Sono morte in mare 117 persone che avremmo potuto salvare. È solo questo il punto, il resto non conta. Ammettiamo pure che l’Italia non avesse l’obbligo di legge d’intervenire (e ce l’aveva). Ammettiamo che esistesse una Guardia Costiera libica in grado di operare al posto nostro (e non c’era). Ammettiamo che tutte le Ong siano delle associazioni a delinquere da combattere al pari degli scafisti (e non lo sono). Ammettiamo che su quella nave ci fossero solo assassini e stupratori smaniosi di venire a delinquere in Italia (e non era così). Ammettiamo che tutto quello che dice Salvini sia vero (ed è un gigantesco ammasso di bugie).

 

Anche così, la questione non cambia. Potevamo scegliere se salvare 120 persone oppure rimanere fermi: siamo rimasti fermi e 117 sventurati sono morti in acqua.

 

L’inazione non è il contrario dell’azione, ma una scelta, e come tale implica delle responsabilità. Chi ha il potere di salvare qualcuno e decide di non farlo diventa automaticamente corresponsabile di quella morte, a prescindere da tutto il resto. È un’ovvietà, come dire che la vita umana è un valore assoluto da anteporre a qualsiasi interesse politico, strategico, legale o propagandistico.

 

Purtroppo, queste considerazioni apparentemente così banali non sono condivise dal ministro dell’Interno. Impermeabile a qualsiasi principio di empatia e di umanità, Matteo Salvini ha dimostrato tutto il cinismo di cui è capace: “Sarà una coincidenza - ha detto il leader leghista subito dopo la strage - che da tre giorni c'è una nave di una Ong, proprietà olandese, equipaggio tedesco, che gira davanti alle coste della Libia? Ed è un caso che in questi giorni gli scafisti tornano a far partire barchini, barconi e gommoni mezzi sgonfi che poi affondano e poi si contano i morti e i feriti?”.

 

Lasciamo stare i dubbi sulla fondatezza di queste insinuazioni, che come sempre non sono suffragate da alcuna prova. Facciamo finta che abbia ragione Salvini, che le sue parole siano distillati di verità marchiati a fuoco nel granito. Ma cosa c’entra tutto questo con la vita delle persone su quella barca?

 

“Io non sono stato, non sono e non sarò mai complice dei trafficanti di esseri umani, che con i loro guadagni investono in ARMI e DROGA, e delle Ong che non rispettano regole e ordini - ha aggiunto il ministro via social - e quanto a certi sindaci e governatori di PD e sinistra anziché denunciare la presunta violazione dei ‘diritti dei clandestini’, dovrebbero occuparsi del lavoro e del benessere dei loro cittadini, visto che sono gli italiani a pagare loro lo stipendio”.

 

Siamo all’assurdo, al delirio. Nella logica perversa del fascio-leghismo, salvare 117 persone dall’annegamento non sarebbe stato un gesto di umanità elementare, ma addirittura un atto criminoso, perché avrebbe realizzato i progetti di scafisti e Ong. Come se prendere le distanze dai trafficanti di persone fosse più importante che salvarle, le persone. Come se la morte di 117 esseri umani fosse un prezzo accettabile da pagare pur di non cedere ai ricatti dei libici e impartire loro una lezione.

 

Senza contare che con quegli stessi libici trafficanti di uomini e donne l’Italia è già scesa a patti ai tempi di Minniti - accordi mai rinnegati da Salvini - garantendosi anni di tregua sul fronte degli sbarchi (con buona pace della narrazione leghista) e affollando a dismisura i campi di concentramento costruiti nel paese nordafricano. Ora, se i barconi ricominciano a partire, può voler dire solo una cosa: che i libici vogliono alzare il prezzo.  

 

Da qualsiasi angolazione si veda il problema, come direbbe il poeta, per quanto noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

Un indecoroso scalpitare di nuovi Fregoli improvvisatisi ministri, con sullo sfondo il circo mediatico, come sempre pronto ad accarezzare lo spettacolo che c’è e quando non c’è ad inventarlo, ha suggellato la cattura e l’arrivo in Italia di Cesare Battisti, latitante da 37 anni. Le scene dei Salvini e dei Buonafede non stupiscono, sebbene risultino ripugnanti per cinismo politicante.

 

Tentare d’intestarsi qualcosa della quale non hanno merito, trasformare in propaganda elettorale una operazione di polizia mentre il loro governo si caratterizza per il massimo livello di docilità verso la criminalità organizzata, è offensivo e paradossale per tutti prima che contrario alle norme del galateo istituzionale. Purtroppo, com’è noto, la cultura politica dei due può essere scritta agevolmente sul retro di un francobollo e il fatto che oggi si trovino nel ruolo di ministri della Repubblica, certifica più di qualunque analisi il livello comatoso della politica italiana.

Più di 30mila? Meno di 20mila? Che fossero una platea da Woodstock o da riunione di condominio, gli italiani scesi in piazza sabato in favore del Tav erano senza dubbio molti meno di quelli che negli ultimi anni si sono sgolati contro la grande opera più inutile, costosa e distruttiva mai progettata in Italia dopo il Ponte sullo Stretto.

 

Ma il balletto dei numeri lascia il tempo che trova. Mai come stavolta, infatti, più che la quantità dei dimostranti conta la loro qualità. Difficile ricordare una manifestazione della società civile con una presenza di politici più ampia e più bipartisan: dal duo inseparabile piddini-forzisti, nostalgici del Patto del Nazareno, fino ai leghisti, passando per Fratelli d’Italia.

 

Ora, è piuttosto kafkiano che un partito di governo, quello di Matteo Salvini, scenda in piazza per avanzare una richiesta al governo medesimo. Il problema del Carroccio è che si ritrova a governare con il Movimento 5 Stelle, da sempre ostile alla Tav e già in subbuglio per essersi dovuto calare le braghe sul Tap (l’infrastruttura che porterà il gas azero in Europa approdando vicino Lecce e che, malgrado gli schiamazzi pentastellati, alla fine si farà).

 

La Torino-Lione rischia perciò di trasformarsi nella dimostrazione più plastica della schizofrenia su cui si fonda il governo gialloverde. Portatori di interessi contrapposti - Nord contro Sud, anziani contro giovani, imprenditori contro disoccupati - Lega e M5S non potranno mai trovare un punto di caduta sulla direzione da imprimere alla strategia per lo sviluppo infrastrutturale del Paese.

 

Su una materia del genere il compromesso è impossibile. Si può dare un colpo al cerchio e uno alla botte con abomini tipo il decreto sicurezza o il reddito di cittadinanza, su cui ciascuna delle due parti acconsente a chiudere un occhio per tenere in piedi la baracca governativa. Ma quando si arriva alla Tav non c’è artificio retorico di Rocco Casalino che tenga: la montagna o la buchi oppure no.

 

Del resto, questa contraddizione era chiara fin dai tempi del contratto di governo: «Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione - si legge nel Sacro Testo - ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Cosa questo significhi non è ancora chiaro.

 

Di fatti, una parte del governo, la Lega, ha già scelto da che parte stare, mentre l’altra, il M5S, si nasconde dietro l’ennesima analisi del rapporto costi-benefici. Uno studio inutile ancor più dell’opera in oggetto - ce n’erano già un’infinità - e che si spiega solo in una logica politica. Non c’è dubbio infatti che l’analisi avrà esito negativo, offrendo al ministro ToninUlla una pezza d’appoggio con cui giustificare il Gran Rifiuto.

 

A quel punto, però, c’è il rischio che Salvini aumenti il pressing per un referendum su base nazionale, che non avrebbe ovviamente alcun senso pratico (andrebbe fatto, semmai, su base regionale) ma metterebbe spalle al muro i pentastellati, che si troverebbero di fronte al più scomodo dei bivi. Da una parte la possibilità di essere sconfessati dal Paese alle urne, dall’altra quella di passare per gli antidemocratici che rifiutano di ascoltare l’opinione dei cittadini. Proprio loro, gli auto-proclamati alfieri della democrazia diretta.

 

Come uscirne? Se non vuole rischiare di far cadere il governo, il Movimento 5 Stelle potrebbe optare per il male minore: una revisione del progetto Tav, con ridimensionamento di opera e costi. Su questo argomento, entro la fine della settimana, andrà in scena molto probabilmente l’ennesimo vertice di maggioranza a Palazzo Chigi. Ma c’è da giurare che non sarà risolutivo. Sul treno dei desideri la posta in gioco è troppo alta.

“Reagite, ribellatevi, la misura è colma”. Con queste parole Matteo Salvini esortava i sindaci italiani a non rispettare una legge da lui ritenuta ingiusta. Era l’ottobre del 2016 e la legge in questione era quella sulle unioni civili. Ora che è arrivato al governo e ha varato una legge davvero ingiusta - il decreto sicurezza - Salvini si riscopre legalitario e minaccia di persecuzione i sindaci disobbedienti, che sono tanti e rappresentano molte delle più grandi città italiane: da Palermo a Napoli, da Firenze a Milano.

 

In questa vicenda, però, la rivolta dei sindaci fa la parte del dito che indica la luna. Il punto non è la legittimità della disobbedienza civile dei primi cittadini, ma la vera natura del decreto sicurezza. Un provvedimento disumano dal punto di vista etico (ma di questo è meglio non parlare per non essere etichettati come “buonisti”) e fallimentare in termini pratici, perché non garantirà alcun surplus di sicurezza: anzi, produrrà l’effetto opposto, aumentando di molto l’insicurezza.

Nel lungo cammino dalla campagna elettorale alla realtà, prosegue la metamorfosi del reddito di cittadinanza. Il decreto che alzerà il velo sulla misura bandiera del Movimento 5 Stelle è atteso per gennaio, ma, secondo le ultime indiscrezioni, dalla bozza del provvedimento è saltato un passaggio ritenuto cruciale fino a poco tempo fa.

 

Lo schema di base resta immutato: chi percepirà il reddito di cittadinanza riceverà tre offerte di lavoro e se le rifiuterà tutte perderà il diritto al sussidio. Nel disegno di legge originario, però, c’era scritto anche che ogni offerta di lavoro doveva essere “congrua”, ossia “attinente alle competenze segnalate dal beneficiario”, con “retribuzione oraria uguale o superiore all’80% rispetto alle mansioni di provenienza” e soprattutto in un “luogo di lavoro situato nel raggio di 50 chilometri” da casa.


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