

Damasco. Verso le 10 di mattina sentiamo un’esplosione. Il rumore non é fortissimo ma abbastanza chiaro. Ci precipitiamo sul tetto della nostra casa in città vecchia. Dopo pochi minuti una nuova esplosione seguita da spari di armi da fuoco. Si vede del fumo bianco provenire dal centro della città moderna, direzione Kafar Souseh. Ci sono altre persone affacciate alle finestre e ai balconi delle case circostanti. Nella piazza vicino casa si nota un crocicchio di 5 uomini con giacca di pelle scura e pantaloni neri, la divisa inconfondibile degli uomini del mokhabarat, i servizi di sicurezza.

Per paura di essere notati, i curiosi rientrano nelle case. Iniziano ad arrivare le prime notizie sulla TV siriana. Stessa breaking news su Syria News, il canale di stato, su Dunia, il canale satellitare di Rami Makhlouf, cugino del presidente. Parlano di due attacchi terroristici, due esplosioni che hanno colpito il quartier generale della sicurezza nazionale (Ahm Dawlia) e una branca della stessa sicurezza nazionale poco distante e, dopo appena qualche minuto, già attribuiscono la responsabilità degli attentati ad Al Qaeda. Più tardi specificheranno che due giorni prima erano giunte avvisi di infiltrazioni di Al Qaeda dal Libano.

La TV statale mostra immagini raccapriccianti di corpi divelti, pezzi di cervello, braccia e gambe, afferma che ci sono vittime civili ma non fornisce numeri. Usciamo per strada in città vecchia, è venerdi, quasi tutti i negozi sono chiusi, pochissime persone per strada, atmosfera più cupa del solito ma la vita continua a scorrere. Ormai sono rimasti pochissimi stranieri in città, si viene identificati facilmente. Nel pomeriggio la TV parla di 35 persone, 10 agenti della sicurezza e 25 civili, uccisi dall’esplosione di due autobombe, e di varie decine di feriti. Un servizio mostra il viceministro degli esteri siriano accompagnato dal capo della prima delegazione di osservatori della Lega araba che si recano sul luogo degli attentati. I primi osservatori, incaricati di preparare l’arrivo del resto della missione come prevede il protocollo siglato tra la Siria e la lega araba, sono giunti a Damasco giovedi ed i restanti osservatori si attendono entro la fine del mese. In serata il numero delle vittime salirà a 44 ed un centinaio di feriti.

Circolano molte domande sulla tempistica - proprio il giorno dopo l’arrivo dei primi osservatori della lega araba - e le modalità degli attentati. Ahmad, un oppositore, afferma subito che gli attentati sono stati organizzati dallo stesso regime per mostrare alla Lega Araba l’azione di bande di terroristi, e così provare la propria tesi sostenuta dall’inizio della rivolta. “Ci sono tanti punti oscuri” afferma Ahmad “perchè è salito solo fumo bianco se l’esplosione ha carbonizzato corpi e distrutto macchine? Perché gli spari dopo l’esplosione e tra chi? Il numero delle vittime è alto se si pensa che solitamente di venerdi mattina in quella zona della città, sede di molti uffici, non c’é molto traffico.

Al Qaida non ha una storia di intervento in Siria”, Ahmad non esclude le ipotesi più terribili, ad esempio che le vittime siano state forzosamente “concentrate” nel luogo dell’esplosione o che si tratti addirittura di cadaveri di oppositori. “Per questo regime le vite umane non contano, può sacrificarne decine anche dalle proprie fila” continua Ahmad. Riad Assad, il comandante dell’Esercito Libero Siriano basato in Turchia, condanna gli attentati e ne attribuisce la responsabilità al regime. “Noi non abbiamo questa capacità e interveniamo a difesa dei manifestanti” dichiara ad Al-jazeera.

Nella tarda mattinata inziano a comparire sulle TV panarabe Al-jazeera e Al-arabya, come ogni venerdì da oltre 10 mesi ormai, le immagini delle manifestazioni contro il regime riprese dai mediattivisti dell’opposizione. Questo venerdì è stato intolato dagli oppositori “il Protocollo (della Lega Araba n.d.r.) ci uccide”, secondo i quali il protocollo della Lega Araba firmato dalla Siria (dopo aver ottenuto alcune modifiche) ha solo l’obiettivo di far guadagnare tempo al regime che continua la repressione. “Prima c’erano 20 vittime al giorno, dopo il protocollo sono 100” c’è scritto su uno striscione di una manifestazione ad Homs, roccaforte delle proteste. Burhan Ghalioun, presidente del Consiglio Nazionale Siriano, raggruppamento dell’opposizione basato all’estero, ha affermato che il regime sta recitando e ha richiesto l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per proteggere i civili. Sono almeno 20 le vittime civili della repressione delle manifestazioni di venerdì secondo gli attivisti.

Gli attentati di Damasco - primi di questo tipo negli oltre 10 mesi di rivolta in Siria - potrebbero segnare un pericoloso salto di qualità nella crisi siriana, incamminata verso un futuro incerto e fosco. Tornano in mente le parole ascoltate la scorsa estate da un diplomatico occidentale di lungo corso in Siria “non sono ancora ricorsi ad attentati terroristici e bombe come in Iraq” ed un mese fa da un giornalista che, dopo un’intervista con i rappresentanti dell’esercito libero siriano, riferiva di evoluzioni importanti prima di Natale. Ahmad, di nuovo, ha pochi dubbi sul futuro: “Tra qualche mese qui in Siria sarà come in Libia”.

fonte: Nena news

 

di Emma Mancini

Beit Sahour (Cisgiordania). Quasi un film americano d’altri tempi: spie libanesi reclutate dalla Cia che passano informazioni nei café di Beirut o dentro un’automobile dai vetri oscurati. Ma stavolta niente fiction di serie B: a rendere pubblico il modus operandi dell’apparato di intelligence statunitense in Libano è Hezbollah, movimento sciita libanese guidato da Hasan Nasrallah.

Il report, pubblicato venerdì sera in esclusiva dalla rete televisiva Al-Manar, tv controllata e gestita da Hezbollah, svelerebbe l’intrigo: l’ambasciata americana di Awkar, a Beirut, è stata trasformata in un centro di reclutamento di informatori e spie libanesi. Un’attività di spionaggio in piena regola contro il movimento sciita, che l’amministrazione americana avrebbe messo in piedi per controllare e prevenire eventuali azioni contro l’alleato israeliano.

Nei video resi pubblici da Hezbollah, c’è tutto: i nomi veri e quelli falsi degli ufficiali coinvolti, gli obiettivi, i metodi di lavoro. Ma non solo: la struttura di corruzione interna e la stretta cooperazione Israele-Usa in territorio libanese, attraverso lo scambio di informazioni tra CIA e Mossad.

Un report che apparirebbe verosimile, dopo le dichiarazioni rilasciate un mese fa da alcuni funzionari statunitensi all’agenzia stampa Associated Press: Hezbollah avrebbe scoperto la rete di spie e informatori della CIA in Libano, danneggiando seriamente la capacità del sistema di intelligence di reperire informazioni sul Partito di Dio. Lo stesso segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, aveva rivelato il giugno scorso che nel suo partito si erano infiltrate due spie reclutate dalla CIA.

“È ovvio che la debolezza israeliana è forte ancora oggi – ha spiegato nel video report Hasan Fadlallah, parlamentare di Hezbollah – e rende necessario affidarsi al più potente apparato di intelligence del mondo. L’incapacità dei servizi segreti israeliani nel confrontarsi con il sistema di sicurezza di Hezbollah è vecchia come la nostra resistenza”.

La rete di spie creata all’interno dell’ambasciata americana non avrebbe altro scopo se non quello di fornire informazioni e strumenti a Israele, infognato nella guerra contro il vicino nemico libanese. “La CIA porta avanti il suo lavoro di intelligence nell’ambasciata statunitense a Ankar, Beirut - prosegue il video - attraverso una ‘stazione’ situata in uno degli edifici annessi. La stazione ha il compito di reclutare vaste reti di agenti in diversi settori della società libanese: politico, sociale, educativo, sanitario e militare”.

L’attuale capo della stazione di reclutamento sarebbe l’ufficiale della CIA Daniel Patrick McFeely, diplomatico statunitense. Insieme a lui, sarebbero operativi full time altri dieci funzionari, a cui si affiancano temporaneamente ufficiali con particolari compiti. Ufficiali di cui Hezbollah pubblica i nomi, aggiungendo quelli in codice utilizzati per garantirne la sicurezza: ufficiale Nick, ufficiale John, ufficiale Yusuf e così via.

Obiettivo americano è quello, secondo Hezbollah, di creare una rete di informatori in grado di coprire tutto lo spettro della vita pubblica e sociale del Paese dei cedri: “Dipendenti del governo, del sistema di sicurezza, membri di partiti politici, medici, religiosi, banchieri, giornalisti, professori universitari”. “Dopo la prima fase di reclutamento - continua il report - la neospia viene chiamata in ambasciata. Qui fornisce tutte le informazioni in suo possesso fino a quel momento e viene creato un file dettagliato sull’informatore e sulle sue potenziali capacità e connessioni sociali. Nella fase successiva, l’agente diventa operativo fuori dall’ambasciata. Tra l’agente e il funzionario Usa a lui assegnato viene stabilito un programma d’azione”.

Un programma che prevede il reperimento di informazioni sui membri del Partito di Dio e della resistenza libanese: numeri di telefono, indirizzi di casa, indirizzi delle scuole frequentate dai figli, eventuali problemi finanziari.

Ma non solo. Obiettivo della CIA è quello di ottenere valide informazioni sull’operato del movimento nelle città e nei villaggi: “Lista delle armi possedute dai singoli, magazzini di armi, strutture logistiche, membri target dell’alleato israeliano. Informazioni che poi vengono girate al di là del confine, a Tel Aviv”. Nella guerra del 2006, gli Stati Uniti hanno fornito il materiale al Mossad israeliano, materiale utilizzato per compiere attacchi mirati contro edifici civili nei quali si pensava fossero nascosti membri di Hezbollah.

La rete di informatori, secondo Hezbollah, viene direttamente condivisa con i servizi segreti israeliani, mettendo in contatto alcune delle spie con funzionari del Mossad: per questo, gli agenti libanesi sarebbero chiamati a fornire informazioni anche su organizzazioni culturali, sociali o economiche in qualche modo connesse con il Partito di Dio.

Al massimo ogni due mesi l’agente è chiamato a riferire il materiale in suo possesso, materiale su cui viene redatto un report volto a controllare la produttività della spia. “Gli incontri tra funzionario americano e informatore avvengono in luoghi pubblici, come cafè e ristoranti, McDonald’s e Starbucks. Oppure in automobili con targa diplomatica Usa”.

Dietro la ‘stazione’ e la rete di informatori, spiega Hezbollah, è stato costruito un sistema di corruzione che coinvolge i funzionari interessati nell’operazione. “L’agente libanese riceve denaro per i suoi servizi dall’ufficiale di riferimento. È poi tenuto a firmare una ricevuta che conferma il pagamento. La somma riportata nella ‘fattura’ è minore di quella realmente consegnata alla spia”. Il resto finisce nelle tasche dei funzionari della CIA.

 

Fonte: Nena news

 

di Michele Giorgio

Roma, 20 novembre 2011. Non era chiara ieri la posizione di Damasco alla vigilia della scadenza dell’ultimatum lanciato dalla Lega araba al regime di Bashar al-Assad chiamato ad accettare il «piano arabo» e in particolare ad accogliere osservatori per non vuole affrontare pesanti sanzioni economiche. Venerdì Damasco aveva chiesto la modifica di 18 clausole dell’accordo per l’arrivo degli osservatori, ma l’organizzazione panaraba ha opposto - stando alla stampa locale - un secco rifiuto. Come si concluderà il braccio di ferro ieri non era chiaro, in ogni caso il futuro della Siria sarà nero.

Le parole del Segretario di stato Usa Hillary Clinton sul pericolo di «una guerra civile» più che esprimere una preoccupazione rappresentano una minaccia. I recenti blitz dei disertori del cosiddetto «Esercito libero siriano» confermano che l’opposizione è sempre più armata e aiutata dall’esterno. Lo scenario libico perciò incombe sulla Siria. Stavolta però con la Russia (alleata di Damasco) nettamente contraria a un intervento militare della Nato, è la Lega araba che sta facendo il grosso del lavoro per tenere sotto pressione il regime siriano, preparare l’opposizione politica a diventare la futura classe dirigente, modello Cnt libico.

Il ruolo svolto nel 2010 dalla Lega Araba è stato straordinario per una organizzazione che negli ultimi venti anni non ha mai avuto una reale influenza, poteri concreti e, più di tutto, consenso popolare. Un risveglio che non può non sollevare interrogativi sulle finalità di tanto improvviso attivismo. Senza dubbio la situazione in Siria è gravissima e le responsabilità del regime sono enormi. Assad sostiene di avere il consenso della maggioranza dei siriani ma deve provarlo. E per farlo non ha scelta: deve indire elezioni libere e lasciare al suo popolo il diritto di esprimersi senza restrizioni e intimidazioni. In ogni caso nessun leader politico può varare misure repressive così pesanti, costate la vita a tanti cittadini, pur di rimanere al potere.

Il presidente siriano Bashar Assad

Allo stesso tempo dovrebbe ormai essere chiaro che quella in corso in Siria non è una rivolta simile a quelle di Egitto e Tunisia. Lo è stata all’inizio, con le proteste spontanee esplose a metà marzo e organizzate dai comitati popolari. Non lo è certo ora con le manifestazioni che si concentrano nelle città roccaforti del sunnismo militante (Hama, Homs), nemico del regime del partito Baath dominato dagli «apostati» alawiti, la setta sciita alla quale appartiene lo stesso Assad. Non ora con i disertori e civili armati che lanciano attacchi contro i servizi di sicurezza e l’Esercito. E forse non erano frutto della propaganda del regime le notizie di agguati ad unità della polizia e delle forze armate diffuse nei mesi scorsi dai media statali.

Alle redini della Lega araba (La) oggi c’è di fatto il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), guidato dall’Arabia saudita e composto dalle monarchie ed emirati del Golfo. La caduta del dittatore egiziano sotto l’urto della rivoluzione del 25 luglio e la dipendenza dell’Egitto dagli aiuti dei paesi arabi ricchi, ha catapultato alla testa della La il Consiglio che ha mosso subito i passi necessari per impedire che la «primavera araba» potesse mettere a rischio la stabilità delle petromonarchie.

La casa reale saudita, che ha inviato truppe in Bahrain a reprimere le manifestazioni popolari, ha compreso che le proteste in Siria possono essere «guidate» non tanto per abbattare Assad - peraltro un nemico solo a parole perché dipendente dagli aiuti arabi e garante della stabilità regionale - quanto per scardinare la trentennale alleanza tra Siria e Iran. Nella strategia saudita in Siria, la caduta di Assad non serve per dare la libertà ai siriani ma ad assicurare il raggiungimento di un obiettivo fondamentale: l’isolamento totale di un potente nemico, l’Iran sciita.

Tagliente come sempre è il giudizio del noto commentatore arabo Asad AbuKhalil, che pure è un feroce critico del regime siriano: «I media occidentali descrivono la decisione della Lega araba di sospendere la Siria come un passo importante a favore della democrazia ma evitano di spiegare perché non è stata presa una decisione simile nei confronti del dittatore yemenita (Ali Abdullah Saleh) che pure usa i carri armati e gli elicotteri contro la sua gente. Se un dittatore gode del sostegno del Ccg, i suoi crimini verranno tollerati, a maggior ragione se è alleato degli Stati uniti».

L'autoproclamato Esercito libero siriano

Sono considerazioni pregne di un vetero anti-americanismo quelle di Abu Khalil? Difficile sostenerlo quando gli danno ragione gli sviluppi sul terreno e le manovre in atto dietro le quinte. La Lega araba a trazione saudita prosegue il suo compito di surrogato del ruolo della Nato provando a mettere insieme le diverse anime dell’opposizione siriana per prepararla a prendere la guida della Siria quando Assad e il Baath verranno travolti.

Riyadh con i suoi principali alleati - Giordania, Qatar e i sunniti libanesi (il governo di Beirut controllato dagli sciiti di Hezbollah invece è ancora dalla parte di Damasco) - lavorano alla costituzione di un fronte unito che, su modello del Cnt libico, dovrà diventare il «rappresentante legittimo del popolo siriano», come è stato stabilito nell’ultimo incontro al Cairo con alcuni oppositori di Assad. Nel frattempo si studiano tempi e modi del via libera che verrà dato alla Turchia (e forse anche alla Giordania) per la creazione in territorio siriano di «zone cuscinetto a protezione dei civili».

Ad intralciare, per il momento, i disegni della Lega Araba-Ccg sono le spaccature tra il Consiglio nazionale siriano (Cns) che si considera il solo rappresentante dell’opposizione siriana, e il Comitato di coordinamento nazionale (Ccn), con posizioni più moderate e favorevole al dialogo con Assad. Senza dimenticare le ambizioni della Commissione generale della rivoluzione siriana (Cgrs) e il ruolo svolto sin dalle prime proteste dai Comitati di coordinamento locali (Ccl).

Secondo il giornale libanese Al Akhbar, le prossime mosse della Lega araba saranno il riconoscimento del fronte unito delle opposizioni quale unico rappresentante legittimo del popolo siriano; la creazione delle «zone cuscinetto»; l’avvio della transizione dei poteri. Non sono contrari all’unità delle opposizioni ma sollevano obiezioni su vari punti Haytham Manna, leader del Ccn, e due intelletuali della «Dichiarazione di Damasco» (2005), Michel Kilo e Samir Aita, che temono che la Siria faccia la fine della Libia. Per i vertici della Lega, inoltre, non è facile capire il peso reale di Burhan Ghalioun, il leader del Cns. Questo storico oppositore (dall’estero) di Assad raccoglie davvero consenso? Oppure è un altro Ahmad Chalabi, l’ambizioso iracheno sponsorizzato da Washington che, fatto rientrare a Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein, dimostrò di rappresentare solo se stesso? 

 

 Fonte: Nena News

di Michele Giorgio

Sulle pagine degli esteri dei giornali di tutto il mondo ieri c’era il rilancio della colonizzazione israeliana come risposta del governo Netanyahu all’accettazione della Palestina tra i membri Unesco. Non sorprende. E’ un tema di eccezionale importanza. Ha però nascosto il clima di guerra imminente che ormai si respira nella regione. Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak hanno deciso di attaccare militarmente l’Iran.

Lo scrivono da giorni i quotidiani locali che ieri hanno anche riferito una notizia che riguarda molto da vicino l’Italia. L’aviazione israeliana sta completando l’addestramento per un attacco da portare ad un obiettivo a grande distanza (le centrali iraniane?) usando anche la base Nato di Decimomannu (Sardegna). L’ultima fase dell’esercitazione in Italia, scriveva ieri Haaretz, si è svolta la scorsa settimana, con il convolgimento di sei squadroni di cacciabombardieri e ha riguardato il combattimento, il rifornimento in volo e il monitoraggio delle stazioni radar.

Notizie che non fanno altro che accreditare le indiscrezioni sulla preparazione dell’attacco alle centrali iraniane chiesto con forza da Netanyahu con l’appoggio di Barak. I due partner di guerra stanno facendo tutto il possibile per raggiungere la maggioranza in seno al gabinetto di sicurezza (sette ministri), necessaria per dare il via libera al raid aereo. Nei siti nucleari iraniani, secondo Israele e Stati Uniti, Tehran intenderebbe produrre non solo energia atomica ma anche quanto serve per assemblare ordigni atomici.

L’Iran ha sempre respinto questa accusa e ha esortato la comunità internazionale a svolgere indagini in Israele, l’unico paese della regione che possiede segretamente, secondo esperti internazionali, almeno 200 bombe atomiche. Tra i ministri che appoggiano Netanyahu c’è anche quello degli esteri e leader ultranazionalista Avigdor Lieberman che ieri ha denunciato l’Iran come «il principale pericolo per la stabilità dell’ordine mondiale». «Il mondo - ha aggiunto Lieberman - deve prendere decisioni e far rispettare le sanzioni contro la banca centrale iraniana. La comunità internazionale deve interrompere gli acquisti di petrolio dall’Iran».

Non siamo ancora all’ultimatum ma poco ci manca. Il rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che verrà reso noto l’8 novembre, sarà decisivo per le scelte di Israele. Almeno questo è quanto lasciano capire gli stessi leader politici israeliani. Quanto gli Stati Uniti in questa fase siano sulla stessa lunghezza d’onda di Netanyahu e Barak è difficile decifrarlo. Barack Obama però non ha mai escluso l’opzione dell’uso della forza contro Tehran e il segretario alla difesa Leon Panetta sull’argomento è molto meno prudente del suo predecessore Robert Gates. Washington però non vuole attacchi a sorpresa e Panetta, durante il suo recente viaggio in Medio Oriente, ha ottenuto dal governo Netanyahu ampie assicurazioni. Vuol dire che i due paesi attaccheranno insieme, magari con la collaborazione di qualche alleato arabo? L’ipotesi non è infondata.

Che la guerra si sia fatta più vicina lo dice anche la resistenza più debole che oppongono all’attacco i comandanti delle Forze Armate e dei servizi segreti, ossia coloro che, secondo quanto aveva riferito venerdì scorso su Yediot Ahronot uno dei giornalisti israeliani più noti, Nahum Barnea, più di altri si sono schierati con forza contro le intenzioni di Netanyahu. Ora cominciano a cedere sotto le pressioni del premier dopo aver sottolineato per mesi le conseguenze devastanti che avrebbe il raid contro le centrali iraniane, peraltro inutile perché servirebbe a rinviare di poco i programmi di Tehran.

In Iran, naturalmente, seguono con attenzione ciò che si discute in Israele e nella Repubblica islamica non manca chi lancia avvertimenti pesanti come macigni. Il capo di stato maggiore, generale Hassan Firouzabadi, ieri ha minacciato di «far rimpiangere un simile errore» a Israele e messo in guardia anche Washington. «Se il regime sionista (Israele) ci attaccherà, saranno colpiti anche gli Stati Uniti», ha detto. L’Iran appare in grado di rispondere ad un blitz delle forze aeree israeliane con il lancio di decine, forse di centinaia di missili balistici verso il territorio dello Stato ebraico. Tehran inoltre potrebbe sferrare un’offensiva contro gli alleati arabi degli Stati Uniti mettendo a ferro e fuoco l’intero Medio Oriente. Ha anche la possibilità di bloccare lo Stretto di Hormuz paralizzando il trasporto marittimo del greggio con effetti devastanti per le economie occidentali.

Fonte: Nena news

di Marina Forti

L’amministrazione Usa ha moltiplicato gli sforzi per isolare Teheran, che nelle ultime settimane è dipinta come il nuovo «nemico principale», più pericoloso perfino della eterna al Qaeda. Un inviato del governo degli Stati uniti, il sottosegretario al tesoro David Cohen, ha girato le capitali europee per sostenere un’azione concertata per nuove sanzioni all’Iran. Da alcuni anni gli Usa trascinano i paesi alleati, Europa in testa, in sanzioni unilaterali che vanno molto oltre quelle decretate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ora si avvicina un nuovo round. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sta per pubblicare il suo nuovo rapporto sull’Iran, e secondo alcune indiscrezione dirà che il programma di arricchimento dell’uranio ha fatto progressi e l’intero programma atomico iraniano ha finalità militari. Ormai però molti paesi rifiutano nuove sanzioni all’Iran: i sospetti non sono mai stati provati, l’Aiea continua ad avere accesso agli impianti atomici iraniani. L’Iran è inadempiente verso il Consiglio di sicurezza, che gli aveva intimato di sospendere l’arricchimento dell’uranio, ma non verso il Trattato di non proliferazione, cui aderisce.

Ecco però che da Washington arrivano altri argomenti a sostegno della sua campagna. L’Iran va contenuto perché non si infili nel vuoto che gli Usa lasciano in Iraq, da cui le ultime truppe americane si ritireranno entro fine anno (non rimarranno neppure i 3-5.000 soldati di «presidio» previsti in origine, poiché Baghdad non ha accettato la clausola dell’impunità che Washington chiede sempre per le sue truppe).

Soprattutto, c’è la storia del complotto: due settimane fa il Dipartimento alla giustizia ha annunciato di aver sventato un piano di uccidere l’ambasciatore dell’Arabia saudita a Washington, e il segretario alla giustizia Eric Holder ha dichiarato che il complotto porta dritto alle Forze Al Qods, corpo di élite delle Guardie della rivoluzione dell’Iran, e quindi al vertice della Repubblica islamica. Due settimane dopo, le prove restano molto vaghe. Tutto ruoterebbe attorno a un cittadino iraniano-americano, Mansur Arbabsiar, 56enne venditore di auto usate negli Usa, e a suo cugino Gholam Shakuri, ufficiale della Forza al Qods; il primo è agli arresti negli Usa (lunedì in tribunale si è dichiarato non colpevole), Shakuri si trova forse in Iran.

Mesi fa Arbabsiar avrebbe preso contatti con un cartello del narco-traffico messicano, gli Zeta, per vendergli tonnellate di oppio proveniente dall’Afghanistan. Arbabsiar è andato fino in Messico per trattare l’affare, ma il suo contatto era un informatore della Dea, l’agenzia anti-narco Usa: così a sostegno dell’accusa ci sono trascrizioni di telefonate e incontri dove si parla di attaccare sedi diplomatiche e di far fuori l’ambasciatore saudita.

Il giornalista americano Gareth Porter, esperto di questioni della difesa nazionale Usa, ha notato che in quelle trascrizioni è sempre l’uomo del cartello (l’informatore) a suggerire a Arbabsiar la possibilità di altre azioni - uccidere l’ambasciatore saudita - ma «non c’è una specifica conversazione da cui risulti che la proposta possa essere attribuita a Arbabsiar». Insomma: lo spiantato venditore di auto usate ha tentato di vendere oppio riconducibile all’Iran al cartello messicano, dove un agente-informatore Usa gli ha dato corda per costruire una trappola.

Nelle ultime due settimane esperti e studiosi di affari iraniani hanno espresso grande scetticismo sul complotto tex-mex. Cosa prova che l’iranian-americano agisse per conto dell’intelligence e con l’accordo dei vertici politici della Repubblica islamica? Perché le Guardie della rivoluzione si affiderebbero a un agente così improbabile? Nulla nel presunto complotto rientra nel modus operandi dell’intelligence iraniana; né pianificare un atto così rischioso in territorio Usa, né lasciare tracce indelebili, né chiamare in causa un’organizzazione esterna (gli Zeta), non musulmana e non politicamente vicina.

E poi, quale beneficio trarrebbe l’Iran da un assassinio politico che alzerebbe subito la tensione? Obiezioni espresse da voci diverse: perfino un consigliere del governo saudita ha detto che un complotto ci sarà, «ma siamo scettici su quanto sia reale». L’Iran ha smentito e protestato: dalla Guida suprema Ali Khamenei all’ex presidente Khatami, al ministro degli esteri Ali Akbar Salehi che ha anche offerto di cooperare alle indagini, se gli Usa presenteranno qualche prova.

Credibile o meno però, il «complotto» ha la sua funzione. Nelle ultime due settimane Fbi, Cia, e Dipartimenti di stato, giustizia e tesoro hanno informato il Congresso delle prove raccolte contro l’Iran. Hanno convocato diplomatici stranieri per fare lo stesso. L’ambasciatrice Usa presso l’Onu, Susan Rice, ha portato al Consiglio di sicurezza le prove. Mercoledì la Camera Usa ha dichiarato che l’Iran ha ormai superato una «linea rossa», ha compiuto un «atto di guerra», e chiede al presidente Obama di riconsiderare la politica Usa verso Tehran. Colpire l’Iran? Il clima è proprio quello.

Fonte: Nena News 


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