A meno che non abbiano segretamente scoperto un giacimento di gas sotto Milano e uno di petrolio sotto Avellino, Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno accettato di far scattare gli aumenti dell’Iva. Non lo ammetteranno mai: anzi, in vista delle elezioni europee, continueranno a ripetere il contrario. Ma la verità è che per non far salire l’imposta sui consumi l’Italia dovrebbe trovare più di 50 miliardi di euro fra il 2020 e il 2021. Come dire l’equivalente di due manovre finanziarie da destinare solo al capitolo Iva. Una follia.

 

È probabile che i due vicepremier puntino molto (forse troppo) sul voto di maggio. In caso di trionfo paneuropeo dei nazionalisti-sovranisti, dalla prossima primavera la Commissione europea sarebbe guidata da personaggi ben diversi da Jean Claude Juncker. E in questo ipotetico scenario Di Maio e Salvini sperano di ritagliarsi uno spazio di trattativa più ampio, fino a spuntare un’indulgenza mai vista prima sullo sforamento dei conti. Solo così si potrebbe sperare di non toccare l’Iva.

 

Purtroppo, però, non sembra uno scenario realistico. In primo luogo perché i partiti sovranisti potrebbero ottenere un buon risultato, ma difficilmente si affermeranno come forze maggioritarie nei paesi chiave dell’Unione. E poi perché, comunque, gli Stati dove i nazionalisti sono più forti hanno già dimostrato di non essere affatto dalla parte dell’Italia. Il blocco di Visegrad ha scaricato Salvini sul tema dell’immigrazione, mentre l’Austria è anche fra i censori della nostra allegria di bilancio.

 

Quando questa strategia kamikaze fallirà, è molto probabile che i due vicepremier cercheranno di far ricadere la responsabilità su chi li ha preceduti. Salvini ha già cominciato, parlando della minaccia dell’Iva come di un “regalino ricevuto in eredità dai governi precedenti”. Su questo non ha torto, visto che le clausole di salvaguardia furono introdotte dal governo Berlusconi nel 2011, per poi essere di volta in volta sterilizzate a suon di miliardi e rinviate all’anno successivo.

 

Il problema è che, diversamente da quanto avvenuto finora, il governo gialloverde non si è limitato a cancellare il pericolo imminente facendo slittare la questione di 12 mesi. Ha anche aumentato (e di tanto) l’entità delle clausole, cioè gli importi che l’Italia dovrà mettere insieme per disinnescare gli aumenti Iva: la somma è passata da 13,7 a 23,1 miliardi per il 2020 e da 15,6 a 28,7 miliardi per il 2021.

 

Il conto finale è di 51,8 miliardi. Se non troveremo questi soldi, l’aliquota ridotta dell’Iva passerà dal 10 al 13% nel 2020, mentre quella ordinaria, oggi al 22%, salirà al 25,2% nel 2020 e al 26,5% nel 2021. A ben vedere, con la nuova legge di bilancio sono aumentate anche queste percentuali, visto che la manovra dell’anno scorso prevedeva un incremento dell’aliquota ordinaria al 24,9% nel 2020 e al 25% nel 2021.

 

Di fronte a numeri simili è complicato non allarmarsi, anche perché l’Iva è un’imposta sui consumi e pesa in modo particolarmente significativo sulle fasce più deboli della popolazione. Un suo ulteriore aumento non potrebbe che avere effetti recessivi, soprattutto in una congiuntura debole come quella che stiamo attraversando, in cui la crescita - già debole - non fa che rallentare.

 

Anche per questo lascia perplessi la posizione del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha cercato di rassicurare sulla possibilità di sfuggire alla stangata anche negli anni a venire: “Con una crescita robusta e l'abbassamento dello spread - ha detto - libereremo molte risorse”. Curioso che il Premier parli di “crescita robusta” subito dopo aver firmato un abbassamento delle previsioni sul Pil 2019 dal +1,5 al +1% (stima che, peraltro, molti analisti considerano ancora troppo ottimista). Bizzarra anche la chiosa del ragionamento, visto che a questo punto le risorse di cui abbiamo bisogno per uscire dalle sabbie mobili dell’Iva non sono più molte. Sono troppe.

Mentre a Bruxelles si cerca di capitolare nel modo più dignitoso possibile, a Roma si affilano i coltelli. Nella maggioranza gialloverde la tensione continua a salire e la prospettiva di un governo di legislatura appare sempre più inverosimile. Per il momento, lo scontro si articola su due fronti.

 

Il primo è quello parlamentare. Nell’ultimo miglio di questa manovra del cambiamento-pentito, leghisti e pentastellati sono impegnati in una guerra di nervi. In commissione Bilancio al Senato, il Carroccio ha presentato una serie di emendamenti che sembrano pensati per far venire l’ulcera ai grillini.

Si fa fatica ad abituarsi alle quotidiane smargiassate di Salvini. La sua attività alla guida del Viminale, dopo diversi mesi, non presenta successi rivendicabili, data la sua assoluta indifferenza nei confronti della criminalità organizzata; ma,fin qui, poco da dire. Il lavoro di Salvini è il dichiaratore, una nuova figura professionale la cui attività consiste nella divulgazione di pensierini banali e bugie elaborate, mix che viene spacciato ai meno svegli come programma politico. Del resto la speculazione è allo stesso tempo genesi e scopo della sua missione politica.

Ci dev’essere qualcosa di magico nel portone del ministero della Famiglia. Sarà uno Star-Gate, un portale interdimensionale, qualcosa di simile. Fatto sta che chi lo attraversa si ritrova catapultato nel Concilio di Trento, a metà del XVI secolo, e inizia a ragionare come un teorico della Controriforma. Non si spiega altrimenti il fervorino millenarista con cui Cristiano Ceresani, capo di gabinetto del suddetto dicastero, ci ha deliziato durante una puntata di Uno Mattina.

Mancano ancora 4 miliardi e mezzo per risolvere il rebus della manovra. La trattativa che l’Italia sta portando avanti con la Commissione europea per evitare di subire una procedura d’infrazione va avanti a singhiozzi. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il numero uno del Tesoro, Giovanni Tria, smaniano per arrivare a un compromesso, anche perché in questa direzione preme Confindustria.

 

A zavorrare il negoziato c’è però l’incertezza sulle intenzioni dei due vicepremier: Matteo Salvini e Luigi Di Maio si rendono conto che schivare la procedura sarebbe anche nel loro interesse, ma al contempo fanno di tutto per cedere il meno possibile. Il leader leghista a difesa delle risorse per la controriforma delle pensioni, il capo grillino in trincea per il reddito di cittadinanza. Risultato: Conte non sa quasi mai con certezza cosa rispondere alle proposte di Bruxelles. E a ogni giro di giostra occorre sondare la disponibilità dei due veri capi del Governo.

 

In realtà, la soluzione del rebus non sembra più impossibile come qualche settimana fa. Non solo perché Di Maio e Salvini hanno smesso di considerare il deficit-Pil 2019 al 2,4% come una soglia intoccabile, ma anche perché dall’Europa è arrivata un’apertura. Regole alla mano, per fare il suo dovere l’Italia dovrebbe mantenere il disavanzo dell’anno prossimo entro l’1,6% del Pil, che corrisponde a un calo del deficit strutturale (al netto cioè del ciclo economico e delle misure una tantum) pari allo 0,1% del Pil. In questo modo il debito pubblico scenderebbe, anche se di poco (questa correzione comprende già uno sconto di circa 9 miliardi rispetto a quello che le norme europee dure e pure prevedrebbero per un Paese indebitato come l’Italia).


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