La sortita ultima di Matteo Renzi ha smosso le acque già torbide del sistema politico italiano. La sua nuova avventura politica ha ottenuto al momento l’attenzione sperata ma molti meno consensi di quelli ipotizzati. Del resto, Renzi - lo si è detto su questo giornale in più di una occasione - è personaggio di grande presenza scenica ma completamente digiuno di politica, laddove per essa s’intende la cultura delle idee sia in chiave dottrinaria che empirica e la conoscenza della strategia e della tattica necessarie al raggiungimento del consenso.

Con la fiducia dei due rami del Parlamento il governo si è formalmente insediato alla guida del Paese. Sebbene il programma esposto dal Presidente Conte contenga spunti interessanti, la sua proiezione apparentemente inemendabile verso le politiche rigoriste che impone Bruxelles non lascia grandi margini all’apertura di una nuova stagione politica.

Dunque nessuna illusione circa le virtù riformatrici di questo nuovo governo, ma non è questo il suo destino, non a questo serve, non per questo vive. Semplicemente nel nascere ripone al loro posto le cose: ristabilisce un ordine naturale nelle alleanze politiche, rimette nel recinto del medioevo la destra italiana e apre una stagione di contaminazione possibile tra un’idea di modernizzazione del sistema e il mantenimento di principi storici di natura politica e persino etica, come quello della disciplina repubblicana che impone la discriminante antifascista. Un governo di salute pubblica lo si può definire.

Per fortuna, Rousseau non riserva mai grandi sorprese. Dei 117mila iscritti alla piattaforma del Movimento 5 Stelle hanno votato in quasi 80mila e il risultato è stato schiacciante: il 79,3% ha detto Sì a un governo Conte2 con il Partito Democratico. Tutto è stato tranne che un esercizio di democrazia diretta. Il numero di persone ammesse alla consultazione era risibile non solo rispetto al corpo elettorale italiano, ma anche alla fetta di popolazione che un anno e mezzo fa ha chiesto di essere rappresentata in Parlamento dai pentastellati (quasi 11 milioni di persone). E poi Rousseau non è affatto un’agorà pubblica, ma uno strumento gestito da una società privata - la Casaleggio Associati - che veste comodamente i panni del controllato e del controllore. Il ruolo affidato a questa piattaforma è perciò un’aberrazione istituzionale e politica.

Tuttavia, visti i pericoli a cui è esposto il Paese, oggi quello che conta è il risultato. E cioè che Giuseppe Conte potrà recarsi già questa mattina al Quirinale per sciogliere la riserva e dare vita a un nuovo esecutivo.

La conseguenza più importante per l’Italia è il tramonto delle ambizioni di Matteo Salvini. Il leader della Lega esce malconcio dalla crisi che lui stesso ha aperto, commettendo l’errore più grave della sua carriera. In pieno delirio di onnipotenza causato dai sondaggi, il numero uno della Lega ha creduto di poter forzare il ritorno alle urne, dimenticando che siamo una democrazia parlamentare e che al momento nelle Camere il suo partito è solo il terzo più rappresentato.

In modo più che patetico, Salvini su Twitter si dice “orgoglioso di aver smascherato il progetto Conte-Renzi teleguidato dall’Europa”. Insomma, avrebbe fatto cadere il suo governo per smascherare un complotto internazionale il cui scopo era far cadere il suo governo. Sembra una barzelletta.  

La verità è che il segretario leghista non si aspettava il tuffo carpiato di Matteo Renzi, che subito dopo l’apertura della crisi ha lanciato l’idea di un governo Pd-M5S, ribaltando la strategia dei popcorn inaugurata poco più di un anno fa. Con questa svolta, l’ex Presidente del Consiglio non solo ha scaricato la pistola in mano a Salvini, relegandolo all’opposizione, ma ha anche ripreso in mano le redini del suo partito (sempre che le avesse mai cedute). Il segretario dem, Nicola Zingaretti, avrebbe preferito le elezioni per sbarazzarsi degli attuali gruppi parlamentari del Pd - renziani al 100 per cento - e piazzare sulle stesse poltrone i suoi uomini. Poi però la pressione del partito e dei suoi numi tutelari - da Prodi a Veltroni - insieme a quella delle cancellerie europee lo ha costretto a cambiare idea. Sbarrare la strada a Salvini era troppo importante, un obiettivo da raggiungere a qualunque costo.

Quanto al Movimento 5 Stelle, il voto su Rousseau segna la sconfitta di Luigi Di Maio e il trionfo di Conte. Il capo politico pentastellato esce dalla crisi fortemente ridimensionato: perde la carica di vicepremier (Dario Franceschini è stato abile a levargli l’alibi di questa rivendicazione, rinunciando per primo alla nomina) e viene declassato come ministro (dal super-dicastero Lavoro+Sviluppo economico passerà probabilmente alla Difesa).

Per settimane il 33enne di Pomigliano ha cercato una scusa per ricucire con la Lega, sedotto dall’offerta di Salvini, che, disperato, era pronto a concedergli la Presidenza del Consiglio. Alla fine però Di Maio si è arreso: i parlamentari grillini erano al 90% per il cambio di alleanza, così come la base elettorale del Movimento. Non c’era modo di tornare indietro, verso destra.

Il numero uno pentastellato deve quindi ingoiare lo spostamento a sinistra del M5S, che rafforza la corrente capeggiata da Roberto Fico e soprattutto certifica l’ascesa di Conte. Il Premier cerca di accreditarsi come arbitro super partes, probabilmente perché nutre ambizioni quirinalizie, ma di fatto oggi la maggioranza dei grillini vede in lui il suo nuovo leader.

A questo punto, l’attenzione si sposta su quello che il nuovo governo è chiamato a fare. Innanzitutto, c’è da affrontare una sessione di Bilancio tutt’altro che semplice, anche se la soluzione sarà facilitata dalla benevolenza di Bruxelles, entusiasta per l’uscita di scena di Salvini.

In effetti, stavolta l’Italia ha davvero schivato una pallottola: un governo a trazione leghista avrebbe portato allo sfascio l’economia italiana (aumento dell’Iva, taglio delle tasse ai ricchi, deficit selvaggio), isolando definitivamente il nostro Paese a livello internazionale (a perorare la causa di Salvini è rimasto solo Orban) ed esasperando la retorica dell’odio che ha portato a oscenità incostituzionali come i decreti sicurezza.

La prospettiva peggiore è quindi scongiurata. Ma quella migliore rimane da costruire.

Luigi Di Maio continua a tenere il punto: “O mi fate vicepremier o qui salta tutto”. Era e rimane lui l’ostacolo principale lungo la strada che dovrebbe portare alla nascita di un governo Pd-M5S. E non c’entra solo l’ambizione personale, che pure non manca allo statista di Pomigliano. La questione ha a che vedere piuttosto con lo spirito di sopravvivenza.

Come una preda braccata, il capo politico pentastellato sente l’odore del pericolo. Sa che la sua carriera politica appena nata rischia di essere già finita. A picconarla è l’amico-rivale Giuseppe Conte, che giorno dopo giorno - sempre con il sorriso - continua ad allargare la frattura fra il Movimento e il suo leader.

La trattativa fra i partiti per dare vita a un nuovo governo ha assunto i contorni della soap opera. E non di una qualsiasi: proprio di Beautiful, l’archetipo del genere. Nella fattispecie – sorvolando sulla differente prestanza fisica – Luigi Di Maio veste i panni di Ridge Forrester, da circa trent’anni indeciso fra la bionda Brooke (Salvini) e la mora Taylor (Zingaretti). Ogni volta che sembra aver finalmente scelto una delle due, in un modo o nell’altro finisce nelle braccia dell’altra.

La differenza è che Beautiful va in onda dal 1987 e continuerà ancora non si sa per quanto, mentre il capo politico grillino ha tempo fino a martedì per chiarirsi le idee. Se non ci riuscirà, Mattarella eviterà di perdere altro tempo e aprirà la strada alle elezioni, che comunque ormai non potranno tenersi prima di novembre. È verosimile perciò che il Capo dello Stato affidi al governo uscente o a un qualche esecutivo istituzionale – privo della fiducia delle Camere – il compito di traghettare gli italiani alle urne mettendo in sicurezza i conti. Il che vorrebbe dire sterilizzare l’aumento dell’Iva (almeno fino ad aprile) e finanziare le spese indifferibili (come le missioni all’estero). Per decreto, se necessario.

In questo scenario, Di Maio finirebbe probabilmente fuori dal cono di luce. Ha collezionato troppi insuccessi per pensare di essere nuovamente il candidato premier del Movimento: quella poltrona ormai spetta a Giuseppe Conte, nuovo dominus dei sondaggi dopo la rampogna anti-Salvini. Il Ridge di Avellino lo sa benissimo, per questo ha posto come condizione imprescindibile per l’alleanza con il Pd la permanenza di Conte a Palazzo Chigi. L’obiettivo era farsi dire di no da Zingaretti (che non accetterà mai di entrare in maggioranza senza una marcata discontinuità) e avere così un pretesto per tornare da Salvini, che nel frattempo gli ha offerto la Presidenza del Consiglio.

Ma il trabocchetto era troppo scoperto e non ci è cascato nessuno. Per mandare a monte il piano di Di Maio, a Conte è bastato sfilarsi. Pur senza negare l’aspirazione al reincarico, dal G7 in Francia il premier dimissionario ha sottolineato che ormai la trattativa non può che essere con i dem e che nessuno deve porre ultimatum sul nome del nuovo capo del governo.

Tutto da rifare per il leader pentastellato, che quindi ha rialzato il telefono per parlare nuovamente con il segretario del Pd. Frattanto, il Nazareno aveva aperto a una possibile premiership del presidente della Camera, Roberto Fico, da sempre considerato l’anima di sinistra del M5S. Peccato che il diretto interessato si sia tirato indietro: altro buco nell’acqua.

A quel punto - proprio come Ridge - invece d’inventare una soluzione alternativa, Di Maio ha scelto di perseverare nell’errore. Nella seconda telefonata con Zingaretti, il numero uno grillino ha continuato a insistere per il Conte-bis. Stavolta però avrebbe messo sul piatto quasi tutti i ministeri chiave, che dunque passerebbero al Pd, marcando quella discontinuità tanto invocata dal segretario dem. L’indiscrezione è stata poi smentita dai 5 Stelle, ma quello che conta è che Zingaretti ha rifiutato ancora, sebbene fonti del suo partito facciano sapere che “si lavora comunque a una soluzione”.

Sullo sfondo rimane lo spettro delle elezioni, che la destra continua a presentare come unico esito democratico della crisi, fingendo di non sapere (si spera) che l’Italia è una repubblica parlamentare. La Lega è in calo nei sondaggi (dal 38% raggiunto a inizio agosto siamo ora al 31-33%), ma rimane di gran lunga il primo partito. E alla fine Salvini, ora apparentemente sconfitto, potrebbe rientrare a sorpresa dalla finestra. Proprio come la cara vecchia Brooke Logan. 


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