Dopo la Tav, arriva un altro tema ad alzare la tensione nella maggioranza gialloverde. La nuova faglia tra Lega e Movimento 5 Stelle si è aperta intorno all’accordo che l’Italia firmerà con la Cina durante la visita a Roma del presidente Xi Jinping, in calendario dal 21 al 23 marzo.

 

L’intesa riguarda la cosiddetta “Nuova via della seta” (o “Belt & Road Initiative”), il gigantesco progetto lanciato da Pechino nel 2013 per creare una rete d’infrastrutture fra Estremo Oriente, Europa e Africa Orientale. Il fulcro della nuova architettura sarebbe naturalmente la Cina, che quindi, a suon d’investimenti - sono già stati stanziati 100 miliardi - finirebbe col ridefinire il sistema di rapporti economici e geopolitici a livello globale.

 

Nemmeno a dirlo, il progetto è inviso agli Stati Uniti, il cui ruolo su scala planetaria rischia di uscire drammaticamente ridimensionato.

 

La Commissione europea è più salomonica: non vuole compromettere la possibilità di redditizi accordi economici con i cinesi, ma al tempo stesso non può permettersi d’irrigidire i rapporti con gli Usa, già tesi più che mai sul versante commerciale. La settimana scorsa Bruxelles ha ricordato che Pechino è un “partner” dell'Ue, ma anche un “concorrente economico” e un “rivale sistemico”, per questo serve “piena unità” tra i Paesi europei.

 

L’avvertimento dell’Esecutivo comunitario era chiaramente indirizzato all’Italia, che sta per diventare il primo Paese del G7 ad appoggiare formalmente l’espansionismo cinese. In questo modo, secondo il Financial Times, si rischia di compromettere la pressione degli Stati Uniti nei confronti della Cina sui dazi e di danneggiare il tentativo di Bruxelles di trovare un percorso comune nell’Ue per gestire gli investimenti cinesi.

 

Il ministro del Tesoro, Giovanni Tria, ha cercato di minimizzare la faccenda, parlando di “tempesta in un bicchiere d’acqua”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha assicurato invece che l’adesione dell’Italia al progetto della Via della Seta avverrà “con tutte le cautele”. In precedenza il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva paventato il rischio di una “colonizzazione” cinese dell’Italia, improvvisandosi baluardo della collocazione atlantica sullo scacchiere globale.

 

Di Maio non ha voluto essere da meno: “Gli Usa non hanno ragione di preoccuparsi, restano il nostro principale alleato - ha detto il leader pentastellato - ma se Trump diceva America First, io dico Italia First. Vogliamo tutelare gli interessi dei nostri imprenditori ed esportare il Made in Italy nel mondo”.

 

Alla fine, dopo l’ennesimo vertice a Palazzo Chigi, il Governo ha comunicato di aver risanato le fratture sugli accordi con Pechino. Il vero problema è che nessuno ha ancora capito cosa ci sarà scritto nel memorandum of understanding che Conte firmerà con Xi Jinping. È probabile che si tratterà di un accordo quadro, infarcito più di buone intenzioni che di impegni concreti. Sarà quindi un’intesa di natura politica e per i dettagli bisognerà attendere martedì, quando Conte, nel corso dell’informativa sul Consiglio europeo, dovrebbe riferire alla Camera le intenzioni del governo con la Cina.

 

Oltre alle affermazioni ufficiali, non è però difficile prevedere che la visita del leader cinese a Roma sarà anche l’occasione di stringere contatti informali funzionali a partnership future, considerato che Xi Jinping arriverà accompagnato da uno stuolo di imprenditori.

 

Il capitolo più delicato è quello delle telecomunicazioni: la prima bozza di accordo conteneva una sezione tlc (scritta da Pechino), che però è scomparsa dalle versioni successive. Quasi certamente hanno pesato le pressioni di Washington, impegnata in una battaglia senza quartiere contro il colosso cinese Huawei, principale concorrente dei giganti Usa nella corsa al 5G.

 

Ma al di là dei dettagli, al momento a preoccupare di più è la leggerezza con cui diversi esponenti del governo parlano del progetto di accordo con la Cina. La sensazione è che la maggior parte di loro non si renda pienamente conto delle implicazioni geopolitiche di questa storia. 

Come su Ilva, Tap e variante di valico, anche sulla Tav il vincitore è Matteo Salvini. In piena coerenza con leggi e accordi internazionali, partono oggi i bandi di gara per la linea ad alta velocità Torino-Lione. Le barricate e i rinvii promessi dal Movimento 5 Stelle sono rimasti nel regno della fantasia: se negli ultimi mesi Luigi Di Maio non si fosse minimamente occupato di Tav, la procedura sarebbe partita esattamente nel modo in cui è partita oggi.

 

Come si spiega allora la pantomima su giornali e tv? Puro maquillage politico per tenere in piedi quel che resta della maggioranza almeno fino alle elezioni europee. È per questo che Di Maio mette in scena un’esultanza da commediante (“abbiamo guadagnato sei mesi”) e Salvini evita di sbugiardarlo (“non ha vinto nessuno”).

In realtà, la procedura avviata oggi è esattamente quella suggerita da Telt – la società italo-francese che realizza l’opera – nella lettera del 18 dicembre in cui spiegava come evitare di perdere i finanziamenti europei.

 

Le leggi francesi prevedono che tutti gli appalti inizino con una fase di sei mesi durante i quali il committente sonda la disponibilità delle varie aziende a partecipare alla gara. Telt, che è una società di diritto francese, comincerà a fare esattamente questo. Peraltro, i bandi in questione riguardano soltanto i 45 chilometri della galleria a doppia canna da scavare sul versante francese del tunnel di base. Quelli da un miliardo per la parte italiana dovranno essere lanciati a giugno con la stessa procedura.

 

Fin qui, insomma, la tabella di marcia prevista per la Tav è stata rispettata come da accordi. E non poteva essere altrimenti, perché in caso contrario non sarebbe arrivata la prossima tranche da 300 milioni dei finanziamenti europei (che al momento coprono il 40% dei costi).

 

I Cinque Stelle assicurano che il progetto sarà “integralmente rivisto” e che si faranno “valere in Parlamento”, ma è un bluff scoperto. Da solo, il Movimento non ha il potere di modificare per legge il trattato che regola la Tav. Per farlo gli servirebbe un nuovo accordo con la Francia o perlomeno una maggioranza parlamentare favorevole allo strappo. E nessuno dei due scenari ha qualcosa in comune con il mondo reale.

 

L’unico dato politicamente rilevante di tutta questa storia è che le decisioni vere sulla Tav - quelle operative - si prenderanno dopo le elezioni europee. Nelle prossime settimane la Lega avrà così il tempo di portare a casa la legge sulla legittima difesa e il no all’autorizzazione a procedere contro Salvini. Il Movimento 5 Stelle, invece, proverà ad appuntarsi al petto la coccarda del salario minimo, sperando che questo successo – insieme ai primi soldi in arrivo con il reddito di cittadinanza – gli permetta di recuperare in parte il terreno perduto.

 

Se però i sondaggi attuali saranno confermati, il voto di maggio certificherà che i rapporti di forza fra Lega e M5S si sono invertiti anche sul piano elettorale. A quel punto, con il Carroccio primo partito, Conte non avrà più alcun appiglio per fermare la Tav. Di Maio, invece, potrà scegliere fra due alternative: far cadere il governo (poco probabile, vista la disponibilità dei grillini al compromesso pur di conservare il seggio) oppure piegarsi e presentare l’opera che sarà realizzata come una “mini Tav”. In fondo, “tirare a campare è meglio che tirare le cuoia”. Nella Terza Repubblica come nella Prima.

“Siamo oltre 250mila persone”, dicono gli organizzatori. Sui numeri esatti c’è il solito balletto di opinioni divergenti, ma stavolta nessuno può contestare che in strada sia scesa davvero una marea umana. Quella che, a Milano, ha dato vita alla manifestazione contro il razzismo “People, prima le persone”. Si tratta di “una grande iniziativa pubblica - si legge nell’appello collettivo - per dire che vogliamo un mondo che metta al centro le persone. La politica della paura e la cultura della discriminazione viene sistematicamente perseguita per alimentare l'odio e creare cittadini e cittadine di serie A e di serie B. Per noi, invece, il nemico è la diseguaglianza, lo sfruttamento, la condizione di precarietà”.

Stanno per concludersi le audizioni sul ddl Pillon sull’affido condiviso e sulla cosiddetta “bigenitorialità perfetta”: un testo infarcito di tesi sbagliate, pericolose, che non difendono in alcun modo l“interesse superiore del minore” ma sono una vera crociata contro le donne. Una follia misogina.

 

Professioniste del diritto e anche figure educative e sanitarie che conoscono i problemi dello sviluppo dei minori, hanno ampiamente criticato l’articolato che prevede: la mediazione obbligatoria  a pagamento, anche nei casi di violenza domestica (vietata dalla Convenzione di Istanbul in quanto la violenza non è un conflitto ma un reato); l’obbligatorietà dell’affido condiviso rigidamente normato con parameri standard, con l’obbligo per i genitori di sottoscrivere un “piano genitoriale”, con  tempi paritetici di frequentazione dei figli; il mantenimento diretto e la cancellazione dell’assegno di mantenimento (mentre i processi penali per mancato pagamento dell’assegno sono aumentati del 20 per cento negli ultimi cinque anni);  l’obbligo per chi mantiene la casa familiare di versare un canone d’affitto “di mercato”.

Cos’hanno in comune il reddito di cittadinanza e le commedie sexy all’italiana? Oltre a Lino Banfi quale nume tutelare, da qualche giorno i due universi condividono un possibile esito comico. Tutto comincia con una scoperta. Dopo averci riflettuto bene, la Lega ha realizzato che il sussidio pentastellato potrebbe indurre gli italiani a truffare lo Stato in un modo particolarmente difficile da smascherare. Cioè divorziando o separandosi per finta.

 

In sostanza, una coppia felicemente sposata potrebbe mettere fine al matrimonio solo per incassare due redditi di cittadinanza da single anziché uno da famiglia (la differenza vale alcune centinaia di euro al mese). Oppure, ancora peggio, la messinscena potrebbe garantire il sussidio a chi non ne avrebbe diritto, perché il suo Isee familiare eccede la soglia prevista dalla legge.


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