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di Mariavittoria Orsolato
La storica rivista americana Time ha eletto il protester come uomo dell’anno. Una figura irresistibilmente evocativa in questi tempi d’imposta abulia, che dopo anni di isolamento della militanza politica torna a conquistare ampi strati della società civile e a raccogliere consensi in modo trasversale. Da quando lo scorso 17 dicembre Mohamed Bouazizi, un venditore di frutta tunisino, si è dato fuoco per protestare contro la disoccupazione e la povertà generalizzata, il dissenso verso le istituzioni politiche e finanziarie si è diffuso velocemente in tutto il Medio Oriente, in Europa e negli Stati Uniti, rimodellando la politica mondiale e ridefinendo il concetto di attivismo.
Quelli che per convenzione sono definiti indignati ma che in realtà rappresentano un corpus politico abbastanza eterogeneo, hanno indubbiamente segnato a fondo gli eventi di quest'anno. Sono stati a manifestare nelle piazze delle città di decine di Paesi, hanno deposto tiranni e suscitato grandi speranze, hanno piantato le tende dinanzi ai luoghi di culto e ai centri della finanza delle metropoli statunitensi ed europee.
Perché stanchi di avere debiti che non hanno contratto. Perché sfiniti da una politica che si disinteressa della cosa pubblica e dei cittadini. Perché consapevoli di avere un'alternativa migliore al neoliberismo sfrenato che, pur avendo di fatto causato questa crisi, viene propinato e imposto come unica via di salvezza. Perché di nuovo consci che, se uniti, esiste sempre un'alternativa.
A far di nuovo convergere le masse ci ha pensato la rete, che grazie al boom dei social networks e dei social media ha documentato passo dopo passo tutte le proteste e gli inevitabili scontri, e soprattutto ha accolto e introiettato nuove pratiche di aggregazione civile. Se infatti fino a poco fa la rete veniva utilizzata nella sua esclusiva virtualità, ora il fenomeno del clicktivism - l'evoluzione digitale del volantinaggio e delle raccolte firme, concentrata più su un tema specifico che non su vere e proprie rivendicazioni politiche - ha lasciato nuovamente spazio al confronto nelle piazze. I cittadini hanno smesso di essere internauti e si sono trasformati in manifestanti, hanno deciso di abbandonare le tastiere e i monitor per scendere di nuovo in strada e porsi attivamente in contrasto con le politiche socioeconomiche dei loro Paesi.
Certo tra la Primavera Araba e il movimento Occupy ci sono indubbie differenze, sia in termini di pratiche che di rivendicazioni, ma il dato di fatto incontrovertibile di questo 2011 è che dopo anni di assenza dal palcoscenico globale, i movimenti hanno fatto il loro prepotente ritorno nella politica.
In Medio Oriente i focolai di protesta contro la corruzione, il prezzo del pane e le continue violazioni di diritti civili si sono propagati velocemente dalla Tunisia all'Algeria e poi in Egitto, in Siria e in Libia, portando a vere e proprie rivoluzioni negli ordinamenti statali e scontando il prezzo di moltissimi martiri.
Per quanto riguarda il mondo occidentale, dalla battaglia di Seattle del '99 che diede l'avvio al movimento No Global, passando per quello No War del 2003 contro la guerra in Iraq, la figura del manifestante ha subito diverse trasformazioni, figlie dell'autocritica e dell'evolversi delle problematiche e oggi, di diverso rispetto ai movimenti degli anni zero, c'è la larga adesione. Una partecipazione che si distingue dai cicli di protesta precedenti e ha la sua principale causa nel depauperamento generalizzato che ha preso avvio con lo scoppio della bolla finanziaria americana nel 2008.
Già da allora in Italia gli studenti dell'Onda erano tornati numerosissimi nelle piazze, manifestando contro i tagli imposti alla scuola pubblica e contro la riforma dell'Università in senso privatistico; a tre anni di distanza hanno aggiustato il tiro ed ora il loro bersaglio sono le politiche di austerità prescritte per interposta persona dalla BCE e dal FMI. Dopo aver seguito le “acampadas” spagnole e l'evoluzione del movimento Occupy negli Stati Uniti, quest'autunno gli studenti italiani hanno messo in atto diverse manifestazioni, occupazioni e proteste per dimostrare che la democrazia diretta e la decisionalità orizzontale non sono fantapolitica se portate avanti da una moltitudine.
A fianco degli studenti, quest'anno si sono imposti anche i movimenti referendari, che nelle consultazioni dello scorso maggio sono riusciti a guadagnare un'affluenza record e una vittoria bulgara nel dire no al nucleare, alla privatizzazione delle risorse pubbliche e ai privilegi di un antagonista nel frattempo caduto.
Spiace infatti non poter dire che qui nel Belpaese, il Rais non è caduto per mano della popolazione o dell'opposizione alle Camere ma perché sfiduciato dai mercati internazionali che lo ritenevano incapace di imporre la mannaia fiscale necessaria a far quadrare i conti di Stato.
La manifestazione dello scorso 15 ottobre sarebbe dovuta servire quantomeno a dare uno scossone al morente governo Berlusconi, ma la totale mancanza di coordinamento tra le varie anime del movimento degli “indignados” e gli scontri che ne sono conseguiti, ha finito per far riflettere sul manicheo quanto sterile dualismo violenza/nonviolenza e non sulle reali ragioni della mobilitazione che ha portato 200.000 persone a Roma, prima fra tutte la precarizzazione esistenziale diffusasi tra amplissimi strati della società.
Citando assolutamente a sproposito la Pavone-Giamburrasca “La storia del passato ormai ce l'ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion” e ora, entrati nel XXI° secolo, ci si rende conto che nulla è cambiato, che come in un prolungato Medioevo sono ancora le popolazioni a pagare lo scotto dei propri sovrani e che forse è giunta l'ora tornare in piazza a riproporre un '48.
L’abbiamo visto a piazza Tahrir, l'abbiamo rivisto a Zuccotti Park e in piazza Syntagma: giovani, istruiti, abili col computer, internet e social media; stanchi di essere stoppati dal vecchio establishment, dalla corruzione di chi pare destinato a governare per diritto divino, dalla mancanza di prospettive. Queste persone, questi orgogliosi manifestanti, sono diventati dei protagonisti e, in un modo o nell'altro, cambieranno la nostra storia.
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di Fabrizio Casari
Avremo anche mangiato meno, come dicono le statistiche, ma sotto l’albero di Natale, qualcuno ha continuato a stimolare appetiti. Centrodestra e centrosinistra, in affanno causa appoggio a Monti e la sua manovra recessiva che, con ironia non richiesta, ha chiamato “salva Italia”, stanno cercando di rimettere insieme cocci e idee, schieramenti e alleanze per arrivare in ordine alle prossime elezioni politiche.
I più lesti nei lavori in corso sono a destra: ormai quasi più nessuno nega il progetto di nuova alleanza con Casini (ultimo La Russa ieri), pur sapendo che questo non può che passare dal ritiro della candidatura a premier del Cavaliere. Questo sarà l’unico elemento d’incertezza: Berlusconi vorrà ricandidarsi e, con ciò, portare alla sconfitta il PDL o invece, dimostrando acume, saprà mettersi sul podio senza scendere nell’arena, lasciando la candidatura ad Alfano che, s’intende, governerà per lui?
In fondo, un’eventuale Alfano premier sarebbe come un affidavit del cavaliere, una sorta di gestore dei suoi beni. Quanto alla Lega, in qualche modo rientrerà: non si vede proprio dove andrebbe da sola, né pare ipotizzabile un suo rinchiudersi sulla dimensione locale, peraltro già seriamente elettoralmente castigata dagli anni al governo. Il sopraggiungere di Casini e Fini darebbe poi ampio margine di tranquillità per i numeri e dunque pazienza se anche la Lega non dovesse tornare all’ovile.
Il centro tesse la tela, ma non ha nessuna intenzione di svolgere un ruolo secondario, di appoggio ad altri. Vuole la candidatura diretta a governare: certo non da solo, ma a governare. All’uopo sono in corso le manovre di riassetto, profferte di alleanze e minacce di scissioni, come nel solito copione. In cantiere c’é il prodigioso, miracolato per antonomasia, polo dei cattolici che, urbi et orbi, rilancia la centralità dello schieramento confessionale. Trasversale, organizzato in partiti e, più specificatamente, in correnti nei vari partiti, ha nel “sobrio” governo un’interlocuzione fondamentale.
Il neoministro Riccardi e l’ex ministro Fioroni hanno indicato la retta (benché tortuosa) via, che dovrà segnare il cammino dei cattolici. Non è detto che rinasca la Dc, dice il sobrio Riccardi, “forse non ci saranno unificazioni, ma saranno possibili nuove condensazioni” tra i cattolici. La “condensazione” è oggettivamente un inedito del lessico politico, pur se ancora distante dal più famoso “convergenze parallele”. Ma indica un indirizzo in continuità con quanto visto finora: lo schieramento papalino é elemento sabotatore del bipolarismo perché, in primo luogo, è un aggregato melmoso che nega ogni riferimento alle culture politiche originarie di destra e sinistra, coprendole con un gigantesco mantello cattolico che strozza nella culla ogni polarizzazione possibile.
Intendiamoci: i cattolici hanno tutto il diritto di scegliersi e proporsi a partire dalla loro identità religiosa, da cui far discendere un’eventuale schieramento o partito con un nome, un cognome, un’identità e un progetto. E dunque ci si potrebbe chiedere: cosa gli impedisce di riunificarsi, di chiamare a raccolta tutti coloro che nel centro-destra e nel centrosinistra sono parcheggiati? Insieme potrebbero costituire il cosiddetto Terzo Polo dotandolo di forza necessaria a presentarsi come guida per il governo.
Ma non succede e non succederà. Il respiro del progetto sarebbe corto e faticherebbe ad arrivare alla doppia cifra elettorale. E’ molto più redditizio occupare settori di tutti gli schieramenti per condizionarne le scelte. Ogni differenziazione netta sul piano della politica economica, sociale (e soprattutto dei diritti civili) tra conservatori e progressisti, libertari e reazionari, è fumo negli occhi per la melmosità del centrismo.
L’occupazione del centro dello schieramento politico non corrisponde alla necessità di mediare le spinte centrifughe di una società globalizzata e confusa e gli interessi di classe ancora in campo: non è il prologo allo svolgimento di una proposta complessiva per il Paese e non è quindi propedeutico alla formazione di una forza politica.
L’occupazione del centro, utile per impedire proprio lo sviluppo e la crescita della dialettica politica complessiva, è invece al tempo stesso premessa e scopo finale dell’operazione. In un adattamento dell’assioma taoista, il governare senza governare diventa il governare comunque, indipendentemente da chi formalmente governi.
Il santissimo schieramento non è berlusconiano perché eticamente improponibile e non è progressista perché politicamente insopportabile. Dunque è collocato a destra della sinistra e a sinistra della destra, perché per garantire la loro centralità nei secoli dei secoli hanno bisogno d’impedire che la polarizzazione della politica entri nelle urne.
E’ per questo che la ripresa di centralità politica dei cattolici si misura su due fronti: da un lato deve consolidarsi l’uscita di scena del cavaliere, che toglie spazio alla naturale ricomposizione tra la destra e i pii esponenti; dall’altro deve essere strappata la cosiddetta “foto di Vasto”, raffigurante Bersani, Di Pietro e Vendola in un abbraccio di scarso valore affettivo ma di rendita elettorale certa.
Ovviamente, l’emergenza prioritaria è quella d’impedire soprattutto che la foto di Vasto diventi un progetto politico o anche solo elettorale. Perché il pericolo maggiore, per i cattolici, non è quello di una destra arroccata intorno ai privilegi del sultano, né quello di ricondurre la Vandea leghista alle ragioni della governabilità: il pericolo vero è una crescita dell’anima socialdemocratica e laica del PD che possa trovare uno sbocco nella ricerca di un’alleanza a sinistra, data comunque vincente nei sondaggi.
Recuperare i milioni di voti di sinistra che negli ultimi dieci anni sono rimasti sospesi, affidare alla trasversalità sociale di movimenti che lungo questi ultimi due anni hanno riempito piazze e urne referendarie, é il rischio vero che i cattopiddini intravedono. Una sterzata a sinistra della coalizione li obbligherebbe all’uscita dal PD e, quindi, allo smantellamento della parte fondamentale del progetto. Non è certo l’Api il contenitore in grado di ospitare milioni di voti.
L’eventuale uscita di scena del cavaliere e le trame tra Alfano e Casini da un lato, lo sbianchettamento parziale o totale della foto di Vasto dall’altro, determineranno i prossimi passi. Ciò che serve al Paese é oggetto di punti di vista differenti, ma ciò che serve ai resti della DC per continuare a occuparlo é pensiero condiviso, pur se con accenti diversi. Un pensiero che chiede strada a tutti e propone spazi per tutti. Auspicando, come trent’anni orsono, le convergenze parallele.
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di Fabrizio Casari
Non c’è solo l’equità tra le promesse mancate dal governo Monti. Un’altra, significativa delusione, arriva dalla politica della comunicazione governativa. Il presidente del Consiglio, infatti, aveva garantito un uso parco e misurato delle dichiarazioni dei suoi ministri. E se l’equità è risultata essere fumo negli occhi, anche sulla sobrietà della comunicazione qualcosa non deve aver funzionato. Con regolarità ormai quotidiana, infatti, il volto piangente del governo, la Ministro Elsa Fornero, esterna e crea allarme sociale, contribuendo a far crescere il fastidio generale del paese per gli apprendisti stregoni.
L’ultima gaffe l’ha vista protagonista a un convegno della Federazione della Stampa Italiana: si è presentata affermando che i conti dell’Inpgi non sono in ordine e che peccano di trasparenza e che, dunque, dovranno subire le decisioni della Fornero medesima. Quindi si è alzata, prima che potessero replicare alle sue esternazioni, ed è uscita dalla sala, rinunciando a partecipare alla conferenza stampa prevista. La reazione è stata dura: tutti gli intervenuti hanno ricordato come i conti dell’Inpgi siano a posto fino al 2050 e che quanto a trasparenza i suoi bilanci, pubblici e certificati da otto organismi - tra i quali il Ministero dell’Economia e del Lavoro e la Corte dei Conti - si possono leggere sul sito ufficiale dell’istituto previdenziale. Basta saperli leggere.
Tanto per dare un quadro dello spessore del personaggio, al convegno che celebrava il centenario dell’introduzione del primo contratto nazionale di categoria, la Fornero ha detto: “Se c’è da cento anni andrà pure rinnovato, no”? Confondendo così la nascita dell’istituto del contratto nazionale con il contratto vero e proprio vigente, che ha invece, come dovrebbe sapere, due anni di vita.
Il Presidente dell’Inpgi, Camporese, che vede il rischio di manovrine furbette destinate a trasferire i fondi degli istituti privati nelle casse di quelli pubblici, l’ha invitata a dire quello che ha in mente davvero e, comunque, a documentarsi prima di dire falsità grossolane, annunciando che il ministro risponderà in tutte le sedi competenti delle sue parole.
Ma quella contro le casse previdenziali private (che nulla ricevono da quelle pubbliche e che pagano di tasca propria gli ammortizzatori sociali) è stato solo l’ennesimo infortunio della professoressa, che in tre giorni ha sostenuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la distruzione del sistema pensionistico pubblico e le provocazioni a danno di quello privato. Non passa giorno ormai, senza che la Fornero non senta il bisogno di straparlare. Esaurite le lacrime in favore di telecamere, la signora, colta da improvvisa mania di protagonismo, squaderna con i giornalisti amici pensieri e parole, dichiarazioni e smentite.
Ieri il segretario del PD, Bersani, facendo eco alle reazioni sindacali (particolarmente dura con lei la leader della CGIL Camusso e quello della CISL Bonanni), è dovuto intervenire con forza per ribadire che toccare l’articolo 18 in un paese con il record europeo di disoccupazione è follia e che è arrivata ora che il governo ascolti le forze sociali se vuole andare avanti.
A fare eco alla Fornero ci sono solo Ichino e la Marcegaglia, il che non è propriamente la rappresentazione del consenso di massa. La Fornero, come Ichino, invoca la flex.security, uno di quei mantra fallaci già sotto l’aspetto terminologico. Perché se la parte “flex” è chiara (e sperimentata in tutta la sua brutalità), dove sarebbe la “security”? Il Ministro, che sull’articolo 18 ha già fatto marcia indietro, si ritiene espressione del “nuovo” ma la sensazione d’incompetenza totale e d’inadeguatezza, già percepita nei primi giorni del suo incarico, è diventata ormai certezza.
Al riguardo, stabilito che il Ministro è fuori contesto e le sue esternazioni sono fuori da ogni logica e competenza, la domanda che ci si pone è fondamentalmente una: parla per vanità personale o perché l’Esecutivo la manda allo sbaraglio per vedere le reazioni e regolarsi di conseguenza? Il tempo della sua permanenza al governo sarà la risposta all’interrogativo.
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di Carlo Musilli
Il mirino del governo ha cambiato obiettivo: dopo le pensioni, il nuovo bersaglio sembra essere l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che vieta i licenziamenti senza giusta causa. Ora che la manovra economica è passata alla Camera - con annessa rivoluzione della previdenza - l'approvazione definitiva al Senato entro Natale è una pura formalità. Per questo l'esecutivo può concentrarsi su quella che è stata definita come "fase due", al centro della quale dovrebbe essere appunto la riforma del lavoro.
L'allarme è scattato dopo l'intervista a Elsa Fornero pubblicata ieri dal Corriere della Sera. In riferimento all'articolo 18, il ministro del Welfare sottolinea che non si tratta di un "totem", quindi invita "i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte". E sarebbe davvero la prima volta per questo governo, vista la totale mancanza di contrattazione che ha preceduto la manovra, scritta e approvata in tempi record.
Ma il passaggio più significativo dell'intervista è questo: "Penso che un ciclo di vita che funzioni - dice Fornero - sia quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto". Il tutto con un corollario fondamentale: "Certo che la contrattazione è materia delle parti. Noi vogliamo però spingerle non a ridurre i salari, ma a riflettere sulla possibilità di avvicinarli il più possibile alla produttività".
In sostanza, questo potrebbe voler dire l'estensione della precarietà anche ai lavoratori a fine carriera. Per disinnescare il trucchetto del prepensionamento, usato dalle aziende per liberarsi dei dipendenti anziani - più costosi e meno produttivi dei giovani - si pensa di mettere a punto anche per chi è ormai in là con gli anni dei contratti "flessibili" e a stipendio ridotto rispetto agli anni di gloria della carriera. La modifica non interesserebbe i contratti già in essere, ma quelli a venire. Almeno in questo campo i diritti acquisiti dovrebbero così essere rispettati.
Spostando lo sguardo sui più giovani e facendo due più due, sembra proprio che il fantasma di Pietro Ichino stia rientrando dalla finestra. D'altra parte, non è mai stato un mistero che questo governo puntasse a seguire i binari tracciati dal giuslavorista e senatore (eterodosso) del Pd. In sostanza, il modello Ichino prevede che le assunzioni a tempo indeterminato arrivino dopo un periodo di prova di sei mesi, durante il quale non varrebbero le tutele dell'articolo 18. E anche dopo aver firmato il contratto più solido, l'impresa potrebbe comunque allontanare i dipendenti per motivi di crisi economica. Basterebbe pagare loro un'indennità proporzionale alla durata del rapporto di lavoro.
Ora, il vero nodo della questione è quello degli ammortizzatori sociali. E' necessario rafforzarli per tutelare chi il lavoro l'ha già perso, sta per perderlo o non l’ha mai trovato. Il Pd chiede che si parta da questa riforma prima di ipotizzare modifiche al'articolo 18.
Ma il welfare è un costo e con questi chiari di luna trovare altri soldi pubblici da spendere sembra una chimera. Difficile anche che il governo scelga di seguire fino in fondo la ricetta Ichino, che prevede per i lavoratori licenziati la tutela di un'assicurazione a carico delle imprese. Alzare adesso il cuneo fiscale vorrebbe dire con ogni probabilità dare il colpo di grazia alle aziende italiane, se è vero che l'anno prossimo il Pil del nostro Paese farà registrare un terrificante -1,6%, come ha annunciato la settimana scorsa il Centro studi di Confindustria.
Il rischio è quindi che la riforma del lavoro porti con sé maggiore precarietà senza alcuna nuova garanzia per i lavoratori. Una prospettiva che fa rabbrividire i dirigenti del Pd, già messi in guardia dalla reazione battagliera dei sindacati. Si spiega così l'atteggiamento prudente di Stefano Fassina: "È da apprezzare l'atteggiamento riflessivo del ministro Fornero - ha detto il responsabile economico dei democratici - dopo un adeguato approfondimento, la Professoressa concluderà come noi che l'articolo 18 non c'entra nulla con la precarietà dei giovani e con la crescita dell'economia".
Se invece non dovesse capirlo, il Pd potrebbe implodere proprio sulla questione che tanti mal di pancia ha causato all'interno del partito. Con il Pdl che si smarca ogni giorno di più dalle iniziative del governo Monti, per i democratici è arrivato il momento di prendere una posizione netta. Dopo aver perso una buona fetta di credibilità agli occhi del proprio elettorato con la pigra accettazione della manovra, devono fare in modo di non ricevere altre brutte sorprese.
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di Mariavittoria Orsolato
Si vociferava già da tempo che fosse una ghiotta moneta di scambio e ora per il governo Monti i nodi sono giunti al pettine: stiamo parlando dell'assegnazione delle ultime frequenze televisive digitali, uno degli ultimi colpi di coda del governo Berlusconi. Una procedura tutta sbilanciata a favore del duopolio Rai-Set che, invece di adottare le normali gare d'asta, aveva preferito l'escamotage del beauty contest.
Che é un processo di assegnazione assolutamente gratuita che prevede una graduatoria tra i concorrenti in base a tutta una serie di requisiti tecnici e commerciali, come il numero di dipendenti o il possesso di infrastrutture e impianti di trasmissione. Un regalo da quasi due miliardi di euro che l'arbitro Berlusconi ha deciso di elargire a se stesso poco prima dell'allontanamento coatto dal palazzo, e in barba al disperato bisogno di liquidità delle casse statali.
Ora che con la supermanovra si è deciso il prelievo forzato su quelle che a tutti gli effetti sono le categorie più deboli - pensionati sempre più old, affittuari vittime dell'IMU, lavoratori dipendenti ipertassati - la Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) ed Altroconsumo hanno ricordato al nuovo esecutivo che forse anche dalla cessione delle frequenze c'è mezzo di beccar su qualcosina.
E l’hanno fatto mandando una diffida formale al Ministro per lo Sviluppo Corrado Passera in cui chiedono che di disporre l’annullamento in autotutela, o la revoca del bando e del disciplinare di gara, provvedendo alla sua riscrittura secondo criteri che assicurino un’effettiva apertura concorrenziale dei mercati e, soprattutto, il buon andamento della pubblica amministrazione nell'interesse dei cittadini. Sono infatti questi ultimi i veri proprietari dei cinque multiplex - ovvero le ambite megafrequenze digitali che possono trasportare fino a sei diversi canali - dal momento che le frequenze su cui trasmettere sono e rimangono un bene dell'intera comunità.
La diffida - predisposta dagli avvocati Guido Scorza, Carmelo Giurdanella, Elio Guarnaccia, Dario Reccia e Francesca Bilardo - è stata notificata anche alla Commissione Europea, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, all’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato ed all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, invitandole ad esercitare i poteri di controllo e di vigilanza di propria competenza. Già dall'insediamento del nuovo governo, negli ambienti politici, s’indicava la questione frequenze come un possibile cavallo di Troia spendibile da Berlusconi per vendere al meglio la sua maggioranza in caso di fiducia, ma per una volta pare che il miracolo (forse) ci sia stato.
Nella seduta alla Camera di ieri Monti ha infatti dato parere favorevole agli ordini del giorno alla manovra presentati da Partito Democratico, Italia dei Valori e Lega Nord che chiedono di annullare il beauty contest indetto dal precedente esecutivo (e avallato dall'Agcom) per indire una gara d'asta realmente competitiva e soprattutto remunerativa. Probabilmente conscio del fatto che all'asta gemella per gli operatori delle telecomunicazioni Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G hanno messo sul piatto 4 miliardi di euro, il Ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda ha acconsentito e chiesto che gli ordini del giorno siano discussi insieme.
Pare quindi che le frequenze liberate dal passaggio al digitale verranno effettivamente pagate ma già da subito, probabilmente per stizza, Berlusconi si è detto "indifferente" rispetto ad un'eventuale asta, affermando con sicumera che "con il numero incredibile di frequenze oggi disponibili ci sarà pochissima gara per occuparle”. A smentirlo a stretto giro ci ha però pensato la nemesi Santoro che giovedì, nel corso di Servizio Pubblico, ha affermato di poter tranquillamente raccogliere un milione di euro, tramite sottoscrizioni of course, per presentare una sua offerta.
La provocazione del giornalista salernitano è stata subito accolta e rilanciata ieri da Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia - l’emittente capocordata delle televisioni locali che trasmettono sul digitale terrestre il talk di Santoro - che ha indicato alcune corporations americane e inglesi come interessate a partecipare alla gara in caso d'asta.
Che dopo il crollo di consenso dovuto alle misure contenute nella manovra, Monti dovesse elargire il contentino alle sedicenti opposizioni era cosa scontata: che poi lo facesse sul tallone d'Achille di Berlusconi è la conferma dell'inevitabile segno politico dei suoi provvedimenti. Applausi? Ma anche no.