di Fabrizio Casari

L’uscita di scena, normalmente, è parte della recita e, tanto quanto la recita, indica le qualità di un buon attore. Quella di Berlusconi è stata in linea con il personaggio: un inchino dovuto agli applausi dei comprimari, un gesto di sfida verso il nuovo set che si va allestendo. L’inchino agli applausi dei comprimari è un ringraziamento sentito: il do ut des che ha permesso a oscuri personaggi di quarta fila d’ingrassare e ingrossare il proprio curriculum in cambio del servile contributo alla causa dei suoi interessi che ha caratterizzato i diciassette anni lungo i quali si è snodata l’avventura del cavaliere.

L’ultima seduta della Camera con Berlusconi a capo del governo è arrivata a seguire l’ultimo Consiglio dei Ministri, malinconico e privo di futuro. Perché Berlusconi potrà anche ricandidarsi, potrà anche cercare l’ennesimo colpo di reni, ma non sarà più quel che è stato, alfa e omega di un blocco sociale, verbo del nuovo qualunquismo, occasione di liceità per gli impulsi impolitici di un Paese da sempre ostile al frequentare la responsabilità e il senso dello Stato che caratterizzano le grandi nazioni.

Berlusconi è stato molto amato dai suoi e molto detestato da chi suo non lo era o non rimase tale sempre. Le facce, il corpo, le parole e gli atti di un modo di governare indifferente al senso dell’opportunità, al dovere della responsabilità verso il Paese lo hanno contrassegnato. Nella storia delle diverse stagioni della politica italiana, quello di Berlusconi è stato l’unico regime concepito, costruito e alimentato per e con la supremazia degli affari privati del capo. Le sue aziende e la loro fortuna, i suoi vizi privati e un piccolo esercito chiamato a servire l’imperatore e a servirsi a sua volta dell’impero, non hanno conosciuto precedenti simili, a nessuna latitudine. Nulla, nel suo governare, ha avuto il segno del bene comune, tutto è stato ad personam, persino la legge elettorale.

Ma il personaggio non è stato solo questo. Berlusconi è stato capace di tenere insieme l’establishment e gli esclusi, faccendieri e politicanti, evasori e corruttori, vittime e carnefici, trasformando il Paese intero in un palcoscenico dove attori e comprimari si scambiavano i ruoli. Ed è stato capace di creare un blocco sociale di consenso numericamente enorme, anche perché socialmente trasversale: operazione resa possibile, soprattutto, da un’abilità straordinaria nella propaganda politica.

Compito certo resogli più facile grazie alla sproporzione di mezzi a disposizione nei confronti degli avversari, ma onestamente frutto anche di una capacità superiore nel saper interpretare gli umori popolari, nel saper elevare gli istinti più beceri dell’egoismo nazionale a senso comune, nel saper piegare i bisogni collettivi ai suoi bisogni familiari. Il tutto sempre con la capacità di occupare il centro della scena, di saper imporre la sua agenda privata sulla congiuntura politica.

E anche nelle modalità dell’ultima crisi, quella finale, è stato capace di sceglierne i tempi, i riti, le gestualità; scansata la sfiducia per non cadere sul campo, ha scelto quando uscire, come uscire e il modo di uscirne, pur nell’ambito di un epilogo inevitabile: insomma una regia ad personam per il suo ultimo film.

L’anomalia di Berlusconi, però, non è stata solo quella di scegliere i tempi e le modalità di comunicazione della politica, ma anche quella di governare per diciassette anni senza avere un progetto per l’Italia, considerata sempre e solo il bacino di utenza delle sue ambizioni, del suo narcisismo, dei suoi affari. Mai nel cavaliere è prevalsa un’idea di modello di società da proporre, bensì la progressiva destrutturazione di ogni cemento sociale e culturale, obiettivi ai quali ha dedicato ogni energia, ogni mezzo, lecito e illecito. E’ sceso in campo con la forza delle sue televisioni e dei suoi miliardi, riuscendo a moltiplicare la sua presenza nel sistema mediatico e costruendo la sua vera fortuna patrimoniale.

Nella giornata appena conclusa si è riproposta, nel perimetro di Montecitorio, la storia di questi diciassette anni: lui al centro dell’emiciclo che riceve gli applausi dei suoi deputati, mentre fuori persone di ogni età applaudivano alla sua uscita di scena. Opposte fazioni per opposti applausi. Non poteva uscire diversamente chi, per il suo ego debordante, dell’applauso e persino dei fischi ha avuto sempre bisogno per poter dimostrare di essere comunque, nella vittoria e nella sconfitta, unico destinatario dell’attenzione generale.

Per la prima o per l’ultima volta quelle persone che l’hanno sempre detestato e combattuto l’hanno in qualche modo salvato da una fine anonima, dal nulla che incombeva. L’assenza di festeggiamenti per la sua uscita avrebbe potuto ferirlo davvero; si sarebbe sentito, per una volta, un uomo qualunque, vittima dell’indifferenza dei più, della scrollata di spalle collettiva, incamminato su una corsia preferenziale verso un limbo inaspettato. Ma ha dovuto lasciare il Quirinale da un’uscita secondaria e rientrare a casa da un’altra entrata secondaria per evitare immagini a testa bassa. Perché le persone prima o poi se ne vanno, ma le foto della sconfitta restano per sempre. Letali.

di Carlo Musilli

Berlusconi si dimette, ma non molla la presa. Chi festeggia il 12 novembre come nuova festa della Liberazione dovrebbe forse riflettere su quello che il Cavaliere è ancor in grado di fare al nostro Paese. Ormai è certo che a guidare il prossimo Esecutivo sarà il professor Mario Monti, ma dubbi di ben altra importanza rimangono sul tavolo: quale sarà il margine d'azione del nuovo governo? Quanto durerà? Sarà in grado di svolgere il compito per cui è stato nominato, o gli verranno posti dei limiti che ne mineranno l'efficacia?

Alla fine Berlusconi ha garantito l'appoggio al nuovo esecutivo, che con ogni probabilità verrà nominato oggi stesso - dopo le consultazioni del presidente Napolitano - e sarà formato solo da tecnici. Sembra che il Cavaliere abbia cercato di trattare con il neosenatore a vita per la nomina di alcuni ministri e per l'impostazione del programma, ricevendo un secco no come risposta.

Poi però è partito il valzer delle indiscrezioni sui paletti imposti dal Pdl, in particolare dall'area ex An: il governo dovrà avere una durata limitata e prestabilita, dovrà limitarsi a varare i provvedimenti contenuti nella lettera all'Europa (quindi niente riforma elettorale) e i suoi componenti non dovranno candidarsi alle successive elezioni. Il nodo di cui più si è discusso è però quello relativo a Gianni Letta: molti berluscones lo vorrebbero vicepremier, per mantenere comunque un indirizzo politico. Ma pare che lo stesso Berlusconi sia poco convinto da questa soluzione, soprattutto perché non verrebbe mai accettata dalle opposizioni (che infatti hanno subito urlato il proprio niet).

Il voto dei pidiellini rimane appeso a un filo, come quello dei deputati Idv. Il partito di Antonio Di Pietro aveva tentato di schiacciare sull'acceleratore della demagogia sostenendo ciecamente la causa delle elezioni anticipate, ma ben presto si è accorto di aver sbagliato direzione. Gran parte dei suoi stessi militanti ha capito che indire in questo momento una campagna elettorale vorrebbe dire gettare l'Italia in pasto ai mercati e farla sbranare a pezzo a pezzo dagli speculatori. Non ci è voluto molto perché l'ex magistrato si riducesse a più miti consigli e specificasse che semplicemente non può garantire "una fiducia al buio".

Certezze granitiche arrivano invece dalla Lega, che si collocherà all'opposizione. Lo hanno confermato gli ex ministri Maroni e Calderoli nell'ultima riunione con il premier dimissionario. Umberto Bossi ha spiegato che il Carroccio non può sostenere Monti, un uomo che vuole "privatizzare le municipalizzate". Ma la verità sembra essere un'altra: le camicie verdi hanno un bisogno disperato di ricompattare il partito e di ricucire il rapporto con la base. Rifiutando di assumersi qualsiasi responsabilità in tempo di crisi, i leghisti puntano a diventare i paladini degli scontenti (e ce ne saranno molti se il professore farà bene il suo lavoro), riuscendo magari a drenare parte dei voti persi dal Pdl.

Che questo significhi rottura definitiva o meno, è evidente che Berlusconi continuerà ad avere dalla sua parte gli uomini del Senatùr ogni qualvolta intenderà votare contro il nuovo Governo. E perciò può ancora permettersi di gonfiare il petto: "Siamo in grado di staccare la spina come e quando vogliamo", avrebbe detto al termine dell'ultima riunione con i suoi a Palazzo Grazioli, poco prima di salire al Quirinale per rimettere il mandato.

Era chiaramente un bluff, visto che la maggioranza alla Camera non esiste più. Ma quando arrivano dal Cavaliere anche i bluff non vanno presi sottogamba. Se ne sono accorti anche Idv e Terzo Polo, che nel corso dell'ultima votazione a Montecitorio sul Ddl Stabilità (approvato in via definitiva con 379 voti a favore, 26 contrari e 2 astenuti) si sono espressi a favore di un testo che non hanno contribuito a scrivere.

L’hanno fatto per alzare una cortina di fumo sui numeri alla Camera. Confondendo i propri voti con quelli della maggioranza, i due partiti d'opposizione hanno evitato che il governo ormai moribondo dimostrasse di poter tornare sopra la fatidica quota 308 (con maggioranza assoluta a 316). Quella era la soglia raggiunta nel voto sul Rendiconto, che ha segnato il tracollo finale del vecchio esecutivo.

L'espediente ha avuto una sua efficacia, ma non è bastato a fiaccare l'animo Berlusconi, che reclama sempre e comunque di avere i numeri per condizionare le sorti dell'Italia. In effetti, almeno al Senato è così. Ma anche nell'Aula di Montecitorio non è assolutamente scontato che i lavori del nuovo governo fileranno via senza alcun incidente. E' quantomeno avventato supporre che tutti i pidiellini redenti terranno fede alla loro conversione senza mai vacillare. I nuovi ministri saranno pure dei tecnici bocconiani, ma i deputati che siedono intorno a loro sono gli stessi che abbiamo eletto nel 2008. E ormai li conosciamo.

 

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Ieri, nella data simbolica dell’ 11.11.11, il popolo di Occupy Wall Street ha indetto una giornata di mobilitazione globale per continuare la protesta contro la finanza globale, le politiche di austerità e in generale un sistema capitalistico oggettivamente arrivato al capolinea. In Italia l’invito d’oltreoceano è stato colto con entusiasmo e in più di 50 città lungo la penisola si sono svolte manifestazioni, flash mob e occupazioni. Per il movimento riorganizzatosi dopo il 15 ottobre, infatti, l’imminente fine dell’era Berlusconi non può essere festeggiata, né considerata come una vittoria: di fronte alla prospettiva di un governo tecnico manovrato da Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, l’unica cosa da fare è continuare a protestare.

I primi e i più numerosi a scendere in piazza sono stati, non a caso, gli studenti medi e universitari. I primi a sbattere il muso contro un futuro ormai negato e gli ultimi ad essere ascoltati dalle istituzioni. A differenza di quello che fu il primo passo della protesta e dell’autorganizzazione del movimento - quell’Onda che tre anni fa si riversò contro i tagli imposti dalla riforma Gelmini - i ragazzi oggi non cercano il dialogo con il palazzo ma puntano direttamente ad assediarlo, a delegittimarlo definitivamente per intraprendere un percorso di democrazia orizzontale.

A Roma, sfidando nuovamente l’ordinanza di Alemanno, hanno organizzato un presidio di oltre due ore in via XX settembre, davanti al Ministero del Tesoro. A Bologna, hanno dipinto grandi “V” rosse sugli istituti di credito, le sedi assicurative e davanti alla sede felsinea di Equitalia, l’agenzia di riscossione statale che con le sue ingiunzioni più di tutte sta facendo pagare agli italiani le conseguenze di questa crisi. A Fiesole gli indignati fiorentini hanno contestato aspramente il presidente del Consiglio europeo Van Rampuy, mentre a Milano si sono stesi sull’asfalto di fronte agli uffici del Parlamento europeo del capoluogo lombardo, tracciando con la vernice le sagome di quelle che hanno definito “vittime dell’austerity”.

Una protesta anticapitalista che non individua nell’eventualità del governo tecnico il male minore e che rifiuta in toto quella che a tutti gli effetti potrebbe essere la definitiva affermazione dell’elite finanziaria sulla sovranità statale. Vedono il probabile governo Monti come uno svuotamento irreversibile della democrazia, con un tecnocrate assolutamente inserito nella cricca dei reprobi della finanza il cui compito sarà quello di calare dall’alto provvedimenti atti solo ad assecondare i mercati e a scaricare sui cittadini il costo della crisi delle banche. Temono che tra le misure imminenti ci sia la privatizzazione di quei beni comuni messi in salvo dai referendum di maggio, invocano il diritto all’insolvenza e, dopo quanto successo ad Oakland, puntano sullo sciopero precario e generalizzato per dare visibilità al dramma della disoccupazione e dei lavori “a gratis”.

Chiedono di salvare l’istruzione e non il sistema bancario, inneggiano al default. Puntano sulle occupazioni delle scuole e degli spazi in disuso dei comuni per dare riparo alle assemblee - ormai permanenti - che cercano di discutere sulle forme di mobilitazione, che provano a creare dal basso delle alternative efficaci a combattere la crisi, senza toccare il welfare e la già ristretta possibilità di entrata (o permanenza) nel mondo del lavoro.

Dopo il 15 ottobre si sono ripromessi di non cedere alla tentazione distruttiva e di portare avanti le loro ragioni con pratiche differenziate e creative. Come quella di Santa Insolvenza, figlia dell’area disobbediente bolognese e interpretata dal trans Valerie, che vestita di banconote false organizza processioni contro il debito e utilizza il megafono umano messo a punto a Zuccotti Park per far recitare le sue preghiere anti-austerity.

Quanti ieri si sono recati nelle piazze delle città italiane rifiutano di credere che la soluzione a questo momento esiziale sia la caduta di Berlusconi. Informati su quanto giù successo in Grecia e altrove, sono ormai consapevoli che questa “dipartita” è dovuta alla “morbidezza” con cui l’ormai ex Esecutivo ha affrontato i richiami della BCE. Che Berlusconi è stato disarcionato non tanto per la sua inadeguatezza ad affrontare la crisi economica, quanto perché troppo politicamente debole per attuare la macelleria sociale che i mercati e l’elite neoliberista chiedono per ripianare i debiti dell’Italia.

I ragazzi, i precari, i ricercatori e tutta quella galassia di svantaggiati che si riconosce nel 99% soverchiato e oppresso dall’1% non hanno nulla da festeggiare, non vogliono cedere al masochismo del male minore perché sentono che il loro futuro e i loro diritti possono essere cancellati in nome dei bilanci e dei numeri fittizi della finanza. Più che indignati, sembrano proprio incazzati neri e il 17 novembre sono pronti a scendere in piazza di nuovo.

 

di Carlo Musilli

La stagione berlusconiana sta per finire. Sono partiti i titoli di coda, ma la pellicola non ha ancora smesso di girare. Ci tocca rimanere seduti al buio per un'altra ventina di giorni. Nel frattempo, non dobbiamo commettere l'errore di supporre che i problemi dell'Italia siano finiti, né tantomeno che stiano per finire. Ma la storia è storia. Il verdetto della Camera sul Rendiconto - passato solo grazie all'astensione delle opposizioni - ha dimostrato che la maggioranza non esiste più: appena 308 voti favorevoli, 8 in meno rispetto all'ultimo voto di fiducia.

Al termine di un lungo colloquio al Quirinale, il Presidente del Consiglio ha annunciato che le sue dimissioni arriveranno subito dopo l'approvazione del Ddl stabilità, che dovrebbe contenere i provvedimenti urgenti chiesti dall'Europa.

Il vero nodo della questione sono i tempi. La nuova legge deve ancora fare due passaggi parlamentari: se non ci sarà l'accelerazione chiesta dalle opposizioni, il Senato dovrebbe dare l'ok il 18 novembre, la Camera a fine mese. Solo dopo il Cavaliere si farà da parte e il Capo dello Stato darà il via alle consultazioni ufficiali (quelle ufficiose sono già partite) per verificare se in Parlamento esista una maggioranza alternativa. Questo significa che - prima ancora di interrogarci su chi verrà dopo Silvio - faremmo bene prendere atto delle tre settimane che ci attendono, potenzialmente atroci, in primo luogo sul fronte finanziario.

I mercati comprano sulle voci e vendono sulle notizie, quindi non è affatto ovvio che le dimissioni differite dal Premier portino serenità e benevolenza nei confronti del nostro Paese. Anzi, è addirittura probabile che proprio nel momento di suprema instabilità politica si concentri la speculazione finanziaria più famelica. Siamo come una carcassa che puzza di sangue sotto un cielo fitto di avvoltoi.

Prova ne sia il fatto che, negli stessi momenti in cui il Cavaliere recitava gli ultimi atti della sua tragicommedia, lo spread italiano è schizzato alle stelle, oltre quota 500, facendo segnare l'ennesimo record storico. Quanto ai rendimenti sui nostri titoli di Stato, hanno toccato il 6,8%, a un passo da quel 7% che la stragrande maggioranza degli analisti considera la soglia di non ritorno (quella, per intenderci, oltre la quale Irlanda, Portogallo e Grecia hanno dovuto richiedere aiuti comunitari).

Sul versante politico, in questi giorni di governo posticcio Berlusconi ha in mano una sorta di delega per varare il Ddl stabilità nel più breve tempo possibile. Il rischio è che faccia un ultimo scherzetto agli italiani tentando ancora una volta di infilarci norme che nulla hanno a che vedere con la crescita del Paese. In questo periodo, inoltre, potrebbe cercare di convincere il Colle dell'impossibilità di formare un nuovo governo, magari giocando all'ennesimo mercatino sottobanco di onorevoli.

A questo punto, infatti, le speranze di atterraggio morbido su nuovo esecutivo retto da Angelino Alfano o da Gianni Letta - e quindi sempre a maggioranza Pdl - sono ridotte a un lumicino: il Pd ha già annunciato il suo rifiuto. Ben più probabile è che il Capo dello Stato opti per un governo di larghe intese - per cui sembra esserci spazio fra Terzo Polo e Pd - sotto la guida di "tecnici" come Mario Monti o Giuliano Amato. Rispetto a una prospettiva del genere, dal punto di vista di Arcore, anche le elezioni più difficili della storia italiana sarebbero preferibili. Poco importa che una campagna elettorale in questo momento rischi di dissanguare il Paese.

Ci sono infine da considerare degli aspetti para-antropologici. Quello che è accaduto nelle ultime 48 ore ci ha fornito un campionario concentrato dei vizi pubblici che hanno guidato l'azione del nostro Premier dal 1994 ad oggi: la capacità di mentire e la tendenza a considerarsi investito di una qualche virtù superumana. Partiamo dal drammatico voto a Montecitorio.

"Noi siamo ancora la maggioranza in Parlamento. Abbiamo verificato in queste ore, i numeri sono certi", diceva il Cavaliere appena domenica scorsa. Era in evidente malafede, ma si riteneva in grado di rimediare alla situazione con la solita compravendita di parlamentari. Per nemesi storica, a sbugiardarlo stavolta è arrivato dopo poche ore il tradimento che non ti aspetti, quello della deputata-soubrette Gabriella Carlucci, passata all'Udc. Un'allegoria in silicone e mascara del duplice potere berlusconiano, mediatico e politico.

Eppure, nemmeno dopo un affronto del genere il Premier ha capito che era arrivato il momento di mollare. Come il generale cocciuto che sacrifica la sua armata pur di non ritirarsi, Berlusconi ha consegnato il suo governo all'umiliazione dell'Aula. Ieri mattina, in extremis, ci ha provato perfino Umberto Bossi a suggerirgli di cedere il posto al delfino-Angelino. Un voltafaccia clamoroso, dopo che per settimane il Carroccio al gran completo aveva ripetuto il mantra "Berlusconi o elezioni". Ormai però era troppo tardi e viene da pensare che il senatùr abbia semplicemente cercato di smarcarsi per lasciare Berlusconi solo con la sua vergogna. Ammesso che stavolta ne abbia provata.

 

 

di Carlo Musilli

Una delle regole auree del poker è fingere di avere in mano le carte migliori, anche se non si ha nemmeno una coppia.  E' esattamente quello che in queste ore sta facendo Silvio Berlusconi. La settimana che si apre potrebbe segnare definitivamente la fine del suo impero, ma il Cavaliere non esce dal piatto. Anzi, rilancia: "Nonostante le defezioni, che io continuo a ritenere possano rientrare - ha detto ieri il premier - noi siamo ancora la maggioranza in Parlamento. Abbiamo verificato in queste ore, i numeri sono certi".

Sorvoliamo sul fatto che riuscire a sfangarla nella conta parlamentare non equivale a essere in grado di governare un Paese. Se Berlusconi crede davvero alla favola della maggioranza granitica, è rimasto l'unico. I suoi uomini più fidati, Gianni Letta e Denis Verdini, lo hanno avvertito: al voto di martedì sul rendiconto dello Stato (già bocciato dalla Camera), il governo rischia di andare sotto ancora una volta. Sembra che i voti davvero "certi" siano 306, nella peggiore delle ipotesi 300 (la soglia per la maggioranza assoluta è a 316). A quel punto sarebbe inevitabile una mozione di sfiducia dalle opposizioni e i pidiellini doc si consegnerebbero al massacro.

I consiglieri del Premier hanno quindi suggerito di anticipare la debacle scegliendo la strada delle dimissioni, che consentirebbero al Cavaliere di continuare a detenere il potere, anche se per via indiretta. Ad un nuovo esecutivo a maggioranza Pdl, ma guidato da Letta o dal "tecnico" Mario Monti, ritengono, l'Udc non potrebbe rifiutare il proprio appoggio. Una soluzione che darebbe il tempo di riorganizzare le fila del partito e preparare la nuova candidatura di Angelino Alfano alle prossime elezioni. Se poi si arrivasse davvero al governo di "salvezza nazionale", i berluscones avrebbero un vantaggio non trascurabile: potrebbero scaricare sulle spalle di Monti la responsabilità delle misure draconiane che l'Europa ci impone.

L'ostacolo maggiore su questa strada è rappresentato dalla Lega. E' qui che si misura la distanza più profonda fra Pdl e Carroccio. Nonostante le dichiarazioni propagandistiche di questi giorni, il partito di governo tutto vuole meno che andare alle urne proprio ora. Sarebbe una disfatta annunciata. Il discorso opposto vale per le camicie verdi: più si aspetta, meno possibilità ci sono di riagguantare per i capelli una base mai così stanca e lontana.

Fin qui abbiamo delineato freddi ragionamenti politici che nulla hanno a che vedere con il vitalismo berlusconiano. Anche se forse gli converrebbe, il Cavaliere non ci pensa per niente a cedere il passo: "Non credo a esecutivi tecnici con un premier fantoccio - ha ribadito ieri - e nemmeno alle larghe intese. Siamo convinti che la volontà popolare non possa essere commissariata: spetta a chi ha la legittimità del voto l'onere di governare". Poi un chiarimento: "L'unica alternativa a questo governo sarebbero le elezioni anticipate", ma "noi non le vogliamo. E' nostra intenzione governare l'Italia assumendoci fino in fondo le nostre responsabilità. Non c'è nessuno in questo Parlamento in grado di mettere insieme una credibile maggioranza alternativa".

Peccato che non spetti al Presidente del Consiglio il compito di verificare l'esistenza di una "maggioranza alternativa" in Parlamento. Né tantomeno il capo del governo ha il potere di indire nuove elezioni. In caso di caduta dell'esecutivo (avere la legittimazione del voto popolare non significa affatto garantirsi la poltrona per tutta la legislatura), la nostra Costituzione attribuisce entrambe queste prerogative al Presidente della Repubblica.

Dato l'acuirsi della crisi economica e l'immagine miserevole dell'Italia all'estero, sembra davvero molto difficile che il Capo dello Stato possa scegliere la strada del voto anticipato. Farebbe di tutto per cercare una nuova maggioranza "d'emergenza" nelle due Camere e, con ogni probabilità, alla fine troverebbe una soluzione. A questo fanno pensare le recenti aperture di Casini al Pd, per non parlare dei pidiellini che hanno già abiurato e dei malpancisti in sordina che ancora serpeggiano nelle fila della maggioranza. Non è quindi affatto scontato che al governo Berlusconi debba seguire necessariamente un esecutivo di "tecnici" come unica alternativa alle urne.

Sabato, nel corso della manifestazione romana del Pd a piazza San Giovanni, il segretario Pier Luigi Bersani ha lanciato un appello per l'alleanza di progressisti e moderati: "Un patto di governo per una legislatura di ricostruzione, per sostenere la riscossa del paese, per sconfiggere il rischio che viene dalla peggiore destra d'Europa". Il leader dei democratici ha poi chiarito che intende "dare l'occasione in Parlamento di dire, a chi lo pensa, che così non si può continuare. Non so se accadrà martedì ". Quanto alla possibilità di una mozione di sfiducia, "tutta l'opposizione ci sta ragionando: se si risolve prima non ce ne sarà bisogno". 

Le parole di Bersani sono state raccolte da Pier Ferdinando Casini: "Senza il Pd non si ricostruisce l'Italia - ha avvertito ieri il leader dell'Udc intervenendo alla convention del Terzo Polo -. La sinistra ha detto di essere disponibile. E allora pensare a un governo che emargini una parte del mondo politico più direttamente rappresentativo del mondo operaio e sindacale significherebbe essere irresponsabili".

La presenza più significativa sul palco della convention è stata però quella del senatore Pdl Beppe Pisanu. Pur senza ufficializzare il suo abbandono del partito di governo, Pisanu ha chiesto "a Berlusconi di contribuire con il suo peso politico a contribuire a un governo di unità e salvezza nazionale. Continuo a confidare nella sua intelligenza e nella coerenza politica di quei tanti colleghi del Pdl che non si rassegnano al peggio e mettono avanti a tutto l'interesse dell'Italia. Noi non siamo traditori, semmai traditi".

Contro la prospettiva di un Esecutivo così allargato si sono già alzate in coro le voci sdegnate degli attuali governanti, che ad ogni occasione ritirano fuori la retorica del "golpe". Ne sono un chiaro esempio le parole pronunciate ieri dal segretario Alfano: "In questi giorni ci dicono che occorre un governo tecnico, un governo di responsabilità, un governo di chicchessia a condizione non sia Berlusconi. Sono tutti sinonimi di ribaltone, ma si vergognano a dirlo. Il concetto di fondo è mandare all'opposizione chi ha vinto le elezioni e mandare al governo chi ha perso. Questo significa capovolgere la democrazia".

Stare al governo per interesse personale, massacrando senza alcun pudore il proprio Paese, significa capovolgere la democrazia. Che una legislatura possa chiudersi con una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne, invece, è previsto dalla Costituzione italiana. Ma questo lo sanno tutti. O quasi.

 


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