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di Fabrizio Casari
Francesco Belsito si chiama. L’uomo che dovrebbe assumere su di sé tutto l’onere della fine dell’onore leghista è l’ex tesoriere dei lumbard. Accusato di aver versato a più riprese denaro alla famiglia Bossi ed alla sua ombra storica Rosy Mauro, d’intrattenere rapporti con la ‘ndrangheta calabrese, il funzionario leghista è entrato nello stesso film noir di Lusi, l’altro esemplare che si vorrebbe solo a decidere cosa fare dei soldi del partito.
E così come Rutelli e soci si sono sperticati a dire che della movimentazione dei soldi di Lusi nulla sapevano, anche l’uomo della canottiera ha detto no: non centra niente lui con i soldi di Belsito. Né lui né il figlio, denominato “Trota” dal padre in omaggio alla fervida intelligenza di cui dispone. Lo stesso padre che si è perciò premunito di farlo eleggere dove possibile; non solo e non tanto per il proseguimento della stirpe, quanto perché preoccupato che dovesse vivere con le competenze delle quali dispone.
Come uno Scajola qualsiasi, anche Umberto Bossi dice che la ristrutturazione della villa di Gemonio è stata fatta a sua insaputa. Un male ormai classico della politica italiana. Del resto succede sempre così: uno non fa a tempo ad allontanarsi un attimo da casa che qualcuno - gratuitamente e a sua insaputa - gliela ristruttura o, addirittura, gliela compra nuova. Quanti di noi si sono trovati alle prese con questo inconveniente, con questa cattiva comunicazione che scambia il mandato ad annaffiare le piante e a raccogliere la posta con la ristrutturazione della casa?
Insomma è tutta colpa di Francesco Belsito. Che ha dimostrato fantasia imprenditoriale discutibile, come quando investiva milioni di euro in Tanzania e a Cipro e pare mostrare risentimento personale per essere stato messo in disparte dall’Umberto, al quale - sembra- offriva ogni forma di sostegno economico a lui e famiglia per ingraziarselo e tornare in auge nel partito. E allora, secondo l'accusa, via con il denaro per la scuola della moglie, la baby pensionata Manuela Marrone; quindi quello per aiutare il Trota a prendere uno straccio di diploma che, non riuscendo a raggiungere come gli altri milioni di studenti, diversamente sarebbe diventato richiedibile solo per anzianità; e poi le multe di Riccardo Bossi, l’altro figlio, i lavori di casa paterna e persino la sistemazione dei conti di Rosy Mauro, che d’influenza sul capo, com’è noto, ne ha sempre avuta molta. Era questo il cerchio magico?
E nelle indagini degli inquirenti viene coinvolta anche Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur. Prima intercettata, poi perquisita e quindi interrogata, la signora pare si lamentasse molto della stravagante famiglia Bossi. Al pm Henry John Woodcock, in nove ore d’interrogatorio ha lasciato intendere di voler dire tutto quello che sa. E se nelle intercettazioni telefoniche non era tenera con i familiari di Bossi, anche nell’interrogatorio avrebbe tenuto il punto: Belsito apriva i cordoni della borsa del partito per ingraziarsi il suo leader. Ma, secondo quello che avrebbe detto la segretaria amministrativa della Lega, mentre Umberto Bossi è sempre stato disinteressato al denaro e ai favori, i figli se ne sarebbero un po’ approfittati.
Le indagini chiariranno ruoli e responsabilità per tutti i protagonisti, mentre i leghisti riuniti sotto Via Bellerio sono in bilico tra rabbia e incredulità, suggestione di complotti e opportunità politica per la resa dei conti interna. Ma avvertono tutti,leghisti e non, che sulla faccia di Francesco Belsito, sulle sue spericolate operazioni e pessime amicizie, così come sulla tempesta che ha investito la famiglia Bossi, finisce la storia breve e nient'affatto gloriosa della Lega.
Era il partito del “celodurismo”, quello dei cappi sventolati in Parlamento, della diversità padana, dell’inflessibilità xenofoba, della secessione burletta e della rivolta fiscale, della Padania onirica e degli sghei, che teneva insieme la Vandea e miss Padania. Ora si scopre invece un altro volto: quello del maneggio del denaro senza guardare troppo per il sottile, che assegna posti nelle banche e nelle fondazioni, negli enti di ogni titolo e grado, che sforna mazzette e ristruttura le case del boss a spese dei contribuenti, che tratta volentieri con i meridionali ma solo se appartenenti alla ‘ndrangheta, che spernacchia la bandiera e mostra il dito medio al paese. Un ricettacolo di furbetti padani beccati con le dita nella casuela. Sarà colpa di Roma ladrona se l’ampolla del Po tracima acqua sporca?
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di Mariavittoria Orsolato
La TAV e i No Tav continuano a fare notizia, anche loro malgrado. Nella notte tra domenica e lunedì scorsi due centraline di smistamento sulla linea ferroviaria fra Rogoredo e Lambrate, nei pressi di Milano, hanno preso fuoco paralizzando per l'intera mattinata il traffico ferroviario. Su una delle centraline scampate alle fiamme campeggiava una scritta No Tav e tanto è bastato agli inquirenti e alla stampa per additare la “frangia anarco-insurrezionalista del movimento” come probabilissima responsabile.
Lo scorso 27 marzo, invece, un gruppo di attivisti No Tav appartenenti al centro sociale “Il Cantiere” ha simbolicamente occupato la sala Alessi del Comune di Milano per contestare il procuratore Caselli, presente in qualità di ospite in un convegno che poi si è regolarmente svolto.
Inutile enumerare le lenzuolate d'inchiostro sprecate per dipingere i No Tav come novelli squadristi/terroristi. E inutile dire che le loro ragioni vengono accantonate per spingere sull'acceleratore emozionale del binomio violenza/non violenza che, rendendo la questione inevitabilmente manichea, impedisce quello stesso dialogo tanto invocato dalle istituzioni.
Eppure, se la protesta contro l'Alta Velocità è sempre stata strenua, qualche buon motivo ci sarà e l'ingegner Mario Cavargna, Presidente di Pro Natura Piemonte, è arrivato ad elencarne addirittura 150. In questa sede andremo ad analizzare quello che più di tutti preoccupa gli abitanti della Valsusa: parliamo dei gravissimi pericoli per la salute degli abitanti della valle, quelli che deriverebbero dalla perforazione della montagna, dalle polveri tossiche in essa contenute e in generale dai cantieri.
Nel 2006, 103 medici sensibili alla causa No Tav hanno pubblicato un appello in cui si esprimevano forti preoccupazioni per la salute della popolazione connesse con la messa in opera dell'Alta Velocità. Lo stesso Studio di Via presentato da Lyon-Turin Ferroviaire ha calcolato un incremento del 10% nell’incidenza di malattie respiratorie e cardiovascolari a causa dei livelli di polveri sottili prodotte dai cantieri e, in base alle statistiche attuali, questo aumento corrisponderebbe a 20 morti in piu? all’anno.
Le polveri sottili PM 10, cui vanno aggiunte le polveri sottilissime PM 5 e PM 2.5, fanno parte dell’aerosol che respiriamo e che colpisce soprattutto le fasce piu? deboli della popolazione come gli anziani, i malati di patologie cardiache o respiratorie ed i bambini, che sono particolarmente sensibili in quanto le capacita? di difesa dalle aggressioni ambientali sono ancora parzialmente immature. Gli effetti delle polveri sottili o sottilissime possono favorire la comparsa o la riacutizzazione di patologie respiratorie croniche e di quelle cardiovascolari - come infarti e trombosi - e sono purtroppo una novita? nella valutazione dei danni per la salute provocati dai cantieri.
Ma quello che più spaventa gli abitanti della valle è la perforazione della montagna, ormai decisa con il via libera ai lavori del progetto low-cost che, è bene ricordarlo, partirà proprio con l'escavazione della galleria di base. Le splendide alture che abbracciano la Valsusa sono infatti cariche di amianto e uranio: la particolare pericolosita? di questi minerali e? data dall'emissione di raggi radioattivi alfa e beta, poco penetranti e quindi poco rilevabili, ma molto piu? distruttivi quando, sotto forma di polvere, arrivano a contatto con la pelle e le mucose.
Il problema dell’amianto e? però stato accantonato e spesso minimizzato dalle istituzioni, ammettendo la presenza di giacimenti solo per i primi 500 metri, nella zona di Mompantero, dove per anni LTF ha negato che si potessero trovare rocce amiantifere. La loro presenza e? particolarmente massiccia in bassa valle, ma anche in alta valle le rilevazioni hanno accertato i rischi: basti ricordare che fu proprio a causa della presenza di amianto che l’impianto olimpico di bob fu spostato da Sauze d’Oulx a Cesana, e che la presenza di queste rocce sta bloccando e ritardando da anni i lavori della circonvallazione di Claviere.
Esiste poi uno studio (commissionato dalla stessa società incaricata di costruire la parte italiana della nuova linea ferroviaria, la RFI) svolto dall'Università di Siena, che riferisce chiaramente la presenza di fibra di amianto nei tratti interessati dai lavori infrastrutturali. Ad esporsi in prima linea, a sostegno della protesta dei No Tav, è stato anche lo specialista oncologo Edoardo Gays dell'ospedale San Luigi di Orbassano, che già nel 2004 descriveva la pericolosità dell'amianto presente nelle montagne che verrebbero attraversate dalle gallerie: “Da detto studio (quello svolto dall'Università di Siena n.d.a.) si conferma la presenza di amianto in varietà e forme diverse nell’ammasso roccioso presente lungo il percorso progettato per il potenziamento della linea ferroviaria Bussoleno - Torino nell’ambito del cosiddetto treno ad alta capacità/velocità. Per la realizzazione delle gallerie previste per oltre 23 chilometri, il volume dei materiali contenenti amianto da scavare prima, movimentare poi e infine stoccare è stato stimato in oltre un milione di metri cubi (1.152.000), volumi peraltro passibili di aumenti anche significativi”.
Le misure di cautela e di smaltimento per l’amianto proposte da LTF mostrano poi un problema ancora irrisolto. Dire che lo smarino contaminato da amianto verrà chiuso in sacchi e spedito in Germania, significa non rendersi conto che anche solo 500 metri di tunnel di base corrispondono a 170.000 metri cubi, pari al carico di 17.000 TIR. Il trattamento con l’acqua - proposto per ovviare al rischio di diffusione - lega solo momentaneamente la parte piu? fine delle polveri, ma poi la libera o la deposita con sorprendente facilita?, soprattutto nella percolazione alla base dei mucchi: da qui il vento la sposta ovunque.
Anche le mineralizzazioni di uranio sono una realta?: il problema era stato rilevato già nel 1998 dalle associazioni ambientaliste, ma LTF ed i suoi consulenti lo avevano lungamente negato. Nell’attuale studio di VIA per il tunnel di base non se ne parla nemmeno. Eppure il gruppo dell’Ambin - la formazione alpina che abbraccia la Valsusa e che sara? attraversata dalle gallerie - e? stato oggetto di fruttuose ricerche da parte francese nel 1980 con la Minatome, da parte italiana nel 1959 con la Somiren e nel 1977 con l’Agip Mineraria. Su entrambi i versanti si e? ipotizzato un suo sfruttamento. Allo stato attuale dei rilevamenti in Valsusa ci sono ben 28 aree nelle quali i filoni di uranio vengono in superficie. Sono sparsi un po’ ovunque e non è vero, come affermato da LTF, che con la nuova modifica del progetto i tratti a rischio contaminazione verranno evitati.
Lo scorso 4 marzo un team capitanato dall'ingegner Massimo Zucchetti, professore ordinario del Dipartimento per l'energia del Politecnico di Torino, ha effettuato una spedizione all'interno della miniera di uranio di Giaglione-Venaus, a pochi kilometri dal cantiere geognostico della Maddalena. Armati di tre diversi rilevatori di radiazioni, hanno constatato e dimostrato che il pericolo radioattivo non è una delle tante velleità dei No Tav ma un rischio purtroppo realissimo. Se la soglia di sicurezza si aggira intorno ai 400 colpi al secondo, già nel centro abitato di Giaglione hanno rilevato 550 colpi/secondo; davanti all’ingresso della miniera il contatore è subito salito a 1500, mentre dentro la miniera è schizzato a 7000, ovvero 20 volte la misura di tolleranza.
Date queste evidenze, sembra ormai ovvio che non appena cominceranno il lavori di trivellazione si sprigioneranno polveri potenzialmente letali. Per i pochi che ancora non lo sapessero, l’esposizione all’amianto - anche non legato ad attività lavorativa - può causare gravissime patologie, tra cui il mesotelioma, una malattia tumorale maligna in grado di stroncare nel giro di 275 giorni. L’uranio invece, se inalato o ingerito, provoca contaminazione interna e puo? essere causa di linfomi. Un famoso studio dell’Istituto Superiore di Sanita? ha evidenziato un incremento di linfomi di Hodgkin nei militari impiegati in “missione di pace” nei Balcani ed esposti all’uranio impoverito: ben il 236% in piu? rispetto alla popolazione non esposta. E l’uranio che potrebbe sprigionarsi in Valsusa e? notevolmente piu? radioattivo di quello impoverito a fini bellici.
Il movimento No Tav è spesso tacciato di misoneismo, di prepotenza, di aver strizzato l'occhio alle componenti più violente dell'antagonismo italiano. Ma nel momento in cui ci sono prove provate che un'opera pubblica dalla dubbia funzionalità potrebbe mettere a rischio la salute o, addirittura, la vita delle persone che ne abitano il territorio, si tratta soprattutto di istinto di sopravvivenza. Un istinto atavico che nessuna chiacchiera tecnica o imposizione dall'alto può sopire, che non si ferma di fronte alle forze dell'ordine e porta fisiologicamente a combattere, a resistere. Di questo, almeno, i No Tav chiedono di prendere atto.
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di Vincenzo Maddaloni
La bandiera che sventola, come al solito, è quella del “pluralismo” tradito. Ne è stata l’occasione più recente la chiusura del quotidiano Il Riformista che sabato scorso ha sospeso le pubblicazioni e affidato l’amministrazione della cooperativa a un liquidatore. Com’era nelle previsioni, poiché da diverse settimane si parlava dei problemi economici del quotidiano diretto da Emanuele Macaluso, sebbene negli ultimi giorni era sembrato che i nuovi fondi pubblici per l’editoria potessero evitarne la chiusura, ma anche questi si sono poi rivelati insufficienti alla sopravvivenza giornale.
Per dovere di cronaca, il pluralismo anche quest’anno è stato contrattato col potere politico con dei risultati per niente male, se si tiene a mente il rigorismo conclamato dal governo Monti. Infatti ben centoventi milioni di euro finanzieranno il fondo per l’editoria. Dovevano essere quarantasette, ma pressioni assai autorevoli hanno portato l’elargizione a ben più del doppio, senza che nemmeno il governo dei tecnici abbia preso sul serio l’esigenza di ristrutturare seriamente un’industria che, per pareggiare i bilanci, si serve dei soldi dei contribuenti.
Quei centoventi milioni diventano poi un fatto davvero irritante se si pensa che la prima cosa che andrebbe fatt dopo i rincari, sarebbe alleggerire il carico fiscale sui lavoratori, le famiglie, le imprese e i consumatori, cioè sui più penalizzati dalle conseguenze della crisi. Dopo tutto quale pluralismo nell’informazione potrebbe garantire chi, di anno in anno, deve contrattare col potere politico una “donazione” che pareggi i suoi bilanci? Inoltre, rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori come i militanti del ceto politico, di solito questi giornali affrontano argomenti che non rientrano negli interessi più immediati dei lettori “comuni”, pertanto questa loro scontata peculiarità li rende particolarmente deboli anche sotto il profilo diffusionale e pubblicitario. In altre parole, per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro.
Spiega il quotidiano online www.lavoce.info: «È utile interrogarsi sulle condizioni di sopravvivenza e sulle modalità del sostegno pubblico, anche se per molte testate esistono pochi dati affidabili. Solo per Avvenire, Libero, Il Manifesto e l’Unità sono disponibili dati di dettaglio Ads, l'associazione che certifica i numeri sulla diffusione e sulla tiratura dei quotidiani. Dal 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 7 3 per cento. L’Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Il Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8mila e 3mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento.
«A titolo di confronto - ricorda infine www.lavoce.it, - le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento, mentre i quotidiani Ads tra le 20mila e le 50mila copie vendute giornaliere arrivano al 22,1 per cento.
E le stesse diseconomie dei quotidiani politici si ritrovano in altre testate più grandi, ma con una scarsa base territoriale, come Libero o Il Giornale che hanno rese del 49 e del 42 per cento, più che doppie dunque rispetto agli standard.». All’elenco vi aggiungerei anche Il Foglio Quotidiano - resa accertata dell’87 per cento - diretto da Giuliano Ferrara perché Il Foglio è organo della Convenzione per la Giustizia, movimento politico (di fatto inesistente). In questo modo può beneficiare dei finanziamenti pubblici all'editoria (nel caso specifico di 0,70 centesimi per ogni copia stampata).
In questo scenario tipicamente italiano e che non trova riscontro in alcuna altra parte d’Europa, non si capisce perché questi fondi vadano sempre a beneficio di chi già esiste e molto difficilmente a sostegno di nuove realtà editoriali: magari anche online che ritengano di farvi ricorso.
Tuttavia quel che più irrita è che nell’epoca del rigore obbligato e tante volte declamato dal governo di Mario Monti, ci troviamo di fronte a un tale spreco (ripeto: per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro) che rende ancora più contradditorio - e perciò più amaro - l’appuntamento col sacrifico che Monti impone come realtà quotidiana.
Dopotutto in una realtà come questa - ripeto, soltanto italiana - quella che nella prassi è definita la categoria dei giornalisti cessa di esserla ogni giorno che passa. Poiché la definizione di una identità professionale, come quella dei giornalisti appunto, rischia di diventare soltanto soggettiva e quindi doppiamente relativa.
Ormai è giornalista chi si qualifica come tale, e chi riceve dalla società dei lettori il diritto a qualificarsi così. Infatti, una vicenda penosa come questa delle “donazioni” fa crescere in maniera esponenziale la distanza tra chi si crede un giornalista “al di sopra dei fatti” e ciò che pensa di lui la società dei lettori, soprattutto quando a rappresentarlo è uno dei sessantaquattro e passa direttori di giornali di partito.
Siccome gli editori (delle testate sovvenzionate dalla Stato, ma anche di quelle non sovvenzionate) in perenne conflitto con i bilanci deficitari chiedono meno professionismo e più precariato, lo scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di schiere di ragazzi e di ragazze che tagliano, incollano e pubblicano le notizie proposte dalle agenzie d’informazione, senza poterle indagare alla fonte.
Il tutto supportato da una gestione accorta delle voci autorevoli raccolte su piazza, nelle sedi dei partiti, negli uffici delle lobby finanziarie - le voci degli editorialisti e dei commentatori - da cui, di volta in volta, si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che diminuiscono per cause naturali coloro che hanno fatto la Resistenza ed è rimasta soltanto la CGIL a metterla giù dura ogni qual volta si tenta di stravolgere i principi della Costituzione.
Se questa è la realtà dei fatti, allora sarebbe urgente tenere desta l’attenzione su ogni singolo fatto che la compone e della quale gli sprechi ne fanno parte. Non soltanto perché il giornalismo si ricongiunga alla verità, ma perché - governo dei tecnici consentendo - la politica cominci a sprovincializzarsi. Avremmo tutti da guadagnarne. Sebbene pare che non ce ne sia la voglia, perché è più redditizio in termine di consenso, sprecare.
I
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di Carlo Musilli
Il primo destinatario di queste parole è naturalmente il Partito Democratico e il casus belli è la riforma dell'articolo 18. Dopo aver cancellato il concetto stesso di concertazione con i sindacati, ridotti a interlocutori occasionali con cui scambiare quattro chiacchiere di cortesia prima di imporre la propria linea, Monti sta ora svuotando di qualsiasi significato il ruolo del Parlamento.
Fin qui i tecnici bocconiani hanno operato sempre per decreto, blindando sistematicamente i testi con il ricorso alla fiducia. Le ragioni? Sempre le stesse: dobbiamo rassicurare i mercati, tempi certi e ridotti nell'approvazione dei provvedimenti sono fondamentali per non dilapidare la ritrovata credibilità a livello internazionale.
La riforma del mercato del lavoro arriverà però in Parlamento come disegno di legge ordinario. Il governo ha scelto di seguire questa strada dopo le consultazioni con il Presidente della Repubblica, che ha giustamente fatto notare come un decreto su un tema così delicato sarebbe stato visto come un colpo di mano politicamente inaccettabile. Il problema è che anche in questo caso sembra trattarsi più che altro di un gesto di cortesia: l'Esecutivo concede per una volta a deputati e senatori la possibilità di guadagnarsi lo stipendio, a patto che si tratti di una mera finzione. Tutto quello che devono fare è dire ancora una volta "sì", senza azzardarsi a modificare l'impostazione di fondo del Ddl.
Lo scontro si è acceso in particolare sui licenziamenti per motivi economici. La riforma Fornero cancella in questi casi la possibilità del reintegro per i lavoratori mandati via ingiustamente, che avranno diritto a un semplice indennizzo. Si tratta di una modifica che fa scivolare l'Italia a destra della stessa Germania: il famoso "modello tedesco" prevede infatti che il giudice possa scegliere fra indennizzo o reintegro in caso di licenziamento ingiusto sia per motivi economici che disciplinari. Senza contare che si applica alle aziende con oltre dieci (e non quindici) dipendenti e che dev’essere concertato con i sindacati. Ora, con quale faccia Bersani & Company potranno mai approvare una riforma del genere e poi pretendere il voto degli elettori di sinistra?
D'altra parte, Monti sa benissimo che nessuno dei partiti si prenderà mai la responsabilità di far cadere il suo governo. Tantomeno il Pd, che ha fatto delle divisioni interne un segno distintivo e al momento non riesce più a vincere nemmeno le sue stesse primarie. Senza contare che, prima di andare alle urne per le politiche, molti democratici sperano ancora nella riforma elettorale, che consentirebbe di allentare gli scomodi lacci del patto di Vasto con Sel e Idv.
Forte di questa consapevolezza, il Professore tira dritto, probabilmente anche perché cedere oggi al Pd sul fronte del lavoro lo costringerebbe a dimostrarsi in futuro altrettanto arrendevole con il Pdl sul capitolo giustizia, magari con l'abolizione di quel reato di concussione che dà tanto fastidio a Berlusconi nel caso Ruby. Non dimentichiamo però le ampie concessioni già fatte ai pidiellini nel decreto liberalizzazioni, da cui sono sparite in corso d'opera una valanga di norme che avrebbero danneggiato il bacino elettorale destrorso (tassisti in primis).
Nei sondaggi la popolarità di Monti sta inevitabilmente calando, ma questo era prevedibile. Il governo degli accademici può fare tranquillamente a meno del consenso popolare, ma i partiti che lo sostengono in Parlamento no. E fra poco ci sono le amministrative. Il Pd farebbe bene a ricordarselo.
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di Carlo Musilli
In sordina, alla chetichella, ma alla fine il mini-decreto salva-banche è arrivato. Il governo lo ha varato con disinvoltura venerdì scorso, infilandolo fra due provvedimenti che giustamente hanno catalizzato un'attenzione molto maggiore da parte dei media e dell'opinione pubblica: la riforma del lavoro e la delega fiscale. Fatto sta che, dei tre testi su cui si è discusso nell'ultima infinita riunione del Consiglio dei ministri, quello in favore degli istituti di credito è l'unico ad entrare immediatamente in vigore. Morale della favola: nessuno tocchi le commissioni bancarie.
In sostanza, l'ennesimo decreto approvato dalla squadra Monti ha come unico scopo quello di annullare una norma inserita nel pacchetto sulle liberalizzazioni, il cosiddetto "cresci-Italia", che è diventato legge appena giovedì scorso con l'approvazione definitiva della Camera. La misura -introdotta al Senato con un emendamento del Pd, cui il governo aveva dato parere contrario - prevedeva il taglio delle commissioni bancarie su crediti, fidi (l'impegno a mettere una somma a disposizione del cliente) e sconfinamenti (l'utilizzo di fondi oltre il limite accordato dalla banca tramite il fido).
Niente da fare, abbiamo scherzato: con l'ultimo decreto il governo limita la nullità delle commissioni a quelle banche che non si adegueranno alle future disposizioni sulla trasparenza dettate dal Cicr (il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio). Un modo politicamente corretto per dire "nessuna banca".
Il dato più interessante è che questa correzione in extremis ha incontrato una larghissima approvazione in Parlamento. Anzi, il decreto ricalca praticamente alla lettera un ordine del giorno presentato dalla maggioranza, con in calce le firme di esponenti Pd, Pdl e terzo polo. Un elemento in più - se mai ce ne fosse bisogno - per valutare la labirintite che affligge gli uomini del Partito democratico, ridottisi a chiedere di cancellare un emendamento che loro stessi avevano presentato.
Ma per quale ragione la correzione non è stata inserita all'interno dello stesso provvedimento sulle liberalizzazioni? E in ogni caso, con la bulimia legislatrice di questi tempi tecnici, non si poteva infilare in uno qualsiasi dei testi che attualmente viaggiano in Parlamento? No. E la ragione ha del fantozziano.
Il governo ha scelto di non modificare l'emendamento durante la discussione alla Camera perché questo avrebbe reso necessaria una terza lettura al Senato, mettendo l'intero decreto "cresci-Italia" a rischio scadenza (fissata per il 24 marzo). All'inizio si era pensato di procedere con un nuovo emendamento, stavolta al decreto semplificazioni, ma anche in questo caso l'aggiunta avrebbe imposto una terza lettura a Palazzo Madama. Tutte lungaggini di Palazzo che le banche non potevano permettersi.
La norma che avrebbe dovuto annullare le commissioni è entrata ufficialmente in vigore domenica, con la pubblicazione del decreto liberalizzazioni in Gazzetta Ufficiale. Se l'annullamento della misura fosse arrivato anche solo con qualche ora di ritardo, per gli istituti di credito sarebbero stati dolori. Non solo per i minori introiti e per i fastidi legati all'obbligo di modifica delle procedure interne, ma anche perché poi avrebbero rischiato una serie di contenziosi legali, soprattutto con le agguerritissime associazioni dei consumatori. Era quindi vitale che il virus anti-banche e l'antidoto salva-banche arrivassero esattamente allo stesso rintocco d'orologio.
Così è stato, e ora l'Abi può esultare. A inizio mese i vertici dell'Associazione bancaria italiana si erano dimessi proprio per ottenere questo risultato. Dopo qualche settimana, quando ormai si era capito che il pressing sull'Esecutivo aveva dato i suoi frutti, le dimissioni erano state "congelate". C'è da scommettere che non ne sentiremo più parlare.
L'Abi ha espresso "soddisfazione e apprezzamento" per la "sensibilità" dimostrata dalla politica italiana. Secondo l'Associazione, l'eventuale annullamento delle commissioni sulle linee di credito avrebbe causato agli istituti una perdita da 10 miliardi di euro, mettendo a rischio addirittura 80 mila posto di lavoro.
Ricordiamo che a dicembre il sistema bancario italiano ha incassato 116 miliardi di euro dei 489 messi a disposizione dalla Bce nell'ambito dell'operazione Ltro, che garantisce prestiti triennali al tasso ridicolo dell'1%. A febbraio la seconda puntata (Ltro2) ha portato nel nostro Paese altri 139 miliardi, su 529 complessivi. Il tutto con la possibilità per gli istituti di acquistare con quei soldi titoli di Stato e speculare sulla differenza dei rendimenti (oggi il tasso d'interesse sui Btp decennali è superiore al 5%). Ma di questo ovviamente ci siamo già dimenticati.