di Mariavittoria Orsolato

Il famoso corridoio 5 non esiste più. Quella linea orizzontale di infrastrutture che avrebbe dovuto unire l'Europa da est a ovest - prima da Lisbona a Kiev e poi da Lisbona a Budapest - ha perso uno dei due capolinea: il Portogallo ha fatto due conti e, dati i tempi di vacche magre, ha deciso che la TAV non si farà.

opo che la Corte dei Conti lusitana ha annullato il contratto per la realizzazione della tratta principale del progetto di Alta Velocità fra Lisbona e Madrid, lo scorso giovedì il governo del conservatore Pedro Passos Coelho ha annunciato in un comunicato l'abbandono definitivo del progetto. Non solo perché costa troppo ma anche per l'intricata ragnatela di irregolarità e corruzione che si era avviluppata attorno al sistema degli appalti.

Posto che probabilmente la TAV sarebbe costata meno in Portogallo, il problema della sostenibilità dei costi per l'Alta Velocità è lo stesso anche per il nostro paese. In Italia il progetto ha avuto il benestare del gotha tecnico e, nonostante numerosissimi documenti ed evidenze attestino la non fattibilità (soprattutto a livello di spesa) della grande opera, a livello istituzionale si è deciso di andare avanti perché, come si legge nell'ask&tell sulla TAV prodotto dalla presidenza del Consiglio, “le occasioni di confronto ci sono state” e perchè in fondo il progetto è stato più volte modificato, ridimensionando anche la spesa.

Il progetto originale del 1991 prevedeva infatti 25 miliardi circa di costo totale ma nel 2007 il dossier presentato all'Unione Europea indicava per la parte comune italo-francese, poco più di 35 kilometri, un costo complessivo di circa 14 miliardi. Il 63%, di questa cifra rimaneva comunque a carico dell’Italia e corrisponde a 8,8 miliardi che, sommati ai 2 miliardi di euro di opere tecnologiche preventivate, faceva salire il totale a 10,8 miliardi di euro. Obiettivamente troppo, soprattutto nella misura in cui i cugini d'oltralpe avrebbero pagato poco più di un decimo delle spese.

Anche grazie alle vibranti proteste del movimento No Tav si è giunti quest'anno alla cosiddetta “TAV low cost”, terza versione del progetto per unire Torino e Lione che prevede di dividere i lavori in fasi temporalmente distinte. Il 30 gennaio, infatti, il ministro delle Infrastrutture francese Thierry Mariani e il viceministro italiano dei Trasporti Mario Ciaccia hanno sottoscritto l'accordo che dà il via libera alla realizzazione del treno ad alta velocità per fasi.

I cantieri dovrebbero partire nel gennaio 2013 a Saint Martin de la Porte: si partirebbe con la sola galleria di base, per ridurre drasticamente le pendenze da superare, completando la linea solo nel momento in cui si dovesse constatare una reale crescita del traffico. Da Chambery a Lione, i francesi costruiranno poi la loro tratta ferroviaria ad alta velocità, ma è un progetto tutto interno a quel paese e, dato che anche oltralpe i malumori riguardo la TAV cominciano a farsi sentire, non è detto che la grande opera vedrà la luce così facilmente.

Tornando ai numeri della “TAV low cost”, i costi del progetto che interessa l’Italia di fatto sarebbero solo quelli della sezione transfrontaliera della tratta internazionale, che è poi l’unica che l’Europa forse contribuirà a finanziare. Premesso che le cifre esatte sono difficilmente identificabili a causa della naturale lievitazione dei preventivi, con le modifiche apportate di recente la messa in opera della nuova linea dovrebbe venire a costare circa 8 miliardi. Se l’Europa ne mette due, alla Francia ne toccheranno due e mezzo, e all’Italia tre e mezzo.

Certo un bel risparmio rispetto all'esborso preventivato dal progetto originale, ma solo se non si tiene di alcuni importanti fattori: 1) con la diminuzione dei costi, diminuiscono anche gli eventuali benefici dell'opera; 2) pur avendo ridotto la tratta, la parte più onerosa spetta comunque all'Italia 3) se la linea sarà completata solo nel caso in cui le previsioni di traffico si realizzino - quindi, probabilmente mai - allora il tunnel da 57 kilometri è del tutto superfluo.

Secondo un calcolo dell'economista Marco Ponti e dell'ingegner Andrea Debernardi, il cambio di rotta sembrerebbe, almeno sulla carta, un’ottima decisione ma dal momento che il nuovo progetto si basa su calcoli non ufficiali, ancora non presentati all’opinione pubblica ed agli addetti ai lavori, la posizione dell'esecutivi pare quantomeno discutibile. Soprattutto perchè questa “retromarcia” sul progetto indica che sin dall'inizio si sarebbe potuto agire diversamente e spendendo meno. Ma tant'è.

Quello che invece inciderà sul bilancio per la TAV sarà sicuramente la nota di spesa che riguarda le forze dell'ordine. Costruire una grande opera contro la volontà di una popolazione può avere degli oneri che è interessante calcolare: in Valle di Susa sono stati mobilitati circa 2.000 poliziotti, per lo sgombero della Maddalena di Chiomonte. Ogni otto ore gli agenti in forza devono fare il cambio turno, con spostamento di mezzi, masserizie, costi di occupazione di alberghi e altri aspetti logistici.

Il costo lordo orario di un poliziotto in trasferta non è ovviamente fisso è possibile fissare una media sui 30 euro circa all’ora (comprensivi degli oneri sopracitati), stima decisamente al ribasso. Trenta euro moltiplicati per 2.000 poliziotti vogliono dire 60.000 euro all’ora. Per le 24 ore diventano 1milione 440 mila euro al giorno, al mese il costo diventa di oltre 43 milioni di euro mentre all'anno parliamo di oltre mezzo miliardo di euro.

L’attuale dispiegamento di forze serve a difendere il non-cantiere di Chiomonte dove dovrebbero cominciare i lavori di scavo del tunnel geognostico. Immaginate che cosa vorrebbe dire presidiare contemporaneamente decine di cantieri: il numero di uomini, mezzi, complessità logistica e ovviamente i costi sono perlomeno da triplicare.

Sono cifre che se moltiplicate per gli anni necessari all'effettiva messa in opera della linea ferroviaria diventano realmente insostenibili. Allo stato attuale delle cose, lo Stato italiano non ha certo le risorse per contrapporsi alla resistenza pacifica ma sempre tempestiva della popolazione della Val di Susa e del movimento No Tav che ormai ha valicato i confini della valle e ha mobilitato migliaia di persone lungo tutta la penisola. Ed è proprio questo il costo che più degli altri dovrebbe interessare a Monti e ai suoi ministri.

 

di Fabrizio Casari

Con la consueta voce metallica e il solito tono arrogante, il professor Monti ha archiviato le lacrime di circostanza della Fornero, dimenticato le promesse di equità e smarrito le chiacchiere sulla crescita, mostrando finalmente cosa intende per riforma del mercato del lavoro. Quello che propone, in sostanza, non si differenzia da quanto proponeva il governo Berlusconi tramite il pessimo Sacconi.

Il fine era - ed é rimasto - l’azzeramento dell’articolo 18 che impediva i licenziamenti arbitrari e immotivati, per poter rendere così i diritti dei lavoratori un elemento monetizzabile con pochi spiccioli. La storiella secondo la quale verranno incentivati i contratti a tempo indeterminato a danno di quelli a tempo determinato, è fumo negli occhi: si potrà anche assumere a tempo indeterminato se tanto licenziare é semplicissimo. E per quanto riguarda la decisione del giudice in caso di licenziamento disciplinare contestato dal lavoratore, non c'é niente niente di nuovo, è già così.

Nel disegno di legge del governo non c’è nessuna proposta di riforma del mercato, ma solo la ricerca dell’abbattimento del valore sociale del lavoro tramite l’espulsione dei diritti dei lavoratori dall’ordinamento giuslavorista del nostro paese. Altro che Germania: l’orizzonte del governo è la Grecia. La riformetta della ministra dovrà ora passare al vaglio del Parlamento, che farà qualche ammuina tramite emendamenti poco convinti e per nulla sostenuti con i quali forse alcuni riterranno di salvare la faccia.

Oltre che salvaguardare le imprese e i grandi gruppi finanziari che le controllano (e che, soprattutto, controllano il governo), il fine dell’esecutivo è evidente: intervenire ulteriormente sui salari, attraverso il ricorso ai licenziamenti senza più l’obbligo del reintegro del lavoratore discriminato. Il che permetterà alle aziende assoluta libertà di licenziamento e, con ciò, maggior potere ricattatorio sulle retribuzioni, sui turni e sulle mansioni dei lavoratori. Il fatto che sarà un giudice che dovrà decidere sull’eventuale indennizzo del lavoratore ingiustamente licenziato, non solo non è un deterrente al licenziamento discriminatorio, ma addirittura diverrà un incentivo a licenziare senza problemi.

E’ facile infatti prevedere che il mancato obbligo di reintegro vedrà l’utilizzo massiccio della leva dei licenziamenti; di conseguenza si produrrà un incremnto spaventoso del contenzioso, quindi con tempi ulteriormente più lunghi nei quali le stesse imprese dovranno eventualmente risarcire. Quest’ultimo aspetto non è secondario, tanto è vero che persino la norma che prevedeva la riduzione dei tempi per il giudizio di merito è stata abbandonata, proprio per garantire alle imprese di attendere anni per pagare il dovuto, visto che di reintegro non si parlerà più.

L’obiettivo del governo delle destre, è evidente, è quello di spaccare i sindacati e far implodere il centro-sinistra. La Cisl, come sempre negli ultimi 30 anni, è pronta alla concessione di ogni richiesta padronale. Bonanni, lento nell’eloquio, è rapidissimo a firmare accordi. Del resto la firma degli accordi separati è ormai la dimensione consueta della Cisl e rappresenta la cifra più autentica di un sindacato divenuto cinghia di trasmissione delle imprese.

Il teatrino con il quale fingono di allearsi con gli altri sindacati per trattare con il governo, mentre invece sottobanco trattano la resa, serve solo a ridimensionare in origine le proposte della CGIL in sede di confronto; poi, arrivati al rush finale, si presentano alla stampa dicendo che non firmeranno ed entrano nella sala riunioni dove firmeranno. Un sindacato giallo e filo-padronale, fucina di aspiranti leader politici che mai hanno avuto un ruolo importante nel paese, ma decisivi ad ogni snodo delle relazioni industriali per fiaccare dal di dentro i sindacati. Il vero cavallo di Troja della Confindustria.

Saranno guai, ora, per il PD. Come voterà in Parlamento? Bersani, nello stile che lo contraddistingue, ha immediatamente offerto una dichiarazione decisiva: “Deciderà il Parlamento”. Ma va? Non era ovviamente un’opinione sulle procedure per l’approvazione delle leggi quello che gli si chiedeva, ma forse molto altro non era in grado di dirlo, considerando che una parte del suo partito non lo considera nient’altro che un amministratore del rissoso condominio di Via del Nazareno. Se la foto di Vasto è passata di moda, sostituita da quella con Alfano e Casini, lo vedremo presto.

Il PD rischia davvero tanto: se la CGIL, che ha già indetto la riunione del Direttivo nazionale per valutare le forme e i tempi della mobilitazione, dovesse ingaggiare sul serio uno scontro sociale a tutto campo contro il governo, i vertici del PD entrerebbero davvero in fibrillazione. Votare in Parlamento una legge che umilia i lavoratori, che cancella la parte fondamentale delle loro tutele previste dallo Statuto e che assegna al padronato potere assoluto, riportando l’Italia al tempo degli agrari, costituirebbe uno strappo, forse l’ultimo, con la sua storia, per revisionata che sia.

Il prezzo elettorale da pagare sarebbe elevato e la spaccatura del mondo del lavoro sarebbe niente in confronto alla fine dell’illusione del PD alla prova delle urne. Converrà pensarci bene, perché sostenere un governo di destra, difendere lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori e, contemporaneamente, proporsi come sinistra e chiedere il voto ai lavoratori, manifesterebbe una schizofrenia curabile solo con lo scioglimento anticipato. Non delle Camere, ma del PD.

di Carlo Musilli 

Anche in tempo di tecnici, Sigmund Freud avrebbe di che lavorare nel nostro Parlamento. Stavolta il caso riguardo l'affascinante lapsus del sottosegretario all'Economia, Gianfranco Polillo, e le sue improvvide affermazioni su un emendamento fondamentale al decreto liberalizzazioni. Di fronte alla commissione Bilancio della Camera, il buon Polillo si è lasciato trascinare da chissà quale forza misteriosa e l'ha sparata grossa: il governo - ha detto - si appresta a cancellare la norma che prevede la gratuità dei conti correnti per i pensionati con assegni previdenziali fino a 1.500 euro. Una vera bomba, tanto che sulle prime è venuto da chiedersi come mai una comunicazione così importante sia stata affidata alla bocca di un sottosegretario. Ma il bello doveva ancora venire.

Appena la notizia ha cominciato a circolare, tutti i giornali l'hanno sparata come primo titolo in home page e la polemica è esplosa. Nemmeno il tempo di indignarsi e a caricare le armi contro il "governo dei banchieri", che è arrivata un'affannata smentita. Apparentemente casuale, come la prima affermazione shock, e per bocca di un altro sottosegretario, stavolta allo Sviluppo. "Sulla norma sui conti correnti - ha risposto seccato Claudio De Vincenti ai colleghi che gli chiedevano lumi - il governo ha dato assolutamente parere positivo. Vale ciò che il Parlamento ha deciso". Esattamente il contrario di quanto aveva sostenuto poche ore prima Polillo, secondo cui - in origine - l'Esecutivo sarebbe stato contrario.

Per capire meglio occorre fare un passo indietro. L'emendamento al dl liberalizzazioni su cui si discute ha uno scopo ben preciso: correggere l'ingiustizia determinata da un'altra norma, approvata stavolta con il salva-Italia. Parliamo della misura sulla tracciabilità, che vieta di usare i contanti per i pagamenti superiori ai mille euro, obbligando migliaia di pensionati ad aprire un conto corrente per farsi accreditare l'assegno previdenziale. A tutto vantaggio delle banche, che - se il famoso emendamento sarà abolito - potranno incassare indisturbate le nuove commissioni piovute dal cielo.

A questo punto la vicenda ha assunto le tinte del giallo alla Agatha Christie. Il mistero è diventato più grande degli stessi sottosegretari. Si richiedeva un chiarimento da una voce ben più autorevole. E così è sceso in campo nientemeno che il premier. "Come ha chiarito De Vincenti - ha detto Monti in Parlamento - questa norma non è in discussione". Poi però è arrivata una significativa precisazione. Per quanto riguarda un altro emendamento al dl liberalizzazioni, quello che elimina le commissioni bancarie sulle linee di credito, "se il Parlamento vorrà cambiare la norma - ha aggiunto il Professore - agevoleremo il ritorno alla previgente disciplina da noi proposta nel salva-Italia e da voi approvata nella legge di conversione del decreto".

Qual è stato allora il peccato di Polillo? Il sottosegretario non era davvero in cerca di un quarto d'ora di notorietà: è molto più probabile che abbia semplicemente sbagliato tempistica, mettendo in luce la confusione che regna nel governo quando si parla di banche.

Ma dopo esser stato smentito dal Presidente del Consiglio in persona, ha ampiamente corretto il tiro: ''Non ho mai detto di eliminare la norma. Se un pensionato è costretto ad aprire, per ottemperarvi, un conto presso la banca, è giusto che esso sia esente da oneri, visto che la banca, grazie a quelle disposizioni, vede accrescere la massa di risparmio amministrata. Ma se quel pensionato ha anche altri redditi o proventi è giusto che paghi quanto ogni altro cittadino".

Questa è però solo una delle motivazioni che Polillo aveva dato a suo tempo. In commissione il sottosegretario aveva definito la norma "un notevole danno per le banche" sostenendo che avrebbe potuto addirittura causare "un’ulteriore stretta creditizia, che si riverbererebbe inevitabilmente sulle imprese e sulle famiglie".

La vera partita che si gioca in questi giorni è però quella sulle commissioni bancarie. Il governo e il Parlamento appaiono tutt'altro che restii a cancellare quell'emendamento, ma avrebbero fatto volentieri a meno di sbandierarlo ai quattro venti proprio in questo momento. Non solo siamo nella fase più incandescente della trattativa con le parti sociali per la riforma del lavoro, su cui si punta a chiudere già la prossima settimana.

Rimane ancora da approvare in via definitiva proprio il decreto sulle liberalizzazioni e - neanche a dirlo - ieri il premier si è appellato al "senso di responsabilità" dei deputati, chiedendo di dare il via libera al testo il prima possibile. E per giunta senza nuove modifiche, che allungherebbero troppo i tempi e comunque possono essere comodamente rinviate "a futuri interventi". Insomma, non era davvero il caso di rinvigorire le polemiche sulle banche proprio in questi giorni. Anche perché - lontano dal palcoscenico - la questione si sta risolvendo da sé.

A voler ipotizzare da che parte tiri il vento, sono istruttive le parole di Antonio Patuelli, vicepresidente dell'Abi (l'Associazione bancaria italiana): "Ci sono diverse soluzioni a breve, confidiamo nel dialogo tra Parlamento e governo”, ha detto dopo gli incontri fra l'associazione e i leader di Pdl, Pd e Udc. “Abbiamo verificato – ha proseguito Patuelli - una sensibilità e atteggiamenti comuni a che non vengano complicate le regole alle banche, regole che non esistono in nessuna parte d'Europa". Intanto i vertici dell'Abi, che qualche giorno fa avevano rimesso il mandato in segno di protesta, hanno "congelato" le loro dimissioni. In attesa che il Parlamento si smentisca di nuovo.

 

di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso 2 marzo il Governo ha detto chiaro e tondo che la TAV s'ha da fare ad ogni costo. Contravvenendo al titolo di “tecnico” di cui si effigia, al momento della conferenza stampa Monti non aveva presentato alcuna evidenza a suffragio dell'indispensabilità dell'Alta Velocità/Capacità e si era limitato a ripetere slogan sullo sviluppo e sulla creazione di lavoro per i giovani, promettendo però che i documenti con le ragioni del “si” sarebbero stati presto disponibili.

A distanza di una settimana l'esecutivo ha quindi frettolosamente pubblicato - anche di fronte alle imponenti manifestazioni di dissenso messe in atto dai No Tav - un breve documento di 9 pagine dal titolo “TAV Torino-Lione: Domande e Risposte”. Un imbarazzante ask&tell, evidentemente messo su alla bell'e meglio in mancanza di argomentazioni serie e circostanziate, che buona parte della comunità scientifica definirebbe ridicolo per il solo fatto che manca di fonti e studi verificabili a suo supporto.

Oltre ai dati sulla sostenibilità dell'opera e sulla effettiva utilità per il trasporto di merci e passeggeri (tutti già ampiamente confutati), al punto 5 del documento viene messa nero su bianco la cifra che il Governo dovrà investire in quelli che dovrebbero essere gli indennizzi agli abitanti della Valsusa. “Come segno di attenzione nei confronti delle comunità locali coinvolte dal progetto - si legge in calce al paragrafo - il prossimo CIPE stanziera? 20 milioni di euro, che rappresentano la prima tranche di 300 milioni di euro relativi all’intesa quadro tra Governo nazionale e Regione Piemonte, che dà corpo all’Accordo di Pracatinat. Inoltre, sono previsti 135 milioni di euro di opere compensative per il territorio”.

Nel testo dell'accordo siglato il 28 giugno del 2008 dal famoso Osservatorio (di cui è presidente lo stesso Mario Virano che oggi è commissario di Governo per la Tav) non si accenna minimamente a questi 450 milioni ma si fa riferimento a generiche opere d’implementazione per il trasporto su rotaia di merci e passeggeri.

Per quanto riguarda dati e proposte sugli indennizzi, che giuridicamente spettano ai valsusini a titolo di compensazione per la perdita degli immobili di proprietà e i disagi conseguenti alla messa in opera del cantiere, nulla è stato ancora ufficializzato e, ad oggi, l'unico documento disponibile è quello che RFI ha prodotto nel 2010 per mappare le aree e gli immobili di tredici comuni interessati dal progetto e valutarne gli oneri di esproprio.

Premesso che in Francia hanno deciso di indennizzare tutti gli immobili situati entro 150 metri dalla linea ferroviaria, comprandoli dai proprietari a prezzo di mercato, mentre in Italia invece gli acquisti sono limitati agli edifici da abbattere o immediatamente contigui, è comunque possibile farsi un'idea dell'enorme impatto ambientale e sociale che i lavori della TAV avranno sui territori.

Stando alla documentazione messa assieme dalle Ferrovie dello Stato, l'area complessiva da espropriare si stima attorno a 1.530.000 metri quadri, dei quali 630.000 serviranno a fare spazio al nuovo tracciato ferroviario e 900.000 saranno adibiti ad ospitare le famose opere compensative. A queste aree si devono però aggiungere anche 200.000 metri quadri la cui agibilità verrà fortemente limitata a causa degli scavi nel sottosuolo ed altri 650.000 metri quadri che verranno “temporaneamente” occupati - la stima ottimistica dice per 15 anni, ma si sa che da noi il tempo è relativo - per le esigenze provvisionali.

Ci sono poi altri 1.400.000 metri quadri che verranno utilizzati come deposito per il materiale di risulta degli scavi: queste aree corrispondono alle ex cave utilizzate durante i lavori per l'autostrada Torino-Milano ma, stando sempre al testo di RFI, dal momento che su questi terreni non è stata dichiarata la pubblica utilità non ci sono progetti d'indennizzo né di eventuali interventi pubblici di compensazione.

Tutte le altre aree interessate dai lavori per la TAV sono invece state dichiarate di pubblica utilità e per le sue stime RFI si è basata sul decreto presidenziale 327/200, meglio conosciuto come Testo Unico sulle espropriazioni per pubblica utilità. In particolare il DPR specifica che le somme d'indennizzo devono risultare dalla combinazione di 4 fattori: il valore di mercato, il coacervo delle aree edificabili, il valore agricolo medio del terreno (VAM) e, solo per le aree agricole, le maggiorazioni sul mancato indotto.

Nei criteri di stima delle Ferrovie dello Stato, le aree agricole dovrebbero essere indennizzate in base al solo VAM, le aree urbane edificabili in base al 100% del valore commerciale mentre per quelle edificate verrà corrisposto solo il 10% del valore commerciale. Immediatamente dopo viene specificato che l'indennizzo per i fabbricati abitativi e industriali “fa riferimento al valore commerciale del nuovo desunto da una sommaria indagine in loco e dai valori desunti dalle pubblicazioni si settore differenziati con l'applicazione dei correttivi che considerano l'effettivo stato ed uso” ma se si considera che una proprietà immobile è giocoforza all'interno di un'area urbana edificata - in Italia si costruirà certo ovunque, ma si è pur sempre sotto un comune - è facile individuare la contraddizione.

Se i dati di RFI sono ancora a livello di proiezione è però possibile già da ora figurarsi le esternalità negative che si abbatteranno sul mercato immobiliare della valle, sia che gli immobili vengano espropriati sia che restino ai loro proprietari. La valle di Susa é stata infatti per 40 anni oggetto di cantieri per grandi opere: la diga internazionale del Moncenisio, il raddoppio della ferrovia e dei tunnel ferroviari, il tunnel autostradale e l’autostrada del Frejus, poi l’impianto e la centrale idroelettrica di Pont Ventoux, una delle più grandi d’Italia e il raddoppio del maxi elettrodotto.

Il sovraccarico di opere di attraversamento e di cantieri in aree residenziali produce necessariamente il cosiddetto “effetto Bronx”, dal nome del noto quartiere di New York che, tra le due guerre, è passato da zona urbana con i più ampi parchi della città, a luogo simbolo del degrado. Quando rumori e disturbo superano una certa soglia, la popolazione originaria non accetta più il costo dell’affitto e si sposta, facendosi sostituire da una che accetta il disturbo perchè può pagare di meno. Questo si riflette nella manutenzione ed innesca una spirale che riduce sempre di più la qualità abitativa, facendo crollare parallelamente il valore di mercato degli immobili e dei terreni, a chiaro vantaggio dei promotori egli espropri.

Per adesso dunque non ci è dato sapere quanto verrà corrisposto esattamente ai valsusini espropriati delle loro abitazioni e dei loro terreni. I proprietari dei terreni oggetto dell'ampliamento del cantiere della Maddalena sono stati convocati per l’esecuzione dei decreti di occupazione e per il verbale sulla consistenza dei beni l’11 aprile alle 9. Ma nel frattempo i terreni prospicienti al cantiere sono stati comunque interdetti alla popolazione e agli stessi proprietari.

Come Luca Abbà - il No Tav che per difendere la sua terra si è arrampicato su un traliccio dell'alta tensione ferendosi gravemente - sono in tanti a vivere di quello che produce il loro terreno e tra le reti della TAV sono rimasti impigliati decine di coltivatori diretti a marchio DOP e imprenditori, costretti ad esibire documentazioni e permessi degni del Muro di Berlino, solo per poter calpestare la terra che è di loro proprietà. Di questi costi, squisitamente sociali, il Governo attuale e quelli che l'anno preceduto non si sono minimamente interessati se non nella misura fumosa delle “opere compensative”. Ed è anche per questo che la Torino-Lione rischia seriamente di diventare l'ennesima inutile cattedrale nel deserto.

 

 

di Fabrizio Casari

L’assalto dilettantesco operato dalle SBS britanniche in collaborazione con la polizia nigeriana è costato la vita ai due ostaggi. L’Italia è stata volutamente esclusa dal coordinamento operativo e persino tenuta all’oscuro del blitz. Non erano i nigeriani a doverci informare, ma gli inglesi, dal momento che Roma è alleata di Londra e non di Lagos. Ma i Servizi segreti di Sua Maestà non hanno ritenuto di doverlo fare.

Difficile pensare ad imperizia o a meccanismi di comunicazione venuti meno nella fase convulsa dell’operazione; i britannici, di esperienza sul campo e di attività diplomatica ne sanno più di noi. Ora, il fatto che Londra assegni livelli di credibilità alla polizia nigeriana e non ai Servizi italiani è semplicemente un’iperbole. Non è così e nemmeno avrebbe senso ipotizzarlo. Dunque è legittimo domandarsi il perché di una scelta come quella del Premier Cameron.

Forse si temeva che Roma avrebbe posto il veto al blitz, avendo un suo connazionale come ostaggio e, per ciò stesso, diritto a dare il via libera all’operazione o ad opporvisi? O forse si riteneva che, avendo i Servizi italiani iniziato e portato a buon punto la trattativa con i sequestratori (pare che una parte del riscatto fosse già stato consegnato tramite un intermediario) avrebbero addirittura potuto far fallire un blitz del quale avevano - e con mille ragioni - motivo di dubitare del buon esito? Del resto la polizia nigeriana non ha certo fama di qualità nel lavoro investigativo e dunque le sue indicazioni, da sole, non potevano rappresentare una fonte credibile nel disegnare uno scenario operativo.

Sarà difficile ottenere risposte esaustive, vista la materia e i governi coinvolti. Londra sta abilmente cercando di manipolare i media (decisamente poco convinti dell’operato di Downing street) facendo trapelare informazioni assolutamente finte sulla dinamica degli eventi. Circolano versioni per le quali i sequestratori avrebbero deciso di uccidere gli ostaggi a freddo, quando si erano resi conto dell’imminenza del blitz, ma sembrano piuttosto offrire una via d’uscita all’operato dilettantesco delle Special Boat Service, gli incursori di marina si Londra.

Per non parlare poi della cessione degli ostaggi ad Al-Queda, che non manca mai nelle storie costruite ad hoc per le opinioni pubbliche. L’autopsia sui due poveri ostaggi indica però che il povero ingegner Lamolinara è stato ucciso con quattro colpi di Kalashnikov e ciò, più che ad una esecuzione sommaria (solitamente realizzata tramite un colpo in testa o alla nuca) fa pensare all’esito maledetto di una sparatoria, e solo la perizia balistica potrà affermare se i proiettili che li hanno uccisi provenivano dai sequestratori o, addirittura, da “fuoco amico”.

E comunque, a dimostrare l’imperizia e l’idiozia che hanno governato il blitz, va osservato che anche ammesso che siano stati i sequestratori ad uccidere gli ostaggi, normalmente la scelta tra il far intervenire le teste di cuoio o far prevalere la prudenza e la trattativa è proprio la possibilità che i rapitori decidano di eliminare gli ostaggi, minaccia del resto alla base di ogni sequestro. E dunque, secondo le stravaganti menti dello MI6 , quali sarebbe il comportamento da tenere in casi come questi?

E, stabilita l’imprescindibile, assoluta affidabilità delle fonti che dovrebbero illustrare le condizioni nelle quali si effettua un blitz (che vanno dall’allocazione del rifugio alla posizione degli ostaggi, dal numero dei sequestratori al loro armamento, alla loro determinazione di uccidere alla chiarezza degli ordini impartiti da chi li guida) davvero si poteva ritenere che l’operazione avrebbe avuto un sufficiente margine di successo? Perché la riuscita dell’operazione non si misura dalla morte dei sequestratori, ma dal restare in vita degli ostaggi. Fossero stati parenti del Premier inglese o della Casa Reale si sarebbe agito nello stesso modo?

Ma certo non si può negare che la scelta di Cameron sia stata una scelta politica. Lo è stata sia nel voler indicare la linea di Londra nei sequestri di persona che nella decisione di non informare Roma. Ci si può quindi chiedere legittimamente quale sia la considerazione e il rispetto di cui l’Italia gode presso i suoi alleati. Quello di non avvisarci dell’imminente blitz in Nigeria, segue un altro affronto quale quello consumatosi in Libia alla vigilia e durante la guerra civile, con francesi e inglesi che addestravano e rifornivano di armi i ribelli mentre i rispettivi Servizi, civili e militari, s’incaricavano di svolgere il lavoro d’intelligence sul campo. Quest’ultimo aspetto è addirittura proseguito oltre la scesa in guerra italiana, in particolare nell’ultima fase del conflitto, quando americani, inglesi e francesi si sono scatenati nella caccia a Gheddafi e alla sua famiglia, guardandosi bene dal condividere informazioni e strategie con Roma.

O forse, come già in passato (il caso Sgrena-Calipari insegna) si è tenuta fuori l’Italia dalle decisioni operative perché si aveva l’intenzione di mandare un segnale chiaro e oppositivo alla strategia italiana della trattativa con i rapitori? I britannici, è noto, hanno da decenni perso ogni brandello di autonomia e sono, più o meno, l’estensione della volontà statunitense su scala europea e mediorientale. La linea politica che anima le scelte in materia bellica e d’intelligence è emanazione diretta di una subordinazione politica verso Washington che caratterizza Londra sin dai tempi della signora Tatcher.

Detto ciò, non si possono tacere le responsabilità pesanti dei nostri stessi Servizi: un pessimo monitoraggio della vicenda e una colpevole assenza dallo scenario operativo sono solo i primi aspetti evidenti, ma raccontano sufficientemente quanto Roma abbia davvero bisogno di resettare le sue indicazioni strategiche e il livello di efficienza della sua intelligence.

Invece di preoccuparsi del rischio di terrorismo nascente dai conflitti sociali, operando così un tentativo (abituale) di cercare il nemico pericoloso in ogni conflitto sociale e politico interno, sarà bene che capiscano in fretta l’utilità di indirizzare risorse e uomini dove davvero la sicurezza degli italiani è a rischio. La stessa vicenda dei due Marò in carcere in India racconta bene quanta approssimazione ci sia nei vertici militari e politici italiani.

Ora Monti avrà di che riflettere: la credibilità di Roma tra gli speculatori dei mercati finanziari sarà anche cresciuta, ma tra i suoi alleati politici e militari continua a godere di scarso valore. Sarebbe quindi necessario reagire ai ceffoni inglesi e, nello stesso tempo, esigere dai responsabili dei Servizi e della diplomazia italiana le loro dimissioni per manifesta incapacità. A meno di non ripetere il mantra solito e voler dire che, di recitare la parte della marionetta, ce lo chiede l’Europa.


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