di Michele Giorgio

IL CAIRO. «Chiediamo le dimissioni del ministro dell’interno el Issawi, il rilascio di tutti gli arrestati e l’apertura immediata di un’inchiesta». Sono queste le richieste presentate al governo e ai militari al potere da 25 formazioni politiche egiziane dopo la repressione durissima compiuta dalla polizia delle proteste di migliaia di giovani, cominciate martedì sera durante una conferenza in un teatro di Agouza e davanti alla televisione di stato e proseguite fino a ieri pomeriggio in Piazza Tahrir e davanti al ministero dell’interno. I feriti sono oltre mille e tra questi un centinaio sono stati ricoverati in ospedale.

Sono state le ore più difficili per l’Egitto dalla cacciata dell’ex rais Hosni Mubarak lo scorso 11 febbraio. Il passato continua a gravare sul paese, teatro di una ribellione che ha fatto cadere il «faraone del terzo millennio» rimasto per trent’anni al potere ma che ha solo scalfito la struttura del regime.

Ieri sera una calma carica di tensione regnava in Piazza Tahrir. L’accaduto ha inviato un segnale molto preoccupante al paese che si prepara ad entrare nella campagna elettorale vera e propria in vista delle legislative di fine settembre. La polizia ha trasformato in una battaglia la denuncia pubblica di migliaia di egiziani per il ritardo nell’apertura dei processi nei confronti degli esponenti del regime di Mubarak e dei comandanti della polizia responsabili del massacro di centinaia di manifestanti tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio.

In strada ormai i giovani dimostranti, almeno quelli che fanno riferimenti ai movimenti laici, non scandiscono più «Il popolo vuole la caduta del regime», lo slogan della rivoluzione, ma «il popolo vuole le dimissioni di Tantawi», ossia del generale a capo del Consiglio supremo delle Forze Armate che dallo scorso 11 febbraio controlla il paese. Ma i militari si sentono forti. All’estero godono del pieno sostegno degli Stati Uniti, già grandi alleati di Mubarak, e in casa hanno dalla loro parte i partiti islamisti, Fratelli Musulmani in testa, che ieri si sono guardati dal condannare la brutalità della polizia contro i manifestanti.

Chi crede ancora in un nuovo Egitto perciò ieri si è precipitato in Piazza Tahrir. Lo hanno fatto tre candidati alle presidenziali: Hamidine Sabahi, del partito Karama, l’ex giornalista televisivo Bossayana Kamell e il medico Abdel Moneim Aboul Foutouh, espulso dai Fratelli musulmani per la decisione di correre per la poltrona di presidente e per aver pubblicamente riconosciuto il diritto alla conversione religiosa.

Aboul Foutouh ha criticato le forze di sicurezza per la violenza «spropositata» contro le famiglie dei martiri della rivoluzione aggradite dalla polizia. Un altro candidato alla presidenza, Mohamed  ElBaradei, ha denunciato su twitter le «violenze contro i manifestanti» mentre il movimento 6 Aprile, fra i primi promotori della rivolta anti-Mubarak, ha fatto appello, sulla sua pagina Facebook, ad un sit in permanente di protesta contro l’uso della forza da parte della polizia.

Wael Ghonein, il più noto dei cyberattivisti, ha ricordato sulla sua pagina Facebook che oggi è atteso il verdetto nel processo per la morte di Khaled Said, il giovane di Alessandria pestato a morte un anno fa dalla polizia e la cui figura ha ispirato la rivoluzione di gennaio. Una manifestazione di solidarietà con gli attivisti di piazza Tahrir  si è svolta in Midan Isaaf, a Suez, città dove cadde il primo martire della rivoluzione.
«Con questi scontri  si tenta di diffondere il caos in Egitto…sono in attesa dei risultati dell’inchiesta per stabilire le responsabilità per quanto è avvenuto», ha dichiarato il premier Essam Sharaf.

Ma la sua credibilità è in forte dubbio. Tanti egiziani non gli credono più. E suona ormai come un ritornello di una canzone l’accusa che governo e militari rivolgono tutte le volte «ad elementi del passato regime» che, dicono, intenderebbero scatenare il caos. «Sono invenzioni, è ora di dirlo con estrema chiarezza» ha detto al manifesto Nabil Abdul Fattah, uno degli analisti politici più noti. «Le autorità denunciano teppisti e criminali ma la verità è che le forze di sicurezza non sono cambiate, i comandanti e gli agenti della polizia sono gli stessi, poco o nulla è mutato ai vertici del potere, il regime è lo stesso e vuole consolidarsi, anche con la repressione».

fonte: Il Manifesto-Nena News

di Munif Malham

DAMASCO. Separare ciò che sta accadendo oggi in Siria dalle rivoluzioni che hanno pervaso la regione araba, in particolare dalla rivoluzione tunisina e da quella egiziana, è difficile se non impossibile. Soprattutto se abbiamo imparato le ragioni e le motivazioni che stavano dietro a quelle rivoluzioni: (repressione, assenza di libertà e corruzione.

Sotto lo stato d’emergenza e la legge marziale, in cui la Siria soccombe da circa mezzo secolo, sono stati arrestati centinaia di migliaia di oppositori del regime di ogni appartenenza politica (nazionalisti, di sinistra, islamisti), alcuni dei quali trascorsero in prigione più di dieci anni senza processo. A migliaia sono stati uccisi o sono scomparsi, decine di migliaia gli esiliati dalla loro patria. Soprattutto tra la fine degli anni settanta e la fine degli anni ottanta del secolo scorso, periodo che ha visto la lotta armata tra il regime e il movimento islamista armato e che è stato sfruttato per epurare tutte le forze politiche di opposizione.

La particolarità del movimento di protesta in Siria è che è un movimento di giovani nel fiore degli anni, la maggior parte appartenente alla classe media e ai gruppi emarginati dalla nascita del regime nel 1970 che precedentemente non conosceva alcuna appartenenza a movimenti politici. Non c’è quindi da meravigliarsi se la coscienza politica di questi ragazzi è limitata. Non si tratta di qualcosa di strano per coloro di questa età, poiché durante gli anni ottanta del secolo scorso in Siria sono stati distrutti tutti i movimenti politici di opposizione. Per questo la forza politica di opposizione di tutti gli schieramenti (Fratelli Musulmani compresi) è limitata nella società e di conseguenza anche la loro partecipazione all’attuale movimento che si sta alzando in Siria non può che essere limitata.

Lo slogan più famoso sollevato dai manifestanti durante le proteste è “Dio, Siria, Libertà, e basta” ed è un riassunto di ciò che vogliono: rifiuto di un regime a partito unico, rifiuto di continuare un presidenzialismo della repubblica in carica in eterno e allo stesso tempo si contrappone allo slogan innalzato dai sostenitori del partito Baath che dice ‘Dio, Siria, Bashar, e basta’.

Manifestare all’uscita dalle moschee non sarebbe stata l’unica opzione dei manifestanti se non fosse stato reso impossibile il raduno in piazza o per strada tramite la proliferazione di servizi di sicurezza capaci di dissolvere qualsiasi protesta o manifestazione prima ancora che abbiano inizio. Così a volte ci sono dei laici o addirittura dei non musulmani che frequentano le preghiere del venerdì per poter uscire a manifestare.

Il regime tenta di chiamare il movimento di protesta con il nome di salafismo islamico e di individuare la presenza dei jihadisti armati al centro del movimento. Ma una parte considerevole della popolazione siriana non ci crede. Questo non significa che la corrente salafita islamica sia del tutto assente dal movimento di protesta ma che la sua presenza nel movimento che si sta sollevando in Siria, al pari di altre correnti politiche, sia per il momento limitato.

Non c’è dubbio che la lotta armata condotta dagli islamisti jihadisti contro il regime alla fine degli anni settanta e nei primi anni ottanta in nome di slogan confessionali e contro la miscredenza ha lasciato un’influenza negativa e un atteggiamento prudente per non poche minoranze religiose e confessionali nei confronti del movimento islamista, specialmente tra coloro che hanno vissuto quel periodo di conflitto. Il regime ha approfittato di queste preoccupazioni tra le minoranze religiose e confessionali e ha giocato con i suoi mass media utilizzando le voci di agitazione e confessionalismo provenienti dall’estero, sia siriane che arabe (come il canale televisivo Barada parlante a nome di alcuni oppositori siriani o il canale televisivo Safa finanziato da gruppi arabi del Golfo).

In breve tempo i manifestanti si sono resi conto di questo pericolo per l’unità nazionale e gli slogan che invocano l’unità nazionale si sono moltiplicati, come il grido ‘no al salafismo, no al terrorismo, noi vogliamo la libertà’. O come è avvenuto venerdì 22 aprile, Venerdì Santo, festa per le comunità cristiane. Ma la partecipazione alle proteste da parte delle minoranze religiose e confessionali è ancora limitata ed è difficile rompere prudenza e paura nelle minoranze se le persone non fanno conoscenza nelle piazze. Tutto ciò appare oggi prematuro, visto che le forze di sicurezza chiudono la bocca dei manifestanti con i proiettili.

Il movimento di protesta si caratterizza per ora dall’assenza di leadership e dall’assenza di particolarismi politici. Non tanto la mancanza di leadership a livello nazionale quanto la mancanza di una leadership unita a livello delle singole città ora come ora rende difficile il contenimento e la loro repressione, ma in futuro l’assenza di una leadership unita potrebbe costituire un punto debole.

Il regime ha cercato di contenere la prima ondata del movimento di protesta, durante il quale sono cadute sotto i proiettili delle forze di sicurezza più di cento persone, con promesse riformiste, tra tutte la revoca dello stato di emergenza in vigore da circa mezzo secolo. Ma le promesse di riforma non hanno trovato ascolto tra i manifestanti… Perché?

Il giovane presidente Bashar al-Assad salì al potere nel 2000, dopo la morte del padre, Hafez al-Assad, che per 30 anni governò la Siria con il pugno di ferro. L’eredità che apparì maggiormente fu quella di un paese divorato dalla corruzione in tutte le sue direzioni e articolazioni (tra cui corti di giustizia, apparati di sicurezza e di formazioni militari) talmente ramificata, estesa e profonda al punto da ingoiare il partito Ba’th al governo e le sue istituzioni così come aveva ingoiato lo Stato e le sue istituzioni.

Dopo aver assunto le sue funzioni costituzionali il giovane presidente forse avrebbe potuto leggere ciò che fu scritto nelle note che non sfuggivano a un giovane osservatore come lui: questo regime, fondato nel 1970, ha terminato il periodo della sua autorità. Fin dall’inizio tentò di introdurre alcune riforme al regime assoluto promesse nel discorso d’insediamento quando assunse le sue funzioni costituzionali. Le forze di opposizione al regime e ampi segmenti della popolazione accolsero le promesse del presidente e scommisero su di lui.

Il giovane presidente fallì nella realizzazione di qualsiasi progresso riformista durante gli undici anni del suo governo a causa della forza dispotica del potere e del patrimonio. E così oggi le promesse di riforma non trovano ascolto in ampi settori della popolazione siriana, specialmente dopo il fiume di sangue che ha macchiato l’intero paese negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza e dopo il comportamento avuto in alcune città, dalle violazioni alla perdita di dignità.

Il regime sostiene che la Siria è sotto la minaccia delle potenze occidentali e di un complotto che coinvolge settori arabi in collaborazione con le potenze occidentali per punire il regime a causa delle sue posizioni nazionaliste. Non escludiamo l’esistenza di queste forze, ma per quanto riguarda il movimento dei manifestanti che cercano il cambiamento, se questo cambiamento si attuasse pacificamente e con l’accettazione del regime come avvenuto in Tunisia ed Egitto, la Siria avrebbe maggior forza per affrontare i complotti stranieri senza far entrare la Siria in una spirale violenza.

Specialmente se sappiamo che la posizione del popolo siriano, passata, presente e futura, non nasconde la sua ostilità verso la politica degli Stati Uniti e di Israele. Inoltre le voci d’opposizione che risiedono a Washington e in alcune capitali occidentali e che sono alimentate dai circoli occidentali non hanno alcuna rappresentanza sulla scena siriana. La storia nazionale siriana dimostra che il popolo siriano è il reale custode dalle deviazioni di qualsiasi regime dall’indipendenza a oggi. Questo popolo ha abbracciato la resistenza palestinese fin dal suo inizio negli anni sessanta, ha abbracciato un milione e mezzo di iracheni in fuga dall’invasione americana dell’Iraq del 2003 e ha accolto gli emigrati libanesi in fuga dall’aggressione israeliana contro il Libano del 2006.

L’impiego dei militari siriani da parte del regime nella città di Daraa per affrontare i manifestanti è stato un atto folle, così come minacciare l’uso della forza militare in altre città non promette nulla di buono e getta il paese in una spirale di violenza e caos che indebolisce la Siria di fronte alle minacce esterne e ne minaccia l’unità nazionale.

Alcuni media raccontano di divisioni e insubordinazioni all’interno dell’esercito in maniera amplificata poichè per il momento si tratta solo di insubordinazioni individuali. Non è però da escludere che il fenomeno aumenti se l’esercito continuerà ad essere impiegato per questo scopo.

La via d’uscita alla crisi politica che sta devastando oggi la Siria è oramai nota a tutti ed è raffigurata nel cammino delle rivoluzioni arabe, sia di quelle avvenute in Tunisia e Egitto, sia dalla strada intrapresa in Yemen. O cambiare il regime stesso (responsabilità del presidente della repubblica considerato il garante dell’integrità del paese e del popolo) o andarsene.

fonte: Nena News

 

di Marinella Correggia

Roma, 26 maggio 2011, S’intensificano i bombardamenti aerei della Nato su Tripoli e sulla Libia occidentale e gli Stati Uniti ora ammettono  senza imbarazzo alcuno di aver fornito, in palese violazione della risoluzione 1973, bombe ai ribelli che fanno capo al Consiglio nazionale transitorio di Bengasi. Le potenze occidentali sono ormai decisive ad abbattere con la forza il regime del colonnello Muammar Gheddafi, incuranti delle conseguenze per i civili libici che pure sostengono di voler “proteggere” con i loro attacchi militari.

Una guerra, quella della Nato in Libia, avviata sulla base di una precisa e falsa assunzione: il regime libico aveva bombardato tre quartieri a Tripoli provocando migliaia di morti civili; dunque avrebbe fatto una strage di civili a Bengasi in assenza di intervento Nato. Ma tutto cio’ si e’ rivelato interamente falso.

Mentre la guerra prosegue da oltre due mesi, la maggioranza dei libici, comunque la pensino, non ha voce. In questa guerra che come ha scritto l’analista Lucio Caracciolo di Limes registra il “collasso dell’informazione” (è stata resa possibile da gigantesche bugie e con le bugie continua) non va dato spazio alcuno a chi non è allineato con le posizioni e le gesta dei “ribelli” di Bengasi. Ecco dunque le voci di libici incontrati nella parte Ovest del paese, durante la missione contro la guerra alla quale abbiamo partecipato dal 15 al 20 maggio.

Aisha Mohamed, che da Londra torna a Sirte (incontrata per caso il 15 maggio a Djerba): “Sì, abbiamo un problema. Ma si deve risolvere con la diplomazia, con il cessate il fuoco. Non è però questo l’interesse della Nato. E’ quello di fare il gioco dei cosiddetti ribelli. Ma chi sono? Venuti da fuori, non ci rappresentano. Noi libici dobbiamo poter decidere del nostro futuro. La propaganda dei media ha capovolto la verità. E quanti paesi hanno guerre interne senza intervento esterno? Nel caso di Libia poi questo è basato su falsi rapporti media”.

Basma Challabi (incontrata per caso il 15 maggio ad aeroporto di Djerba): “Sono andata via da Bengasi passando in Egitto (il pretesto è stato un trattamento medico), poi via aereo fino a qua in Tunisia, adesso vado da parenti a Tripoli. La vita a Bengasi è molto insicura, ci sono bande che uccidono. Non è vera rivoluzione”.

Kofi, Ghana (incontrato il 15 maggio nel campo profughi al confine fra Tunisia e Libia): “Lavoravo in Libia nell’edilizia, siamo scappati dalla guerra. Cerco di andare in Europa ma mi rispediscono qui, dove ci danno solo un po’ di cibo e acqua. Che prospettive ho? Non posso tornare in Ghana, non ci sono prospettive là e devo mantenere la famiglia”.

Nuri Ben Otman, coordinatore del Comitato popolare per l sostegno al popolo palestinese (incontrato a Tripoli il 17 maggio): “I piani di sopra di questo palazzo che ospitava vari comitati e associazioni come hai visto sono in parte distrutti in parte danneggiati dai missili Nato, per fortuna è stato di notte. Ci siamo trasferiti in…cantina, insieme all’associazione donne libiche, al coordinamento per i bambini disabili e altri raggruppamenti. Il sostegno alla Palestina andava soprattutto a Gaza. Adesso è tutto bloccato. Fra un po’ avremo bisogno di aiuto noi! Mi chiedi se qualcuno dall’estero si è fatto vivo, fra quelli con i quali lavoravamo per la Palestina. No. Nessuno”.

Leila Sulah Ashour, presidente dell’Unione donne libiche (incontrata a Tripoli il 17 maggio): “Non sono venuti a proteggere i civili libici ma il petrolio. Anche noi donne ci sentiamo sole. Organizziamo conferenze contro la guerra, mobilitazioni, ma i media non ci intervistano mai. Anche domenica prossima, il 22 maggio, oltre un migliaio di donne si riunirà a Tripoli da tutta la Libia ma non ne parlerà nessuno”.

Zahra, madre di Mohamed, volontario dell’esercito libico ucciso a Misrata (incontrata il 16 maggio a Tripoli, quartiere Enzara): “Mio figlio è morto per la patria, per proteggere il nostro popolo. Il contrario di quello che dicono sui soldati libici, ora dipinti come mostri! Ci sono tante prove delle atrocità commesse dall’altra parte, perché non ne parlano le televisioni?”.

Mohamed Daghais, ingegnere, Academy of Graduate Studies (incontrato il 20 maggio a Tripoli): “Se siamo nel mirino è per la nostra politica indipendente, non controllabile. Avevamo rifiutato le basi militari Usa. Avevamo tentato un’altra via, poi i cittadini libici si sono stancati di anni di sanzioni e isolamento e il paese si è avvicinato all’Occidente. Che l’ha tradito”.

Milad Saad Milad, direttore della Academy of Graduate Studies (incontrato il 20 maggio a Tripoli): “Avevamo contatti con centinaia di docenti e studiosi in tutto il mondo. Eppure solo due si sono fatti vivi dall’estero da quando è iniziata la guerra. Non mi interessa l’establishment, i Berlusconi che passano dal baciamano al pugnale, ma i miei colleghi…perché?  Credo per le bugie quotidiane dei media di mezzo mondo. Quelle hanno dato il via alla guerra. Molte sono ormai smentite ma è troppo tardi. Se l’esercito libico fosse così terribile non avrebbe speso un mese a Zawyia per negoziare con i ribelli mediante i leader tribali”.

Ali Mohamed Mansour, rettore della facoltà di Economia all’università Al Fateh (incontrato il 18 maggio a Tripoli): “Si può bombardare di pomeriggio vicino a un’università? L’hanno fatto per colpire un campo militare in disuso da tempo. Per fortuna non c’erano studenti, eravamo chiusi per un problema avvenuto il giorno prima, altrimenti lo spostamento d’aria che ha fatto crollare soffitti di cemento avrebbe fatto un massacro”.

Mohamed Omar di Bengasi, capo della tifoseria della principale squadra di calcio (incontrato il 17 maggio a Zliten dove è rifugiato con altre ottomila famiglie): “C’è molta violenza a Bengasi, siamo scappati da tempo. Girano anche ex galeotti scappati e tanta gente armata. Tutti devono stare zitti”.

Mohamed Ahmed, leader tribale (incontrato il 17 maggio  in una riunione di leader tribali a Tarouna):“Dite i fatti nei vostri paesi, dite che la protezione dei civili non si fa così, che la Nato non può confondere la protezione dei civili con l’appoggio ai ribelli armati, che il nostro esercito ha il diritto di combattere, che hanno mentito parlando di migliaia di morti, che non è giusto che siano le bombe a decidere chi ci deve governare, che Al Jazeera sta facendo un lavoro sporco per conto degli emiri, che qui la gente vuole vivere tranquilla”.

Reem, geologa, tornata a casa dalla Gran Bretagn (incontrata sia a Djerba l 15 sia a Tripoli il 16 maggio): “La Nato protegge i criminali che fanno saccheggi, sgozzano soldati, violentano ragazze. C’era un problema interno alla Libia, l’intervento Nato ne ha fatto una tragedia non ancora risolta”.

Abdul Mola Gumati (incontrato il 19 maggio all’internet point dell’hotel Radisson Blu): sono tornato dal Canada, mi sono sospeso da consulente d’impresa e adesso voglio stare qui nel mio paese, voglio aiutare a ristabilire la verità dei fatti”.

Tiziana Gamannossi, imprenditrice italiana che vive a Tripoli (incontrata durante la missione): “Io e altre persone, libiche e non, insegnanti e imprenditori, abbiamo deciso di creare a Tripoli la Fact Finding Commission, appunto per indagare sulle bugie di guerra. Mettiamo insieme materiali video, accogliamo delegazioni…ma i media internazionali non ci danno spazio”.

La poliziotta all’imbarco della nave di ritorno, da Tunisi per l’Italia (il 21 maggio perquisisce il bagaglio e va a mostrare i video dalla Libia al suo capo, le dico che se me li sequestrano protesterò formalmente): “Gheddafi continua a bombardare?”.

 

 

di Manlio Minucci

Secondo documenti resi pubblici dal New York Times, condurrà missioni speciali per reprimere rivolte interne, tipo quelle che stanno scuotendo il mondo arabo. Lo sta costruendo Erick Prince, un ex commando dei Navy Seals che nel 1997 fondò la Blackwater, la maggiore compagnia militare privata usata dal Pentagono in Iraq, Afghanistan e altre guerre. La compagnia, che nel 2009 è stata ridenominata "Xe Services" (per sfuggire alle azioni legali per le stragi di civili in Iraq), dispone negli Stati uniti di un mega-campo di addestramento in cui ha formato oltre 50mila specialisti della guerra e della repressione. E ne sta aprendo altri.

Ad Abu Dhabi Erick Prince ha stipulato, senza apparire di persona ma attraverso la joint-venture "Reflex Responses", un primo contratto da 529 milioni di dollari (l’originale, datato 13 luglio 2010, è stato reso pubblico ora dal New York Times). Su questa base è iniziato in diversi paesi (Sudafrica, Colombia e altri) il reclutamento di mercenari per costituire un primo battaglione di 800 uomini. Vengono addestrati negli Emirati da specialisti statunitensi, britannici, francesi e tedeschi, provenienti da forze speciali e servizi segreti. Sono pagati 200-300mila dollari l’anno, le reclute ricevono 150 dollari al giorno.

Una volta provata l’efficienza del battaglione in una «azione reale», Abu Dhabi finanzierà con miliardi di dollari la costituzione di un’intera brigata di diverse migliaia di mercenari. Si prevede di costituire negli Emirati un campo di addestramento come quello in funzione negli Stati Uniti. Principale sostenitore del progetto è il principe ereditario di Abu Dhabi, Sheik Mohamed bin Zayed al-Nahyan, formatosi nell’accademia militare britannica Sandhurst e uomo di fiducia del Pentagono, fautore di un’azione armata contro l’Iran.

Il principe e l’amico Erick Prince sono però solo esecutori del piano, che è stato sicuramente deciso nelle alte sfere di Washington. Quale sia il suo reale scopo lo rivelano i documenti citati dal New York Times: l’esercito che nasce negli Emirati condurrà «speciali missioni operative per reprimere rivolte interne, tipo quelle che stanno scuotendo il mondo arabo quest’anno».

L’esercito di mercenari sarà dunque usato per reprimere le lotte popolari nelle monarchie del Golfo, con interventi tipo quello effettuato in marzo dalle truppe di Emirati, Qatar e Arabia saudita nel Bahrain dove hanno schiacciato nel sangue la richiesta popolare di democrazia. «Speciali missioni operative» saranno effettuate dall’esercito segreto in paesi come Egitto e Tunisia, per spezzare i movimenti popolari e far sì che il potere resti nelle mani di governi garanti degli interessi degli Stati uniti e delle maggiori potenze europee.

E anche in Libia, dove il piano Usa/Nato prevede sicuramente l’invio di truppe europee e arabe per l’ «aiuto umanitario ai civili». Qualsiasi sia lo scenario - o una Libia «balcanizzata» divisa in due territori contrapposti, a Tripoli e Bengasi, o una situazione di tipo iracheno/afghano dopo il rovesciamento del governo di Tripoli - si prospetta l’uso dell’esercito segreto di mercenari: per proteggere impianti petroliferi di fatto in mano alle compagnie europee ed Usa, per eliminare avversari, per mantenere il paese debole e diviso.

Sono le «soluzioni innovative» che, nell’autopresentazione, la Xe Services (già Blackwater) si vanta di fornire al governo statunitense. La formazione militare, sostenuta dagli Usa, è promossa da Erick Prince, fondatore della Blackwater, la società di contractors usata dal Pentagono in Iraq e Afghanistan, ora ridenominata Xe Services.

fonte: Il Manifesto

 

di Nena News

Gerusalemme, 17 maggio 2011. Il quotidiano di Tel Aviv Yediot Ahronot pubblica oggi la bozza del discorso al mondo arabo che il presidente Usa pronuncerà giovedì. Sul New York Times invece Abu Mazen chiede riconoscimento Stato palestinese. Nel nuovo discorso rivolto al mondo arabo che pronuncerà giovedì sera, il presidente americano Barack Obama chiederà ai palestinesi di riconoscere Israele come «Stato degli ebrei» e si esprimerà con forza contro la proclamazione unilaterale d’indipendenza palestinese che il presidente dell’Anp Abu Mazen intenderebbe fare il prossimo settembre.

Sottolineando che il documento non contiene dichiarazioni nettamente discordanti dalla linea del premier israeliano Netanyahu, Yediot Ahronot aggiunge che Obama chiederà a israeliani e palestinesi di riprendere il negoziato, come unica strada per raggiungere una «pace stabile», e a Netanyahu dirà di non espandere le colonie israeliane nei Territori occupati palestinesi. Allo stesso tempo si esprimerà a favore di Gerusalemme capitale non solo di Israele ma anche di un possibile Stato palestinese.

Secondo il giornale il presidente Usa avrebbe modificato nella direzione di Israele il suo discorso dopo il veemente discorso pronunciato alla Knesset da Netanyahu, nel quale il premier israeliano ha ribadito con forza che Israele non cederà mai il controllo di tutta Gerusalemme, della Valle del Giordano e dei blocchi di colonie ebraiche in Cisgiordania.

Il riconoscimento palestinese di Israele come Stato ebraico è il punto sul quale batte ormai da due-tre anni a questa parte l’establishment politico israeliano, di destra e di centrosinistra. Una richiesta mai presentata ai passati tavoli di trattativa volta, di fatto, ad ottenere l’annullamento del «diritto al ritorno» alle loro case (in territorio israeliano) per i profughi palestinesi del 1948 (oggi oltre 4 milioni) sancito dalla risoluzione 194 dell’Onu. Israele sostiene che applicando il «diritto al ritorno» perderebbe il suo carattere «ebraico e sionista».

Intanto oggi sul New York Times, Abu Mazen ha sottolinea che «I negoziati rimangono la nostra prima opzione, ma dato il loro fallimento siamo costretti a rivolgerci alla comunità internazionale…non possiamo aspettare indefinitamente mentre Israele manda nuovi coloni nella Cisgiordania occupata e nega ai palestinesi l’accesso alla maggior parte delle nostre terre e luoghi santi, in particolare Gerusalemme». «Né le pressioni politiche, né le promesse di ricompensa da parte degli Stati Uniti hanno fermato il programma israeliano degli insediamenti», aggiunge. Secondo il presidente dell’Anp «l’ammissione della Palestina all’Onu aprirebbe la strada all’internazionalizzazione del conflitto come questione legale, non solo politica - sostiene - ci permetterebbe di citare Israele davanti all’Onu, gli organismi per i diritti umani e la corte internazionale di giustizia».

 


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