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di Mariavittoria Orsolato
Lo scorso 27 giugno il terreno regolarmente acquistato dagli attivisti del movimento No Tav presso la località Maddalena di Chiomonte, viene letteralmente preso d’assalto da 2000 agenti delle forze dell’ordine con l’intento di sgomberarlo, militarizzarlo e permettere così alle imprese che hanno ottenuto l’appalto di iniziare i lavori di messa in opera del cantiere per l’Alta Velocità. Fedele al suo spirito di resistenza, il movimento No Tav non demorde e indice una manifestazione nazionale per il 3 luglio successivo, raccogliendo adesioni entusiastiche da ogni parte d’Italia.
Quel giorno il corteo culminò in una vera e propria battaglia, combattuta da una parte con i lacrimogeni proibiti Cs e dall’altra con le pietre della montagna: il bilancio fu di centinaia di feriti da entrambi gli schieramenti ed ora lo Stato ha presentato il conto.
All’alba di ieri mattina un’imponente operazione di polizia, coordinata dalla procura di Torino, ha portato all’arresto di 26 militanti No Tav e a misure restrittive nei confronti di altri 15 attivisti, cui vanno aggiunte diverse perquisizioni ai danni di privati cittadini e di spazi occupati e autogestiti. Gli arresti - a Torino, Asti, Milano, Trento, Palermo, Roma, Padova, Genova, Pistoia, Cremona, Macerata, Biella, Bergamo, Parma e Modena e persino in Francia - sono stati eseguiti dalla polizia su ordinanze emesse dal Gip di Torino, Federica Bompieri, su richiesta del Procuratore aggiunto Andrea Beconi, nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Questura.
Le accuse sono le generiche lesioni, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale e la versione che Giancarlo Caselli si é affrettato a fornire ai media mainstream è che con questa operazione si sia fatto fondamentalmente un favore al movimento. “Sbaglia - ha detto il Procuratore capo di Torino - chi vuole leggere in questa indagine qualcosa contro la Valle, il movimento No Tav e le legittime manifestazioni di dissenso che restano nei limiti della legge”.
Messa in questo modo, l’intenzione di Caselli sembra piuttosto essere quella di dividere il movimento, delegittimandone gli intenti agli occhi dell’opinione pubblica: da un lato i bravi valligiani pacifisti e pacifici, che esprimono un legittimo dissenso e dall'altro i cattivi black bloc calati dall'esterno, i professionisti della violenza. Un espediente decisamente inflazionato nell’era dell’attento web 2.0 e che i valsusini per primi rifiutano, rivendicando invece la diversità delle pratiche di lotta messe in campo ed esprimendo solidarietà a tutti gli arrestati e gli inquisiti, sempre e comunque. In questo caso a finire dietro le sbarre sono stati due "ex terroristi", un giovane ventenne, tre minorenni, una ragazza incinta al settimo mese, un consigliere comunale (a cui sono state sequestrate addirittura le stampelle), gli immancabili anarco-insurrezionalisti e antagonisti.
Un’operazione “chirurgica” - come l’ha definita la stessa Procura torinese - e allo stesso tempo trasversale, così come trasversale è stata l’adesione ad una protesta che ormai va oltre la semplice opposizione al treno. In oltre vent’anni di storia il movimento No Tav ha finito per catalizzare le istanze e le simpatie dell’eterogenea galassia del dissenso politico e la sua lotta - sempre a volto scoperto - è diventata la lotta di chi vede nella speculazione indiscriminata, e nella corruzione che la permette, il problema fondamentale del sistema Italia.
Denunciando che la sola occupazione militare costa 90.000 euro al giorno e che i costi complessivi per la “grande opera” - ancora in embrione ma già in perdita, dato il calo drastico del traffico merci su quella tratta - arriveranno a 22 miliardi di euro, gli abitanti della Val Susa non fanno altro che sbugiardare le velleità di crescita imposteci da una politica sempre più aliena al cittadino: un progresso posticcio, costoso in termini economici e democratici, buono solo a foraggiare un capitale vampiresco.
Per questo, perché il fronte di resistenza è appunto sentito come comune, in numerose città d’Italia si sono attivati presidi di solidarietà agli arrestati del movimento, alcuni dei quali sfociati in blocchi del traffico e occupazioni spontanee, mentre dal’assemblea permanente di Vaie, nel cuore della valle, è arrivato l’invito per una manifestazione che raccolga “tutte le resistenze” - come ha affermato il leader putativo dei No Tav Alberto Perino - da fissarsi entro la metà di febbraio.
Se questo blitz doveva quindi servire a scoraggiare il movimento, possiamo dire che già dalle prime ore ha ottenuto esattamente l’effetto contrario. Gli espedienti a disposizione della questura e degli esigui Si Tav sembrano aver raggiunto l’extrema ratio: dopo la mossa della carcerazione preventiva non restano molte carte in mano. Come sottolineano su notav.info “a breve ci sarà il tentativo di allargamento del cantiere per provare il reale inizio dei lavori, lì si vedranno i risultati”. Già da ieri, il movimento ha rilanciato nella direzione della resistenza, perché e nel cantiere di Chiomonte che si giocherà gran parte di questa lotta, ed è lì che i No Tav ritorneranno ancora una volta, nonostante gli arresti.
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di Carlo Musilli
C'è il partito del "meglio che niente" e quello del "si poteva fare di più". Poi c'è la posizione di chi ritiene in senso lato che liberalizzare sia dannoso per l'economia. Ma a prescindere dal giudizio di merito, il decreto varato venerdì sera dal governo Monti ci racconta anche una storia politica. Ci dà qualche dettaglio in più per capire di chi è l'Italia oggi e di chi probabilmente continuerà a essere nel prossimo futuro.
Gli aspetti fondamentali sono due: il rapporto dell'Esecutivo con il Pdl e i conflitti d'interesse che zavorrano la squadra del Professore. Sul primo versante, è evidente come il pacchetto di liberalizzazioni non danneggi in modo sostanziale l'establishment berlusconiano, la sua politica e la sua visione della società. Anzi, spuntando la pallottola del decreto, i pidiellini hanno limitato i danni al minimo proprio sul versante che li vedeva più vulnerabili. Evidentemente le pressioni di Gianni Letta sul sottosegretario Antonia Catricalà hanno funzionato. E chissà se il Pd troverà il modo di uscire altrettanto indenne dalla riforma del lavoro, ormai alle porte.
L'unica vera sconfitta per Silvio Berlusconi è arrivata sul campo delle frequenze televisive. Con una mossa chirurgica, da politicante consumato più che da banchiere, il ministro Corrado Passera ha deciso di congelare per tre mesi - ma non di revocare - il beauty contest varato dal Cavaliere (la procedura che avrebbe di fatto regalato i nuovi canali digitali a Mediaset, Rai e Telecom Italia). In questo modo Passera si è attribuito il ruolo di mediatore fra le parti, lasciando pendere una spada di Damocle hi-tech sulle teste del Pdl.
Tenere in sospeso la vicenda vuol dire mantenere alta la tensione fra i berluscones - che fra il Parlamento e l'azienda del padrone non avranno dubbi su cosa scegliere - e intanto far passare il tempo. E' probabile che alla fine l'Agcom troverà una soluzione di compromesso (asta a pagamento più generoso contentino al Biscione), ma quando ciò avverrà i decreti più controversi saranno già diventati legge. E sarà ormai troppo tardi per andare alle elezioni anticipate.
Il secondo punto fondamentale è quello che riguarda le dinamiche interne al drappello dei tecnici. Quando si tratta di legiferare è prassi che i governanti cedano alle pressioni delle lobby di turno. Ed essendo questo un governo di banchieri, non stupisce che le mancanze più gravi dell'ultimo decreto riguardino proprio le banche e le loro cugine, le assicurazioni.
Partiamo dagli istituti di credito. Nella versione finale del provvedimento troviamo una brutta sorpresa per quanto riguarda il nuovo conto corrente di base (quello a costi ridotti, pensato ad esempio per gli anziani, che dovranno aprirlo per legge se vogliono incassare pensioni superiori a mille euro). Il funzionamento del nuovo tipo di conto non sarà stabilito dal governo - com'era scritto nelle bozze precedenti - ma da un'intesa fra banche, Poste e Banca d'Italia. Vale a dire i diretti interessati. Non basta: anche la riduzione delle commissioni sull'utilizzo della moneta elettronica è affidata a un accordo fra le parti in causa (Associazione bancaria, consorzio bancomat e Associazione dei prestatori di servizi a pagamento).
Un altro aspetto riguarda le polizze vita che le banche obbligano a stipulare per accendere un mutuo. Di solito la compagnia assicuratrice è legata alla banca stessa, che così incrementa i profitti. L'Antitrust aveva suggerito di abolire il binomio obbligatorio polizza-mutuo, ma il governo si è limitato a imporre agli istituti di credito di presentare al cliente i preventivi di almeno due diverse compagnie. C'è da scommettere che le banche sapranno indirizzare a dovere i loro clienti.
Un regalino molto simile è stato pensato anche per le compagnie d'assicurazione. Dal punto di vista dei cittadini, la scelta più vantaggiosa sarebbe stata di sostituire i cosiddetti agenti monomandatari con i broker assicurativi. Si trattava di rimpiazzare le figure legate ai singoli gruppi (di cui vendono i prodotti) con dei professionisti pagati direttamente dai clienti e quindi interessati a suggerire di volta in volta le soluzioni più convenienti per i consumatori piuttosto che per le compagnie. Anche in questo caso niente da fare. Il decreto - che peraltro parla solo dell'RC auto - obbliga gli agenti ad informare i clienti sulle proposte di almeno tre compagnie. Ma secondo voi vi consiglieranno la loro polizza o quella della concorrenza?
Fra le altre posizioni di potere che non sono state intaccate, spicca quella di Trenitalia. Dal decreto sono scomparse in corso d'opera almeno due misure fondamentali: la scissione fra la holding Fs e la rete ferroviaria Rfi (rinviata a una decisione della nuova Autorità dei Trasporti) e l'obbligo di gara per la concessione del trasporto regionale da parte delle Regioni. Per non parlare poi dell'inchino fatto all'Unione Petrolifera, che ha portato a ridurre drasticamente le liberalizzazioni in materia di carburanti.
Ci sono infine le querelle legate a quelle categorie che, pur avendo un impatto economico minore, suscitano inspiegabilmente un'attenzione mediatica senza pari. Vale la pena di rifletterci, altrimenti si rischia di perdere contatto col quadro generale. E si finisce col pensare che il rilancio del Pil dipenda solo dai taxi.
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di Mariavittoria Orsolato
Nove milioni di processi da smaltire tra civile e penale, migliaia di procedimenti per errore giudiziario o ingiusta detenzione e una valanga di richieste d’indennizzo per le cause che invecchiano con i querelanti. Che la giustizia italiana fosse un colabrodo lo si sapeva da un bel po’ e l’altro ieri , nella sua relazione a Montecitorio, la ministra Paola Severino ha snocciolato impietosa i numeri di quell’inefficienza che, nei termini di produttività tanto cari al governo tecnocratico, ci starebbe costando l’!% del Pil.
Il ministro ha esordito sottolineando innanzitutto l'esplosione di richieste di indennizzo per i processi troppo lenti, passate dalle 3.580 del 2003 alle 49.596 del 2010. Nel solo 2011, infatti, lo Stato ha dovuto spendere ben 84 milioni di euro per risarcire i cittadini che si sono appellati alla cosiddetta legge Pinto, che disciplina il ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo i criteri fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
E, sempre nel 2011, lo Stato ha elargito risarcimenti per 46 milioni di euro a quanti hanno intentato causa, a ragione, per ingiusta detenzione o errore giudiziario, col risultato che solo per i rimborsi dell’anno appena trascorso se ne sono andati in fumo 130 milioni di euro. Tutto perché, secondo i dati elaborati da via Arenula, in Italia i processi da smaltire sono un’infinità e prima che questi vengano conclusi possono passare oltre sette anni per il civile e quasi cinque nel penale.
Il sistema carcerario poi, se possibile, va anche peggio: "Sento fortissima - ha detto il ministro - la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti". Aldilà dei dati numerici comunque aberranti -sono 66.897 i detenuti che soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un paese come l'Italia - secondo il Guardasigilli "siamo di fronte a un'emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana". Ma di amnistia o revisione di leggi affolla carcere come la Bossi-Fini o la Fini-Giovanardi, non se ne parla proprio.
Fatti i conti del “disastro giustizia” e assolto il suo dovere di esimia tecnocrate, Paola Severino è comunque riuscita nel miracolo di mettere d’accordo Pd, Pdl e Terzo Polo: un avvenimento che, per quanto riguarda il tema della giustizia, non si verificava da quasi 18 anni e con 424 sì, 58 no e 45 astenuti la Camera ha approvato la risoluzione unitaria presentata dai tre partiti che fino a tre mesi fa si scannavano sui processi e che oggi, di fatto, costituiscono la maggioranza del governo Monti. E il segreto del successo della Guardasigilli sta proprio nell’aver eliminato dal piatto tutti i possibili punti di attrito politico.
Nella relazione della Severino mancano infatti le leggi ad personam berlusconiane - cancellazione del falso in bilancio e prescrizione breve tra tutte - e gli effetti catastrofici che hanno avuto sulla macchina della giustizia, così come non c’è il minimo accenno a riforme delle norme sulle intercettazioni o sul funzionamento dei processi, a interventi per allungare o accorciare i tempi della prescrizione, alle tensioni tra toghe e politici, alla terzietà del giudice o alla riforma della professione forense.
Il suo è stato solo un lungo excursus sulle deficienze del settore, sulle carenze del sistema e sulle difficoltà che si possono incontrare nel difficile rapporto cittadino-tribunale: la fiera dell’ovvio, una mera constatazione del fatto che, allo stato attuale, le cose così non vanno.
Quello scarno “visto, si approvi” in calce alla mozione unitaria di Pd, Pdl e Terzo Polo, non può dunque significare altro che la precisa volontà di non dividersi, di non spaccare una maggioranza tanto composita quanto assolutamente di facciata e di certo funzionale più al centrodestra di Berlusconi che al centrosinistra di Bersani.
Perché a voler scrivere un documento, anche breve, ecco che il Pdl chiederebbe di infilarci dentro le intercettazioni, il processo breve e quello lungo mentre, dall’altra parte, il Pd si vedrebbe costretto a chiedere che non solo non si parli d’intercettazioni ma, come ha detto Donatella Ferranti in aula, che si dica che proprio per colpa di quelle leggi adesso “le carceri esplodono”.
Che il mandato della Severino non darà avvio alla stagione delle grandi riforme sulla giustizia lo sanno anche i muri, così come è ormai pacifico che gli obbrobri legislativi escogitati per mettere Berlusconi al riparo dai giudici rimarranno al loro posto. Dire che questa è “l’ennesima occasione mancata”, comincia a diventare il ridondante refrain dell’esecutivo Monti.
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di Rosa Ana De Santis
Da 38 giorni 3 lavoratori delle imprese fornitrici di servizi a bordo dei convogli notturni, legati a Trenitalia, vivono arrampicati su una torre, al freddo, nella speranza di sensibilizzare i pendolari e l’azienda sulla loro oscura sorte di lavoro, definita genericamente di “riformulazione del servizio”. Tradotto significa tagli, licenziamento parziale o totale, una variabile all’ordine del giorno della rinegoziazione del contratto generale tra lo Stato e Trenitalia e la conseguente valutazione economica dei servizi considerati ormai inefficienti.
Ad esempio i viaggi notturni, con un flusso passeggeri diminuito del 60% negli ultimi dieci anni. I sindacati chiedono insistentemente al Ministro Passera di affrontare la situazione, perché la totale assenza di clausole di ricollocamento lascerebbe a piedi i numerosi lavoratori in esubero che ci sarebbero se le imprese vincitrici del bando di gara per i servizi di logistica, pulizia e manutenzione fossero le stesse di ora (Wasteels, Servirail, Rsi).
L’AD di Ferrovie, Moretti, ha risposto ricordando che Trenitalia non si occupa di welfare. In un momento di perdite secche e di concorrenza ormai prossima con il treno del futuro di nome Italo, nell’unico ramo in cui le Ferrovie non sono in perdita, ovvero l’alta velocità, il problema dei sindacati deve sembrare null’altro che un fastidioso sassolino nella scarpa. Oliviero, Giuseppe e Carmine, questi i loro nomi, hanno capito che per avere almeno attenzione non devono mollare e per questo non hanno intenzione di scendere dalla torre del binario 21 della Stazione Centrale di Milano.
Fino ad ora 24 mesi di tempo per trovare loro una nuova collocazione è stata l’unica speranza annunciata da chi li ha lasciati a casa e su questo vago annuncio la vita dei tre operai si è fermata, sospesa nel vuoto, almeno per i 24 mesi del limbo sociale o dell’inferno cui sono stati condannati insieme alle loro famiglie.
Anche il Natale è passato lassù, nei fischi dei macchinisti che li salutano ad ogni partenza, tra la folla che forse anche a questa scena si è ormai abituata.
I sindacati tentano di portare in agenda i rimedi a questa nuova schiera di disoccupati, invocano ammortizzatori sociali, il ripristino di collegamenti notturni che, cancellati di colpo, hanno tagliato a metà, come agli albori dell’unità d’Italia, il nord dal sud, togliendo possibilità di spostarsi soprattutto a quanti possono investire solo cifre a basso costo che solo questi treni ormai consentono per tratte molto lunghe.
La CGIL in testa ha chiesto ai Ministri Passera e Fornero di convocare con urgenza un tavolo tecnico con Ferrovie, perché accanto al tema del lavoro c’è quello delicatissimo e strategico per il paese, dei collegamenti ferroviari Nord- Sud e della comunicazione interna del paese che valutazioni aritmetiche di profitto stanno progressivamente oscurando.
Un modo bizzarro di onorare il 150° dell’Unità d’Italia quello di chi pensa di poter trattare le vie di comunicazione di un paese al pari di un prodotto commerciale come un altro, dopo averlo gestito con i soldi di tutti i contribuenti. Sempre troppo pochi e sempre poco chiaramente investiti e spesi.
Quelli che viaggiano in condizioni sempre peggiori e quelli che arrampicati sul tetto di una stazione raccontano un po’ a tutti che non c’è simbolo più azzeccato di un paese che ha tirato il freno, se non quello di un treno che, mentre un tempo ricuciva l’Italia come una cerniera, ora non lascia più la sua stazione.
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di Rosa Ana De Santis
Nonostante la pesante crisi economica che sta mettendo in ginocchio gli italiani, grazie anche ai rincari e al governo delle tasse, gli affari del riarmo vanno a gonfie vele. Questo emerge dal report realizzato dall’Archivio Disarmo con analisi dei numeri dal 2007 ad oggi. Il picco del triennio lo si è avuto nel 2008 con 21.132,4 milioni di euro, proprio quando la crisi da “spauracchio” iniziava ad assumere anche qui connotati concreti. Peraltro al tetto delle spese vanno aggiunte le voci di competenza militare elargite da altri ministeri, Ministero dell’Istruzione compreso che rendono il bilancio della Difesa sempre di dubbia interpretazione date le voci scorporate di cui si compone.
L’anno a venire non promette niente di buono con il celebrato “soldato del futuro” munito di armi del tutto nuove e di un equipaggiamento al limite del miglior action- movie. E’ vero che la Difesa non può essere trascurata in una politica estera sempre più impantanata in quella statunitense a caccia di nuovi teatri bellici, ma è altrettanto vero che questo paese, in nome della crisi, ha usato la scure sui diritti fondamentali dei cittadini: spese sociali, istruzione, sanità.
Se i tagli selvaggi sono così necessari per scongiurare la bancarotta del paese, non si può decidere di applicarli minando l’integrità dei diritti civili e individuali, per poi foraggiare il business di qualche sigla come Lockheed Martin o Alenia. Solo nel 2011 sono stati spesi per i caccia bombardieri 470milioni di euro.
Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, invita ad “una razionalizzazione delle spese militari”, anche perché proprio su questa materia economica e politica così delicata, lo Stato Italiano ha perduto una quota importante di sovranità schiacciandosi sulla Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC).
La recente vicenda dell’acquisto di F35 aveva già portato all’attenzione dell’opinione pubblica il problema, a fronte di un progressivo svuotamento del servizio civile: un solo F35 per l’economia dello stato equivale a 25 mila giovani in servizio in meno per un anno. Nel 2013 non ci saranno più ragazzi e ragazze nel Servizio Civile. L’Italia si è impegnata all’acquisto di cacciabombardieri per un importo con cui potrebbe mettere in sicurezza 14mila scuole che non rispettano la legge 626 (ora modificata nel decreto Lgs 81 del 2008 ndr).
Nel mezzo della polemica è intervenuto il Ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola, annunciando di avere in programma di rivedere e ridimensionare il tutto, compresi gli sprechi e gli organici, senza alcuna preclusione per evitare un collasso del mondo della Difesa.
Nell’ultimo question time alla Camera dei Deputati il Ministro ha comunque difeso l’investimento dei cacciabombardieri nella interezza, che dovrebbe impegnare l’Italia fino al 2026 per l’acquisto di 131 F-35 per un totale di 15 miliardi di euro, adducendo la necessità di modernizzare l’equipaggiamento aerotattico ed evidenziando l’incremento di occupazione del settore che se ne ricaverebbe.
Il governo è ufficialmente in riflessione e probabilmente ritoccherà la quantità degli aerei, ma gli affari per le aziende andranno avanti, nonostante tutto. In nome della crescita e dell’occupazione chiosa il Ministro. Quella del settore bellico: l’unica al momento in cui si sia impegnato il governo Monti, oltre che al sostegno del sistema bancario.
Senza ripescare il linguaggio di un pacifismo che non solo non è mai stato percorribile, ma ancora meno lo è in questo scenario politico contingente, basta rievocare la linea dell’austerità chiesta dal governo Monti per usare la forbice anche nel mondo militare. Gli obiettivi di ridimensionamento non riguarderanno, comunque, le missioni internazionali. Il Ministro è stato chiaro: il prestigio del teatro operativo, che costa caro comunque, non è tra le voci del rigore economico in nome di una volontà, tutta politica, in cui non abbiamo sovranità e di un programma economico, che ha individuato nuove colonie da spolpare, che va ben oltre le commesse spicciole per l’acquisto di armi e tecnologie.