di Vincenzo Maddaloni

I presupposti ci sarebbero tutti per ricavare un  profilo aggiornato dei 150 anni del Paese, da questo inedito rapporto tra  Mario Monti e il suo governo da una parte e l’ampia maggioranza del mondo cattolico - gerarchie comprese - dall’altra. Era dai tempi della prima Repubblica che non accadeva, sebbene il contesto sia oggi diverso, molto diverso, quasi inedito. Un tempo, quando il mondo - ricordate - era diviso in due blocchi, in Italia c’era un governo della Dc quale baluardo dei credenti contro gli “atei” comunisti. Nell’èra della globalizzazione invece, c’è il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca centrale Europea. Con a capo Mario Monti, che è l'esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg club http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg, nonché consulente della banca americana di Goldmann-Sachs e di Coca Cola company.

E' insomma un uomo del grande capitale al quale non dispiacerebbe - per sua stessa ammissione - contribuire alla costituzione di un Nuovo ordine mondiale. Naturalmente, egli è uno dei fautori della globalizzazione la quale, costringendo i paesi a dipendere gli uni dagli altri, favorisce in modo determinante  l'affermazione delle imprese multinazionali con tutta una serie di conseguenze. La prima è un pesante aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Nel mondo globalizzato, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione.

Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40 per cento: dal 1950 il commercio mondiale è stato moltiplicato per undici, la crescita economica per cinque. Si tenga a mente che durante lo stesso periodo, non solo non si è verificato un innalzamento regolare del livello di vita media, ma si è viceversa assistito ad un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente.  Cosicché Il PIL reale per abitante nei paesi del Sud ammonta oggi a solo il 17 per cento di quello del Nord. Si aggiunga anche che il mondo industriale, che non rappresenta più di un quarto dell’umanità, detiene l’85 per cento delle ricchezze della Terra. Infine, I paesi membri del G7 rappresentano l’11 per cento della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta.

Insomma la globalizzazione crea modelli di società che sono l’esatto contrario di quello che la Chiesa non dovrebbe dimenticare quando cita Gesù: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». (Lc6,20,23). E «Guai a voi, ricchi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete». Quindi povertà e ricchezza sono un problema di fede perché Gesù - secondo i resoconti dei Vangeli - non è vissuto nell’indigenza e tanto meno nella ricchezza, ma ha scelto per sé una condizione di povertà. E quindi ha proposto come un valore positivo appunto la povertà e non l’indigenza, ossia la condizione estrema in cui si muore di stenti.

Questi pochi cenni dei sacri testi mal si conciliano con le aperture di credito rivolte fin dal primo momento dalla Santa Sede al governo Monti. Infatti il professore, subito dopo l’incarico e prima di sciogliere la riserva, aveva ricevuto una telefonata personale di sostegno da parte del papa Benedetto XVI. Poi dal giorno della formazione dell’esecutivo, gli incoraggiamenti del segretario di Stato Tarcisio Bertone al nuovo inquilino di Palazzo Chigi sono stati ben tre e tutti di grande evidenza. Il cardinale, formulando gli auguri al governo, lo benediva con queste parole: «Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro perché il lavoro è tanto e difficile, ma penso che sia attrezzata per affrontarlo». Poi ancora, quindici giorni fa, esprimeva l’auspicio che il premier possa «andare avanti». Infine, martedì della scorsa settimana, il cardinale Bertone  ritornava a parlare dell’esecutivo e della manovra “salva-Italia” sostenendo di apprezzarla perché «i sacrifici fanno parte della vita». E dunque, come mai non era accaduto prima, sulla scia del segretario di Stato si sono uniti al coro dei fans di Monti i catto-progressisti delle Acli, di Famiglia cristiana e dell’Azione cattolica, i conservatori di Comunione e Liberazione, gli ex democristiani e gli ex sessantottini di Sant'Egidio, tra l’altro premiati con un ministero ad Andrea Riccardi che è tra i laici cattolici più accreditati in Vaticano.

All’origine di una così larga mobilitazione c’è il timore di perdere in contatto con la società poiché in Italia, come altrove in Occidente, la cultura dei consumi ha fatto diffondere stili di vita che si riassumono nella “generazione del me”, nelle masse di coloro che “fanno gli affari propri” e dove “capita” e che tollerano sempre meno un’etica religiosa ancorata ai suoi punti fermi. Poiché il consumo, da qualche tempo ormai, non è più riferito all’acquisto di cose che dovrebbero soddisfare delle necessità, ma ha inaugurato nuove regole di stile di vita secondo le quali, «gli individui vanno incoraggiati a scegliere con attenzione, sistemare, adattare ed esibire i propri beni. Che essi siano mobili, case, automobili, indumenti, o il proprio corpo o le attività del tempo libero», come osservava (già quindici anni fa) il sociologo Mike Featherstone.

Infatti, benché la sfera pubblica non sia mai stata qualcosa di interamente sgombro dal religioso, organismi nati in contesti religiosi e supportati dal pubblico - come per esempio istruzione, salute, cura degli anziani - stanno perdendo col passare degli anni clienti e pazienti. Naturalmente l’ombra del campanile che si accorcia crea nella gerarchia ecclesiastica non poche preoccupazioni e quindi via a iniziative di lungo corso che al primo approccio non sembrano facili da decifrare.

Sulla possibilità, per esempio, che l’ICI venga estesa agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (un miliardo la stima minima) inaspettata è stata la riposta del cardinale Bagnasco: «Se abusi si dovessero accertare», ha raccomandato il presidente della Cei, «siano essi perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti». Il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha usato toni ancor più tranquillizzanti ribadendo la propria disponibilità poiché l’ICI rappresenta «un problema particolare», da «studiare e approfondire». Infatti, secondo alcune rilevazioni, addirittura il venti per cento del patrimonio immobiliare italiano farebbe capo alla Chiesa. Il catasto comprenderebbe cento mila fabbricati, il cui valore si aggirerebbe attorno ai nove miliardi di euro. Le stime di settore parlano di circa cento e quindici mila immobili, quasi nove mila scuole e oltre quattro mila tra ospedali e centri sanitari. Soltanto a Roma ci sono ventitré mila tra terreni e fabbricati, venti case di riposo, diciotto istituti di ricovero e sei ospizi che le appartengono.

Naturalmente, la sostanziale disponibilità espressa dalle gerarchie vaticane a estendere il pagamento dell’ICI ad alcune attività tutt’ora esenti si può prestare a diverse interpretazioni. C’è più d’uno che la interpreta come la risposta al discorso del Papa di domenica 25 settembre, a Friburgo, quando Benedetto XVI, parlando alla Chiesa tedesca - ricca e strutturata - aveva ricordato come lungo la Storia «le secolarizzazioni - fossero esse l’espropriazione di beni o la cancellazione di privilegi - significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena».

Per molti altri invece va interpretata come un segnale di riconoscenza degli alti prelati per aver ottenuto dentro il governo varato dal cattolicissimo Monti, alcuni uomini direttamente riconducibili ai vertici della Chiesa cattolica. Se si tiene a mente il sostegno smaccato concesso in questi anni dalle gerarchie vaticane e da gran parte dell’episcopato italiano al governo Berlusconi, ancora più sorprendente appare il risultato ottenuto da Bagnasco, il cardinale della perdonanza e delle cene segrete (rivelatasi poi non proprio segrete) con Berlusconi. Una vera e propria lottizzazione in termini di presenze di “area”, degna del manuale Cencelli, come sottolinea Valerio Gigante su La Repubblica. http://temi.repubblica.it/micromega-online/da-todi-a-roma-c’é-tanto-vaticano-nel-nuovo-governo/.

Malauguratamente l’eclatante successo che dovrebbe consolidare le fortune del cattolicesimo in Italia è offuscato da un malcontento che s’ingrossa. Esso è rappresentato dalle migliaia e migliaia di persone che si sono mobilitate per sottoscrivere l’appello - eliminare i privilegi sull’ICI di cui la Chiesa cattolica gode - lanciato da Micromega. E inoltre da un’ampia fascia di devoti che rimprovera alla gerarchia di avere eretto l’immagine di Gesù che benedisce i banchieri fautori dell’economia globale, come nuovo simbolo della Chiesa universale. Accade perché, «l'utopia dello Stato mondiale sembra unire le aspirazioni dei banchieri e delle multinazionali a quelle della gerarchia ecclesiastica», scrive un osservatore attento come Martino Mora. Che spiega: «Giovanni XXIII è stato il primo pontefice a profilare la necessità e l'auspicabilità di un unico governo mondiale nell'enciclica “Pacem in terris”(1963).

Vi affermava la necessità di “un'autorità politica con competenze universali”… “in cui il potere, la costituzione e i mezzi d'azione abbiano essi stessi dimensioni mondiali, e che possa esercitare la sua azione su tutta la terra”… E’ però nella “Caritas in veritate” (2009) di Benedetto XVI che l'idea dello Stato mondiale viene espressa con altrettanta chiarezza, ma con maggiore approfondimento che nell'enciclica giovannea del 1963.» http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41231. Predica infatti Benedetto XVI: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è già stata tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII... Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione a un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle nazioni Unite».

Parte da questa “urgenza” evocata dal Papa l'iniziativa promossa dalla Pontificia Università Gregoriana, lo storico ateneo dei Gesuiti, dove è stato progettato - nel Centro Fede e Cultura "Alberto Hurtado" - un nuovo seminario internazionale di "formazione alla democrazia",  aperto a laici e cattolici senza distinzioni partitiche, di gruppo o di bandiera. Tra i temi trattati, l'unità dell'Europa, l'economia ai tempi della globalizzazione dei mercati, il federalismo solidale, l'apporto del cattolicesimo sociale e politico, le proposte per una nuova governance globale.

Insomma, come ha spiegato il direttore del corso, monsignor Samuele Sangalli, «abbiamo raccolto una domanda presente di vera e seria formazione all'etica pubblica. Il nostro intendimento, infatti, è quello di dare una formazione rigorosa e di accogliere così l'invito del Papa espresso nella “Caritas in Veritate”, a «formare dei laici che un domani si sappiano prendere cura di quella che Paolo VI chiamava la più alta forma di carità», cioè la politica. Vale a dire che sono i gesuiti, che da sempre operano sul piano culturale ai massimi livelli accademici in tutto il mondo, che istruiranno «la nuova generazione di laici cattolici da far entrare nell'ambito pubblico con spirito di servizio».

Questo accade nel Paese. Se si pensa a qual era - cento cinquanta anni fa, agli albori dell’Italia unita, il rapporto tra papa Pio IX e il conte Camillo Benso di Cavour, di strada la Chiesa ne ha fatta. E parecchia.

di Fabrizio Casari

Non ci si sono molti margini, dice Monti nel salotto ruffiano della tv, per modificare la manovra. E’ forse l’unica verità che abbiamo sentito in questi giorni, dal momento che alterarla nella sostanza, fosse pure per alcuni capitoli, implicherebbe il venir meno della ratio politica della stessa. Che si fonda su una lettura della crisi e di come uscirne tutta a vantaggio dei poteri forti a favore dei quali il governo Monti lavora. Una manovra, quella orchestrata, che definire iniqua è un eufemismo, visto che toglie diritti e salvaguarda privilegi. Non fatta, come dice il professore, per salvare l’Italia, ma per ristrutturarla in favore delle nuove necessità di chi comanda.

Preliminarmente va detta una cosa: i facili entusiasmi che si sono scatenati per la riduzione dello spread, andrebbero attribuiti a tre aspetti, dei quali solo uno oggetto della manovra, cioè quello nella quale lo Stato s’impegna a garantire le esposizioni bancarie (prova ne sia che la giornata felice di borsa di martedì ha visto proprio i titoli bancari trainare la volata). Del resto, è chiaro che la protezione del sistema bancario è necessaria per impedire il crollo dei fidi e della liquidità su cui si reggono le economie di famiglie e imprese. Ma gli elementi decisivi per la ripresa borsistica sono stati la minaccia di S&P di declassare tutta l’eurozona, comprese Germania e Francia (e, quindi, con un implicito riconoscimento di un eccesso di differenziale nei confronti dei nostri titoli) e con le voci sempre più insistenti delle modifiche al trattato Ue in ordine alle prerogative della BCE che la Merkel si prepara ad accettare. Altro che la ragioneria di Monti.

La cui manovra, comunque, diversamente da altre ordinarie, si compone di due elementi forti: l’intervento immediato, destinato a fare cassa, e quello - molto più importante - di tipo strutturale, destinato cioè alla rimessa in carreggiata dei conti pubblici. Per la prima parte si è proceduto all’aumento vertiginoso di ogni tipo d’imposta, unitamente ai tagli su sanità e trasporti; aumenti enormi sui carburanti e dell’Iva che genereranno un’impennata dei prezzi di prodotti e servizi, cui si somma un’imposta sulla casa che non prevede esenzioni nemmeno per la casa di proprietà e nemmeno nel caso in cui, oltre ad essere l’unica casa, sia già indirettamente tassata dagli interessi passivi del mutuo in corso. La mancata indicizzazione delle pensioni è poi il colpo di grazia a milioni di anziani. Il risultato sarà un aumento generale dell’impoverimento del paese che condurrà dritti verso la depressione economica.

Proviamo a vedere, pur sommariamente e solo parzialmente, cosa si poteva fare e si è scelto di non fare per l’intervento immediato. Si poteva cominciare da una legge patrimoniale tarata sull’aliquota francese (10% di tassazione); proseguire con un’asta per le frequenze televisive (cifra minima stimata 3,5 miliardi) come già avvenuto per le frequenze in concessione ai gestori della telefonia; rivedere il contratto per la fornitura dei nuovi F35 per l’aviazione militare (15 miliardi solo nel 2012) per un aereo già considerato sorpassato dall’omologo russo Sukoy; prevedere l’estensione dell’ICI agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (1 miliardo la stima minima); decidere il blocco delle spese per la Tav (8 miliardi per 80 km inutili); decretare la tassazione al 20% dei capitali scudati (8 miliardi); abolire il 50% delle auto blu (2,5 miliardi annui).

Se dunque si volevano rastrellare i 22 miliardi della manovra 2012-2013 non era difficile evitare di toccare diritti, almeno da un punto di vista contabile. E molto, ma davvero molto, si potrebbe ancora tagliare, a cominciare dagli sprechi, per razionalizzare e ridurre, ancorché ottimizzare, la spesa pubblica. Ma dal momento che il taglio della manovra è soprattutto politico e non contabile, si è voluto inviare un segnale chiaro ai mercati europei e d’oltre oceano nel segno dell’affidabilità, cioè dell’attrattività del sistema Italia per chi vuole allegramente continuare a speculare sui titoli e individuare terreni di caccia nella privatizzazione dei servizi pubblici.

Se si passa gli interventi strutturali, quelli cioè destinati a innescare un’inversione di tendenza a lungo termine del rapporto sbilanciato tra Pil e debito, l’essenza della manovra è stata quella di abolire le pensioni d’anzianità, portare l’età lavorativa delle donne al pari di quella degli uomini (ma le donne svolgono anche il lavoro di cura) e innalzare fino a settant’anni l’età pensionabile, in un contesto nel quale la disoccupazione generale è arrivata ai massimi storici e per i giovani al sud tocca punte del 50%. Insomma una politica che prevede, per il risanamento dei conti, la riduzione ai minimi termini del welfare piuttosto che l’allargamento dei diritti di cittadinanza. Non è solo contabilità pelosa: è il frutto di una lettura sistemica (e di classe) sull’organizzazione sociale ed economica di un paese e porta con sé una concezione della democrazia come governo delle elites (di cui i tecnocrati sono parte importante) e non del popolo. Ovvio quindi che i sindacati non siano ascoltati: se il popolo non conta, cosa vuoi che conti chi lo rappresenta?

Sempre in tema di manovra strutturale, nessun cenno alle politiche di sostegno alla crescita, mentre l’equità è destinata a fare la fine delle pensioni d’anzianità. Nemmeno una norma d’igiene politica, come quella di assegnare i fondi alle imprese solo con vincoli occupazionali. Eppure, pur senza proporre concezioni socialiste dell’economia, pur senza voler negare l’inserimento del paese in un sistema internazionale che non prevede uscite uniche e rapide, si poteva certamente proporre ben altro cammino. Spostare parzialmente il peso della fiscalità dal lavoro alle rendite e ai patrimoni sarebbe stata la linea giusta. Per il sistema pensionistico sarebbe necessario la  riforma che veda la separazione netta tra previdenza e assistenza: la seconda si dovrebbe pagare con il fondo nazionale per l’assistenza, in carico alla fiscalità generale, la prima con i contributi degli occupati. Una norma semplice, che solo in Italia è difficile concepire. Ma non sarebbe la sola possibile.

Senza volerci qui dilungare sulle medicine meno amare e, soprattutto, più efficaci, è solo il caso di evidenziare il bisogno di un’altra politica economica che però davvero non può offrirci un governo i cui molteplici conflitti d’interessi, amplificati dalla presenza diretta dei rappresentanti degli stessi, superano ogni precedente. Per fare alcuni esempi, del resto, sarebbe stato bizzarro che il generale De Paola, che svolse un ruolo importante per l’acquisto dei nuovi F35, oggi avesse proposto la sua rinegoziazione; che il banchiere Passera, che della capacità di dirigere i profitti sugli azionisti e le perdite sullo Stato è esperto, avesse proposto un decreto per separare i destini delle banche d’affari da quelle d’interesse pubblico; o che i probi e cattolicissimi professori avessero proposto la fine dei privilegi vaticani che così tanto costano a tutti i contribuenti.

Servirebbe quindi un altro governo per un’altra politica. Idee e gambe per invertire la rotta, per riportare alla realtà economica un paese che ha sì 1900 miliardi di debito ma che dispone di quasi 9000 miliardi di ricchezza tra i suoi cittadini. Chi l’ha detto che il destino obbligato è il default o la crisi perenne? In fondo, per bilanciare il rapporto tra entrate e uscite, ci sono solo due strade: o si aumentano le entrate, o si riducono le uscite. Nel primo caso si deve lavorare all’allargamento della platea contributiva, cioè a maggior numero di occupati e, quindi, al ricorso di politiche attive per il lavoro anche grazie alle incentivazioni fiscali per le imprese. In secondo luogo si deve andare, con la forza, a recuperare i 260 miliardi di euro di evasione fiscale e contributiva. Le maggiori entrate alla fiscalità generale darebbero migliore rapporto con i costi, garantirebbero meglio la tenuta del patto generazionale tra chi lavora e versa e chi percepisce la pensione dopo aver versato per una vita e il maggiore potere d’acquisto dei salari incrementerebbe la domanda interna, volano principale di ogni economia.

Perché tra le tante anomalie italiane, la più decisiva è proprio quella dell’evasione fiscale. Se sconfitta, o anche solo ridotta a quota fisiologica, il bilancio dello stato da passivo diventerebbe attivo e ci sarebbero le risorse sufficienti per finanziare un welfare riformato e aggiornato. Ebbene, la lotta acerrima contro l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, che sottrae alla fiscalità generale risorse pari a tre volte l’intero PIL, pare sia disdegnata da Monti, mentre addirittura scartata è la possibilità di un’imposta patrimoniale. Per la prima sarebbe necessaria una legislazione apposita, fatta di pochi articoli ma inequivocabili, che prevedessero il carcere duro e di lunga durata per il reato di evasione e la cancellazione dall’Albo e l’arresto per gli studi tributaristi che concorressero a dichiarare il falso.

Un’azione repressiva netta, che impiegasse risorse importanti per la caccia all’evasione, sarebbe il miglior investimento strutturale per l’Italia e la sua economia, oltre che la sua etica. Non c’è bisogno d’ispirarsi alla Rivoluzione d’Ottobre, basta copiare integralmente le norme statunitensi. Quanto alla patrimoniale, dice il professore che è difficile individuare i proprietari dei patrimoni e che, pur riuscendoci, non sarebbe il caso di perseguirli, perché fuggirebbero pur di non pagare determinando così fuga di capitali. Ah si? Fuggirebbero? E per andare dove? In Europa dove sono tassati duramente? E come mai i patrimoni francesi, nonostante il 10% di aliquota non scappano? Forse perché ci sono i mandati di cattura internazionali, le rogatorie internazionali e i sequestri dei beni? E di quale fuga di capitali si parla, nel caso? Quella di capitali immobili e non investiti?

Serviva offrire un messaggio diverso, al paese e all’estero. Davanti ad una crisi epocale, questa sì di sistema, dove il turbo capitalismo dimostra un bisogno di accumulazione originaria ogni giorno più vorace e socialmente più escludente, che fa della finanziarizzazione dell’economia e della guerra al lavoro la cifra essenziale del suo sviluppo, ci si poteva almeno attendere un’idea diversa da quella della mera salvaguardia dei suoi fallimenti e di continuità nelle scelte. Anche a voler comunque governare l’emergenza sui mercati, si potevano concepire manovre brusche di messa in sicurezza dalla speculazione, invece di accarezzargli il pelo. Lo farà probabilmente l'Europa e noi ci accodremo, nostro malgrado.

Detto con franchezza, non c’era bisogno di professori bocconiani per un’opeazione che anche un ragioniere diplomato al Cepu è in grado di realizzare: tagliare con la falce il bilancio pubblico è operazione semplicissima se non si risente né di cultura politica democratica, né di dover rappresentare la maggioranza degli italiani. Che però, prima o poi, torneranno alle urne e, c’è da scommetterci, ricorderanno nomi, cognomi e sigle di chi ha votato in Parlamento la macelleria sociale che disegna i nuovi parametri su cui si erige la nuova e ancora più ingiusta Italia.

 

di Mariavittoria Orsolato

Ce l’ha messa tutta Mario Monti in conferenza stampa. Prima di presentare ufficialmente quella che si era annunciata come LA manovra lacrime e sangue, il premier ha deciso di rivolgersi agli italiani per spiegare in toni paternalistici le grandi linee delle misure che a breve saranno imposte per decreto. L’incedere lento, a tratti ipnotico, del professor Monti probabilmente mirava ad un effetto tranquillizzante sugli astanti ma quanto detto a seguito del Consiglio dei Ministri più che un discorso da “padre della nazione” ha finito per risultare l’affermazione di un “padrone del vapore”.

Partito con uno statement che più populista non si può - “rinuncio allo stipendio di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’Economia” - Monti ha poi snocciolato una ad una le massime del neoliberismo alla Milton Friedman, spacciandole per taumaturgiche pozioni in grado di ridare respiro ai conti pubblici e con un non meglio specificato criterio di equità sociale. Concorrenza, liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità, sacrificio: queste le parole ricorrenti con cui la squadra di Monti ci ha imboccato durante la conferenza stampa. Sull’ultima di queste c’è persino scappato il pianto del Ministro del Welfare Elsa Fornero che, o perché colta da un attacco di pietas verso i poveri vecchietti o perché abilmente conscia della sua arma di distrazione, è scoppiata in lacrime nell’annunciare il blocco della scala mobile sulle pensioni.

Questa e altre misure di austerity che verranno commentate da più esperti “esperti” una volta reso pubblico il testo completo, verranno a breve calate dall’alto tramite il meccanismo del decreto legge, tanto deprecato durante l’era Berlusconi in quanto lesivo del dibattito parlamentare ed ora rivalutato in funzione della consolatoria quanto effimera logica del male minore. La “tecnocrazia” propugnata da Monti e dai suoi specialisti non può infatti lasciare sufficiente respiro ad una vera concertazione e deve limitarsi ad eseguire i dettami - ufficialmente patriottici, ufficiosamente europei - che il mercato, inteso ormai come ecosistema, ordina e impone. Gli incontri con le parti sociali e le forze politiche sono infatti avvenuti nel momento in cui il testo della manovra era già stato deciso e messo per iscritto e c’è voluta una polemica a mezzo stampa per far sì che la spiegazione di queste cruciali misure non avvenisse direttamente nel salotto di Bruno Vespa.

Da questo primo sguardo, il supergoverno Monti non sembra il Direttorio che gli sguardi entusiasti ci avevano dipinto all’indomani della fine dell’era Berlusconiana: un gran consiglio imbelle a livello politico ma abilissimo nel risanare le casse pubbliche secondo le ricette stranote e perdenti. Mario Monti risulta autoreferenziale, sicuro delle sue scelte perché competente e assolutamente restio a confrontarsi con un idea di azione diversa dalla dottrina economica studiata nei libri di testo della Bocconi. Chiudendosi al dialogo e rimanendo ancorata saldamente ai dettami dell’Unione Europea - o meglio dell’ipoteca tedesca sulla BCE - la nuova squadra di governo non ha fatto altro che imbellettare la causa di questa crisi economica e sociale per rivendercela come unica e auspicabile soluzione.

Nonostante si dimostri snobisticamente disinteressato alla politica, questo esecutivo ha di fatto optato per una politica di destra che non intacca lo status quo ma che, anzi, punta a conservarlo a scapito di quell’equità tanto sbandierata, ma disattesa del tutto dinanzi a quella stessa società cui si chiede di tirare la cinghia, di adattarsi, di sacrificarsi.

La titubanza, l’imbarazzo quasi, con cui Monti si è espresso nell’iniziale “monologo con i cittadini” denota se non altro la candida impreparazione dell’attuale premier a mentire consapevolmente di fronte al grande pubblico. Nei 10 minuti del suo primo vero discorso alla nazione, il professore ha però comunque perseguito la captatio benevolentiae secondo canoni assolutamente politici. Come ha sottolineato il blogger Jumpinshark: “In più passi si percepiva come Monti stesse cercando l'eufemismo massiccio (l'opera dei passati governi), la benevolenza verso il pubblico (gli ammortizzatori sociali), la difesa a catenaccio (l'Europa ce lo chiede), l'enfasi trinciatutto (il risorgere dell'Italia) dentro i quali formare il proprio pensiero”.

Una prestazione di certo diversa nei toni - essere morigerati è un altro degli obblighi imposti dal “nuovo corso” - ma non del tutto dissimile negli intenti di depauperamento fino ad oggi previsti per una larga fetta degli italiani, giovani in primis. Si parla ancora di aiuti alle famiglie (per i single o le coppie di fatto nessuna menzione), di aumenti minimi delle imposte sui patrimoni al rientro dai paradisi fiscali (dal già striminzito 5% al ridicolo 6,5%), di liberalizzazione delle professioni in nome di una concorrenza che in quanto libera sarà deregolamentata. E a voler essere maliziosi viene da pensare che se Berlusconi è stato defenestrato non è perché avrebbe fatto macelleria sociale, ma perché ne avrebbe fatta troppo poca e, soprattutto, con stile deprecabile.

L’inevitabile sensazione dunque è che si sia persa, per l’ennesima volta, una preziosa occasione storica: esaurito (forse) il ventennio berlusconiano, l’Italia poteva scegliere di cambiare rotta, di sterzare verso un modello socioeconomico differente, ma il padrone del vapore ha deciso che è meglio virare solo di 30°, sperando di non urtare l’iceberg. E, meno che mai, gli interessi che lo sostengono.

 

di Mariavittoria Orsolato

Il nuovo governo Monti, se non ha galvanizzato i mercati come sperato - purtroppo per noi, il tanto temuto spread con i bund tedeschi continua a salire - ha però raccolto ciechi proseliti tra la maggioranza degli italiani che, ormai stremati dal ventennio berlsuconiano, hanno accolto il cambio come un evento salvifico a prescindere. Non è però tutto oro quello che luccica e, nel caso del nuovo esecutivo, a luccicare per ora è il piombo.

Mentre da Palazzo Chigi si chiedono enormi sacrifici agli italiani per recuperare 30 miliardi di euro in un solo biennio, ieri pomeriggio la Commissione Difesa alla Camera ha discusso cinque programmi di acquisto di armamenti militari, la cui spesa preventivata ammonterebbe all’esorbitante cifra di 500 milioni di euro.

Nel dettaglio dovrebbero essere stanziati 198 milioni di euro per 477 “lince” - i veicoli tattici leggeri prodotti da Iveco e utilizzati ultimamente contro i valligiani No Tav - 157 per altri veicoli tattici multiruolo (stavolta di medio calibro) 10 milioni di euro per un numero imprecisato di blindati con cannoni da 120 millimetri e poi “sistemi acustici per la localizzazione delle sorgenti di fuoco”, barriere antisfondamento, veicoli automatici di perlustrazione per altri 56,3 milioni. Senza contare la partita di 121 cacciabombardieri F35 per cui, come già prontamente segnalato nelle proteste studentesche e pacifiste, l’Italia ha preventivato di spendere la bellezza di 16 miliardi di euro.

Tutti soldi che il Paese potrebbe destinare subito ad altri e ben più nobili scopi ma che il nuovo esecutivo pare voglia riservare agli armamenti per una non meglio precisata difesa nazionale e per le missioni all’estero che non ha alcuna intenzione di revocare (un militare alla Difesa non può che essere letto in questo modo). Monti certo non c’entra, ma solo nel 2010 per le spese militari italiane sono stati stanziati 3,4 miliardi di euro in più rispetto all’anno precedente, con un aumento percentuale dell’8,4%. Come ha segnalato Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano, il conto generale per foraggiare il comparto marziale sale a quota 20.556,9 milioni di euro, corrispondente all’1,283% del Pil e colloca l’Italia all’ottavo posto al mondo per spese militari con il dato record di ben 3 milioni spesi ogni ora solo per gli armamenti.

Da sempre le crisi economiche si provano letteralmente a combattere con le operazioni belliche e l’industria pesante. Pare che anche stavolta non si voglia cambiare registro e gli ultimi report dell’IAEA (l’agenzia internazionale sull’energia atomica) riguardo all’Iran hanno già indicato quello che in tempi non troppo dilatati potrebbe risultare il nuovo ghiottissimo target.

Mettendo da parte il futuribile fantapolitico, i cinque programmi in discussione ieri fanno parte di un più ampio progetto di digitalizzazione delle forze di terra avanzato dal Ministero della Difesa nel 2009 e inserito nel programma pluriennale di spesa. A beneficiarne sarà soprattutto la crème della grande industria nostrana: Iveco, Fiat, Oto Melara, Finmeccanica, Fincantieri e AugustaWestland.

La lista della spesa militare italiana va quindi ben oltre i mezzi di terra: sono ancora in corso i programmi di acquisto relativi al 2010 e ce n’è per tutti i gusti. Solo nell’area interforze è prevista una spesa da 900,5 milioni di euro tra lo sviluppo di nuovi velivoli e l’implementazione del sistema WIMAX per l’accesso a reti di telecomunicazioni a banda larga e senza fili.

Nell’ambito dei programmi navali sono previste spese per 770,3 milioni: quelle più rilevanti riguardano l’acquisizione della nuova nave portaerei Cavour a Fincantieri da 52,7 milioni, di due fregate antiaeree di scorta classe Orizzonte per 95,6 milioni e dei sommergibili di nuova generazione U212 (110,4 milioni), oltre che l’ammodernamento di mezza vita di unità navali che ci costerà 22,7 milioni. Ci sono poi i programmi relativi agli elicotteri per 211 milioni nonché l’acquisizione del sistema missilistico superficie/aria FSAF da 23,7 milioni, mentre nel comparto aeronautico si prevedono investimenti per quasi un miliardo di euro.

Il capogruppo Idv in Commissione Difesa, Augusto Di Stanislao, ha presentato una mozione per chiedere di fermare lo “shopping” militare e rivedere i programmi di spesa in scadenza - entro il prossimo 3 dicembre, infatti, quella partita di carri e veicoli leggeri, deve ricevere l’approvazione formale - ma anche nella società civile sono già in moltissimi ad essersi mobilitati per contrastare questo piano di spese folli. Com’é noto, molti paesi - Stati Uniti in testa - hanno ripensato la loro spesa pubblica tagliando in primis quella destinata agli armamenti, e ora che all’Italia viene chiesto un enorme sforzo per far quadrare i conti non si capisce perché non si possano sacrificare queste voci di spesa, ingiustificate in un contesto di non belligeranza come quello in cui - per ora - stiamo vivendo.

di Fabrizio Casari

Dopo alcuni mal di pancia e alcune manovre obbligate di parziale riassetto della coalizione, il partito di proprietà di Silvio Berlusconi ha deciso di sostenere il nuovo governo. Ci sono diverse spiegazioni per questa scelta. Se infatti in una improbabile riconversione democratica della cultura istituzionale urlano al golpe, strepitano contro il commissariamento e ammoniscono contro l’operazione “di palazzo”, votano poi convintamente la fiducia all’Esecutivo. Del resto il PDL non trova nel programma di governo del professore elementi di politica economica così ostili e alcuni degli uomini che compongono il governo, per le idee che professano e gli interessi che rappresentano, sono certamente iscrivibili a un’area antitetica alla sinistra.

Soprattutto pensando ad alcuni neoministri e alla relazione con le gerarchie vaticane, che sostengono con furia e fede il nuovo governo, il PDL trova non pochi agganci con i propri interessi politici e patrimoniali. Vedere perciò il palco del Teatro Manzoni con al centro i tre direttori degli house horgan di famiglia gridare al complotto fa sorridere, soprattutto pensando al fatto che tanta animosità nel quadretto si spiega facilmente: caduto Berlusconi, i loro lauti stipendi sarebbero davvero a rischio. Il Cavaliere, invece, diversamente da Ferrara, Feltri e Belpietro, ragiona e vede lungo, sa cosa significa fare un passo indietro oggi per farne due avanti domani. Certo, qualcosa dovrà sacrificare alla contingenza politica, ma proprio la necessità di evitare le urne nell’immediato ha spinto la destra italiana a far nascere il governo Monti. Perché?

Perché per la prima volta, negli ultimi quindici anni, i sondaggi d’opinione assegnano al Pd, quale che sia la composizione del suo schieramento, la maggioranza relativa. Si potrebbe dire, con non troppa ironia, che forse proprio per questo non si è andati a votare. Certo é per questo che il PDL ha scelto di votare la fiducia a Monti. Giuliano Ferrara pare non essersene accorto, ma le urne da qui a due mesi e mezzo avrebbero rappresentato la definitiva sconfitta per Berlusconi. Il quale, oltre a vedere capitalizzare dalla sinistra il generale ripudio del Paese per il Cavaliere, sarebbe stato additato come l’uomo che, per salvare se stesso, non esita ad affondare il Paese.

Argomento durissimo da affrontare in una campagna elettorale che già si presenta in salita e con problemi di assetto interno non semplici da risolvere. Si aggiunga poi che un’eventuale, pesante sconfitta del Cavaliere avrebbe aperto la strada ad un governo che, sull’onda del mandato popolare, avrebbe forse messo davvero mano ad una serie di norme - dal conflitto d’interessi alla giustizia, dalla riforma fiscale alla normativa anti-trust - che prefigurerebbero una vera e propria debacle per Berlusconi e delle sue aziende.

Rimandando invece di qualche mese il voto, Berlusconi coglie due risultati: il primo è quello di riassettare il partito ormai slabrato, il secondo di avere il tempo per riorganizzare idee, persone e mezzi per lanciare una campagna elettorale durissima (cosa nella quale, però, Berlusconi è maestro). E, diversamente da quanto sarebbe stato affermato nel caso del voto immediato, potrà presentarsi in pubblico asserendo di aver fatto un passo indietro per il bene dell’Italia e che la sua uscita è stata determinata da un attacco speculativo sui titoli di Stato e non su una sua crisi di governabilità. Dunque, altro che interessi privati, ma alto senso del dovere e dello Stato l’hanno costretto a rinunciare al potere. Uno statista, no?

C'è ora un anno e mezzo di tempo a disposizione di Berlusconi per far dimenticare il rifiuto popolare nei suoi confronti. Un anno e mezzo dove nulla sarà risparmiato. La campagna elettorale lo vedrà candidato: le presunte nuove facce (Alfano in testa) sono bubbole. La situazione tutt’altro che rosea delle sue aziende lo obbliga a stare in campo con tutti i mezzi necessari; solo una vittoria potrà, come nel 1994, salvare se stesso e le sue proprietà dal mercato e dalle leggi vigenti.

Quanto ai provvedimenti annunciati da Monti, non a caso Berlusconi si è detto favorevole al ripristino dell’ICI ma non alla patrimoniale. Tassa di successione e patrimonio non si toccano, per le ville si può chiudere un occhio, che è persino utile. Potrà dire che lui aveva abolito l’ICI e chi l’ha sostituito l’ha ripristinata. Ad un paese nel quale 16 milioni di italiani posseggono una casa, il messaggio arriva forte e chiaro. La scommessa del cavaliere è quella di sovvertire i sondaggi per salvarsi. In questo senso, la campagna elettorale è già cominciata.


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