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di Mariavittoria Orsolato
In questo giro di boa della legislatura a fare la voce grossa è ormai la Lega Nord. Sempre più forte sul piano dei consensi, sempre più inserita nei posti chiave delle istituzioni. Sarà che con Bossi e soci è sempre meglio trattare, fatto sta che dopo le innumerevoli leggi ad personam varate dall’esecutivo Berlusconi, finalmente è giunto il turno del Carroccio. Lo segnala il Corriere della Sera e l’espediente è sempre lo stesso: utilizzando il cavallo di Troia di un provvedimento omnibus - in questo particolar caso, il nuovo Codice dell’Ordinamento Militare - s’inserisce un comma tramite cui aggirare gli impedimenti legali in corso.
Il disegno di legge 66 del 15 marzo 2010, a firma del ministro della Difesa La Russa e dell’omologo alla Semplificazione Roberto Calderoli, tra le sue 1085 norme nasconde infatti l’abolizione dell’articolo 306 del Codice Penale, un articolo che ai più giovani non dirà nulla di nuovo, ma che a molti riporta la memoria indietro di 30 anni. Stiamo parlando dell’imputazione di banda armata, accusa principe delle centinaia di processi celebratisi a cavallo degli anni ‘70 e ’80 e punibile con la reclusione dai tre ai quindici anni; che però, è ufficiale, dal prossimo 8 ottobre uscirà dal novero dei reati penalmente perseguibili.
Ma non si tratta di un ripensamento giuridico sulla legislazione emergenziale e le storture che essa ha prodotto sul Codice Penale. Il motivo fondante per cui uno dei capisaldi dell’anti-terrorismo verrà bellamente smantellato è un altro e molto meno nobile: 36 esponenti del Carroccio sparsi fra il Piemonte, la Liguria, l’Emilia, la Lombardia e il Veneto sono attualmente sotto processo a Verona con l’accusa di aver messo in piedi una formazione paramilitare denominata “Guardia Nazionale Padana”.
Lo sparuto esercito del nord, noto ai più come “Camicie verdi” (in riferimento all’immancabile divisa, oltretutto di sinistra memoria) doveva fungere da baluardo per la secessione e da deterrente contro l’immigrazione - clandestina o meno, per la Lega c’est la même chose - ma nel 1996 arrivò il procuratore della Repubblica Guido Papalia a guastare la festa.
Grazie alle indagini della Digos e ad una serie di intercettazioni telefoniche, si veniva infatti a sapere che, al momento del reclutamento, chi aderiva alla formazione paramilitare doveva indicare se era in possesso di armi da fuoco e se ne aveva il porto, e quando Papalia - nel frattempo pesantemente insultato sui muri di tutta la città di Giulietta - mandò gli ispettori in via Bellerio, sede della Lega Nord a Milano, sequestrò elenchi che confermavano la sua intuizione: ovvero che il Carroccio e la sua base si preparavano alacremente in visione di uno scontro futuribile.
Probabilmente forte di questa certezza, il Senatùr ha in più occasioni minacciato un’azione diretta: l’ultima castroneria di questo tipo in ordine di tempo è datata 18 agosto, quando in risposta ad alcuni attivisti vicentini che durante un comizio gli hanno gridato “Fuori le doppiette” Bossi ha risposto: “Per i fucili c’è tempo, abbiamo comunque milioni di uomini che vogliono liberarsi e che vogliono il cambiamento per loro e per i loro figli”.
Tra gli imputati di attentato alla Costituzione, attentato all’unità e all’integrità dello Stato e costituzione di banda armata figuravano lo stesso Bossi, Maroni, Borghezio e naturalmente Calderoli, all’epoca tutti eurodeputati o parlamentari che godevano dell’immunità votata dai colleghi. Ora, a 14 anni dall’avvio dell’istruttoria, due dei tre capi d’imputazione sono decaduti tramite il medesimo meccanismo di cancellazione del reato per decreto.
Sulla carta rimaneva perciò solo la terza delle accuse e al momento della riapertura del processo, lo scorso venerdì a Verona, la difesa ha prontamente segnalato al giudice Guidorizzi che i suoi assistiti non avrebbero più avuto motivo di presentarsi in aula, dato che nel giro di venti giorni il reato per cui sono attualmente sotto processo sarà dichiarato estinto.
Il presidente della Corte non ha perciò potuto fare altro che accogliere l’eccezione sollevata dai legali della difesa e rinviare il processo al prossimo 19 novembre quando, di fatto, ci si recherà in aula solo per dichiarare la chiusura dell’istruttoria e l’assoluzione degli imputati per la non sussistenza del reato.
Ci troviamo quindi nuovamente di fronte alla cancellazione di una voce del codice penale in nome del più bieco tergiversare giudiziario, e poco importa se in questi stessi giorni il Dipartimento di Stato americano ha emesso un “travel alert”, un avvertimento ai connazionali per la possibilità di attacchi terroristici in Europa. Al Governo che ha vinto le elezioni berciando sull’assoluta necessità di sicurezza e ai leghisti che vedono in ogni raduno di preghiera coranica una potenziale cellula di Al Quaeda, frega solo che Dike non ponga su di loro il suo sguardo inquisitore.
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di Ilvio Pannullo
Dopo aver affossato il governo Prodi dichiarando che il Partito Democratico sarebbe andato in caso di elezioni da solo al voto, evitando di allearsi con quegli stessi partiti che allora sostenevano il governo; dopo aver contribuito così all’estromissione della sinistra dal Parlamento limitando la rappresentanza di un’intera cultura politica dalle Istituzioni democratiche; dopo aver regalato Roma agli ex fascisti, proponendo l’improponibile Rutelli come suo fisiologico successore alla guida della capitale, Walter Veltroni si prepara adesso ad impedire qualsiasi possibilità che il partito da lui stesso fortissimamente voluto possa avvantaggiarsi della rovinosa crisi che sta interessando il governo.
Ecco dunque l’ultima trovata dell’entusiasta democratico: “Il documento dei 75”. È questo, infatti, il numero dei parlamentari del Partito Democratico che hanno firmato il testo promosso da Walter Veltroni, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni. Un documento che chiede una correzione nella linea politica del Pd, affermando implicitamente l’incapacità di Bersani nella conduzione del partito. “Ma non c'è nessuna intenzione di fare qualcosa di alternativo o che sia fuori al partito” assicura Marco Minniti, un tempo dalemiano doc. Nessuna scissione insomma, nessuna corrente, ma semplice dialettica politica. Pacatamente e serenamente, ovvio, e ci mancherebbe altro verrebbe da aggiungere.
Purtroppo però, alla conta dei 75 è seguita ieri un’altra conta voluta dal segretario, annacquata dalle molte assenze registrate al momento del voto. In un'intervista a La Stampa, Beppe Fioroni, con riferimento alla relazione di Bersani ieri in Direzione Pd, ha infatti dichiarato: "Alla fine molta gente se n’era andata, non eravamo duecento a votare. Meglio che nessuno giochi con i numeri. E alla Bindi che presiedeva, dico che, oltre a risparmiarsi reprimende contro chi ha opinioni diverse, per dimostrare di svolgere un ruolo di garanzia con lealtà avrebbe dovuto far contare anche i voti a favore. Nessuna marcia indietro - continua l’ex Ministro, tra gli astenuti alla direzione del Pd di ieri - noi vogliamo fare la minoranza che contribuisce con le proprie battaglie a migliorare la linea del segretario”. E quale modo migliore per migliorare la linea del segretario se non quello di alzare un simile polverone?
Per amore di precisione va ricordato che con Veltroni come segretario il Pd è diventato famoso per lo show cabinet - quel governo ombra talmente tanto ombra che nessuno si accorse della sua esistenza - il loft con vista sul Circo Massimo e per le sconfitte elettorali di Abruzzo, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. A voler essere scaramantici si dovrebbero fare gli scongiuri al solo sentirne il nome, ma in Italia - si sa - si concede una seconda opportunità a tutti. E poi magari una terza, una quarta, una quinta e via concedendo. Accade così che, nonostante i disastri creati nel paese, il Veltroni nazionale continui a imperversare nella politica italiana, nonostante la promessa di emigrare in Africa che per molti a sinistra sta diventando l’ultima speranza di vederlo per sempre neutralizzato.
I veltroniani fingono di stupirsi delle virulente risposte alla presentazione del loro documento. Per bocca sempre di Marco Minniti, infatti, davanti al crescente malumore all’interno del partito per l’inopportunità di una simile iniziativa in un frangente che vede il primo partito di governo lacerarsi sotto il peso di una crisi istituzionale - con la terza carica dello Stato che accusa il Presidente del Consiglio di utilizzare il suo ruolo istituzionale per fabbricare dossier infamanti al fine di minarne la credibilità politica - i veltroniani si dicono increduli per quanto sta accadendo.
“Stupisce - afferma Minniti - che venga considerato come un elemento di divisione e di indebolimento, come un regalo all’avversario, cose che sono figlie di altre stagioni politiche”. “Anche il tema della premiership - assicura Tonini - non compare nel documento, parliamo solo di linea politica». Resta invece l'intenzione di dar vita ad un movimento, che però «non vuole essere una corrente o uno strumento di lotta interna per spartirsi i posti, piuttosto un movimento di idee e di proposte dentro il partito ma con l’ambizione di parlare anche all’esterno”. Le posizioni di quest’area, in dissenso con la gestione del partito di Bersani, “saranno portate in tutte le sedi in cui il partito si esprime”. Al che vien quasi da piangere.
Laconico e volutamente sotto tono il commento del segretario: “A me va bene tutto - risponde Bersani - non ho fatto conti sul sostegno a questo documento”. A Veltroni, che ha accusato la dirigenza del Pd di aver perso la bussola, Bersani risponde: “Per me la bussola è rimboccarsi le maniche, andare avanti, fare le nostre discussioni nelle sedi giuste e nei nostri organismi. Adesso tutti assieme abbiamo il compito rilevantissimo che è quello di parlare di questo paese, dare una mano per quanto possiamo per tirarlo fuori dai guai e tenere alta la battaglia politica nel momento in cui tutti vedono che andiamo incontro a un periodo di ulteriore instabilità e minori risposte di governo”.
Walter Veltroni, dal canto suo, da sempre uomo che disdegna le ordinarie sedi di confronto politico per esprimere la propria visione degli avvenimenti, del mondo e perché no dell’universo intero, ha precisato sul suo profilo Facebook il senso del documento. Ovvero, “rendere più grande e più aperto il Pd. Questo è l`unico obiettivo del documento ed è una posizione politica che, come tutte, va rispettata e discussa. Così succede in tutti i partiti democratici”.
Ma cosa si dice in questo benedetto documento? Nel testo s’invoca una “coerente strategia riformista che può dunque contare su rilevanti forze sociali, unendole in un progetto che risponda ai bisogni dei più deboli facendo leva sui meriti dei più capaci. Questa strategia non può essere incardinata prevalentemente attorno a obiettivi di difesa della realtà presente, aggredita dall'attacco della destra populista. Al contrario, l'alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo perché non sa, non ha, non può abbastanza, e chi vuole il cambiamento, perché sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo, ha la forza necessaria per piegare le tante resistenze corporative che vi si oppongono”.
Un passaggio questo dove i più scettici potrebbero vedere un riferimento a future alleanze con partiti, come l’Udc di Pierferdinando Casini o l’Mpa di quel Raffaele Lombardo al quarto governo in appena due anni di governo alla regione Sicilia, noti per le loro posizioni laiche, meritocratiche e coerentemente liberali. Dopotutto - si sosterrà - è forse meglio allearsi con il giustizialista Di Pietro che tanto insiste con la questione della legalità? Giammai.
La critica dell'area di minoranza punta infatti al cuore dell’identità politica del Pd: “Nulla sarebbe adesso più sbagliato e contraddittorio - si legge sempre nel documento dei 75 - che affrontare la crisi politica e culturale del berlusconismo, sulla base dell'assunto della immutabilità dei rapporti di forza nel Paese. Una visione così angusta e rinunciataria, così falsamente realista, spingerebbe i democratici ad arroccarsi in difesa, pigri e spaventati, quando è invece il momento di uscire allo scoperto e di avanzare proposte coraggiose e innovative.
Esempi di questa mancanza di coraggio, di questa vera e propria involontaria subalternità ad un pensiero unico, sono per un verso l'ipotesi neo-frontista e per altro verso quella vetero-centrista: ipotesi che nel confuso dibattito interno al Pd tendono peraltro a mescolarsi, ad alternarsi in continue svolte e controsvolte, che offrono l'immagine di un partito che fatica ad esprimere una strategia nitida”. Par quindi di capire che la strategia della innominabilità del Biscione - il maggior esponente dello schieramento avverso - debba essere rispolverata, perché guai a puntare il dito su quello straordinario collettore di interessi e corporativismi che è diventato B. Si perderebbero voti. Ancora di più di quanti non se ne siano già persi.
Tra le proposte suggerite c'è la necessità di una “innovazione della proposta programmatica, che deve assumere con coraggio l'obiettivo di battere tutti i conservatorismi, compresi quelli, palesi e occulti, di centrosinistra, ponendo al centro il tema della democrazia decidente, attraverso le necessarie riforme istituzionali ed elettorali: rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento, regolazione del conflitto d'interessi, norme contro la concentrazione del potere mediatico e il controllo politico della Rai, differenziazione delle camere, riduzione del numero dei parlamentari, una legge elettorale, come si legge nel documento approvato dall'Assemblea nazionale del Pd del maggio scorso, di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali, insieme a norme sulla democrazia di partito e a una regolazione delle primarie per le cariche monocratiche”.
Insomma, la sagra del vorrei ma non posso. Con un partito che a fatica raccoglie un quarto dei voti validamente espressi e che ha già subito una scissione, il progetto Veltroniano consisterebbe nell’assicurarsi quella tanto sbandierata “vocazione maggioritaria” attraverso magari una porcata bis che assicuri la marginalizzazione definitiva di qualsiasi forma di dissenso politico organizzato, a sinistra del Pd. Quando si dice amare la democrazia.
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di Mario Braconi
Per una volta, bisogna dare ragione all’Osservatore Romano: lo IOR (acronimo - sarcastico? - di Istituto per le Opere Religiose) “non può considerarsi una banca nell’accezione corrente”. Niente di più vero: pur essendo gli armadi delle istituzioni finanziarie piene zeppi di cadaveri (veri e figurati), è difficile trovare un intermediario con un pedigree come quello della banca vaticana. Leggendo la sua storia la si può diagnosticare come apparentemente affetta da una patologica inclinazione a delinquere - le accuse vanno dal falso in bilancio al concorso in bancarotta fraudolenta, dal riciclaggio del denaro mafioso all’intermediazione di maxi-tangenti. Ripercorrere gli eventi salienti dell’Istituto è, in effetti, passeggiare in un ideale museo delle cere per amanti del genere horror: Gelli, Sindona, Calvi, Markincus, Fiorani, Balducci, tra gli altri.
Per non parlare dei singolari “incidenti” capitati alle persone al corrente del particolare modus operandi dello IOR: segretarie che volano dal quarto piano dell’ufficio, banchieri transfughi appesi sotto un ponte, sedicenti banchieri stroncati da caffè al cianuro, commissari liquidatori coraggiosi e onesti ridotti al silenzio perenne a colpi di pistola (e c’è qualcuno che, dallo scanno del Senato che occupa molto indegnamente, ha osato dire che quella fine se l’era cercata). O del modo davvero hollywoodiano con cui l’hanno fatta franca i pochissimi colpevoli su cui faticosamente la giustizia italiana era riuscita a mettere le mani: passaporti diplomatici (vaticani) o interpretazioni di comodo dei mai abbastanza vituperati Patti Lateranensi...
A quanto sembra, decadi di scandali e nuove nomine al vertice non cambiano le abitudini della banca: lo scorso 21 settembre il suo presidente (Ettore Gotti Tedeschi) e il suo direttore generale (Paolo Cipriani) vengono indagati per violazione del decreto legislativo 231 del 2007, cioè della legge anti-riciclaggio. I media italiani, ossequiosi come sempre, gareggiando in prudenza: ricorda il Corriere della Sera, ad esempio, che al momento non si sta procedendo per riciclaggio, ma per semplice omessa segnalazione. Distinguo interessante, soprattutto perché non è chiara la ragione per la quale si dovrebbe scientemente violare la legge contro il riciclaggio, se non per... effettuare appunto operazioni di riciclaggio. A meno che non si sia disponibili ad ammettere la possibilità di una sfida gratuita lanciata dallo IOR alle Istituzioni italiane.
Non è rassicurante, questa notizia, perché conferma quello che ogni italiano per bene sa già: gli anni passano, ma la singolare sindrome italiana (quel cocktail appiccicoso di spregio della legge, arroganza, violenza, vigliaccheria, clericalismo) continua ad avvinghiare il corpo minato della Repubblica. Eppure, uno spiraglio di luce si vede: è vero, ci sono voluti ben 59 anni (dalla fondazione dello IOR nel 1942 alla sentenza della Cassazione n. 22516 del 2003) per stabilire l’ovvio principio che la banca vaticana è soggetta alla giurisdizione italiana.
Ne sono poi stati necessari altri sette per includere il Vaticano nella lista dei Paesi Extracomunitari le cui banche devono sottostare alle normative antiriciclaggio italiane, peraltro rafforzate (è infatti del Gennaio di quest’anno una lettera con la quale l’Istituto di Vigilanza, forse rispondendo ad una richiesta non del tutto innocente del Credito Valtellinese, ha sancito questo principio).
Però, finalmente, un organismo nazionale sta contestando un reato allo IOR senza vedere vanificato il suo lavoro da schermi vari (immunità o extraterritorialità). E se ciò è potuto accadere è solo perché al timone dell’Istituto di Vigilanza oggi c’é Draghi, ex banchiere d’affari allergico all’incenso, anziché Fazio, amico affezionato del potere clericale ma azzoppato dagli scandali.
Ma vale la pena entrare nel dettaglio: come ricostruisce Il Sole 24 Ore, a seguito della comunicazione della Banca d’Italia di gennaio 2010 sopra citata, il Credito Valtellinese scrive a Palazzo Koch, dichiarando di voler interrompere l’operatività con lo IOR (suo cliente) in attesa che nuove regole vengano definite (non si capisce bene quali, visto che la lettera della Banca d’Italia è chiarissima). Questo non impedisce però allo IOR, cinque mesi dopo, di disporre dal suo conto presso il Credito Artigiano (posseduto dal Credito Valtellinese) due bonifici da 20 e da 3 milioni rispettivamente diretti verso JP Morgan di Francoforte e alla Banca del Fucino.
A questo punto, è bene specificare che nel cosiddetto Consiglio di Sovrintendenza dello IOR, presieduto da Gotti Tedeschi, siede tra gli altri anche Giovanni De Censi, presidente del Credito Valtellinese, guarda caso, la banca che controlla il Credito Artigiano. Una coincidenza tanto singolare che, a voler essere malevoli, potrebbe far supporre che le transazioni poi bloccate dalla Banca d’Italia e nella lente della Procura di Roma, siano state veicolate proprio attraverso una banca “amica” e pertanto disponibile ad assumere atteggiamenti più “rilassati” nei confronti delle leggi italiane. Ma, a causa di un automatismo informatico, o forse dell’intervento di un qualche funzionario coraggioso, parte la segnalazione alla Banca d’Italia, la quale blocca la transazione: non vi sono dubbi, la legge anti-riciclaggio è stata violata, e quindi scatta anche l’inchiesta della procura romana.
Mentre si moltiplicano le inevitabili manifestazioni di solidarietà ai due alti dirigenti della discussa banca vaticana da parte di membri della Chiesa come dei soliti penosi politici italiani più papisti del Papa (unica eccezione, il radicale Turco, che rilancia con la richiesta di una commissione d’inchiesta), vale la pena vagliare con attenzione la reale tenuta delle dichiarazioni di Gotti Tedeschi. Il presidente dello IOR si è infatti affrettato a dichiarare che le due operazioni incriminate erano semplici giroconti diretti ad altri conti dello IOR: ma se è così, per quale ragione non è stato chiaramente identificato il beneficiario del cospicuo pagamento, visto che coincideva con l’ordinante? Chissà se conosceremo mai la risposta.
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di Mariavittoria Orsolato
Le ultime sono note. dalla scuola elementare in provincia di Brescia griffata Lega persino sui banchi alla storica decisione di dare il via al Giro della Padania, che quello d'Italia non gli va più; rischia di vincerlo un terrone. Il battesimo con l'acqua del Po e del Monvisio non basta più. I furbetti del varesotto sono ormai a briglia sciolta.
Dal 1987, anno in cui è stato fondato il partito, la Lega Nord ne ha fatta di strada nell’impervio e insidioso viale della politica italiana. In quelle elezioni i rappresentanti eletti alla Camera furono solamente due, ma già alla tornata successiva - era il 1992 di tangentopoli e delle stragi mafiose - il movimento di quello che già allora era “il Senatur” sfiorava il 9% e piazzava, tra Montecitorio e palazzo Madama, ben 80 deputati.
In quel primo affaccio sulla scena politica, le parole d’ordine della Lega erano “secessione” e “Roma ladrona”: Veneto e Lombardia in massa, Piemonte in parte, premiarono quello che pareva un volto nuovo, fresco e volitivo, un uomo che “ce l’ha duro” o, come più degnamente lo definì il professor Miglio (teorico del federalismo e padre putativo della Lega Nord) “un puritano che vive con estrema modestia”, e che allora, agli occhi del microcosmo imprenditoriale del nord, appariva come la vera alternativa alla nomenklatura della prima repubblica.
In 23 anni di vita politica il partito ha ribalzato ciclicamente tra i banchi della maggioranza e quelli dell’opposizione, facendo addirittura cadere il primo governo Berlusconi nel lontano 1995; il piglio sempre aggressivo, il fare polemico e un perenne nemico contro cui scagliarsi: se agli albori il problema dell’Italia erano i “terroni”, la convivenza con Fini e Berlusconi ha portato a ridisegnare il target prima negli immigrati, poi nei musulmani, quindi nei Rom. Andando con lo zoppo s’impara però a zoppicare e, in questi anni di onorato servizio civico al localismo padano, la tanto vituperata “Roma ladrona” è diventata una seconda una casa: l’unico chiodo su cui la Lega può battere in favore del suo “modesto” elettorato, colpito nel portafogli da una crisi che non accenna a scemare, è il federalismo fiscale.
Pur di perorare la causa il Carroccio ha accettato il ruolo di subalterno nella destra italiana votata all’idolo berlusconiano, ma ora che il re è nudo e la bolla creata dal prestigiatore di Arcore sta per scoppiare, il popolo di Pontida acclama la riscossa e rivendica quel posto di rilievo istituzionale che in 16 anni ha potuto si condizionare, ma mai godere appieno. Il divorzio di Fini da Berlusconi offre infatti un pretesto ghiotto per invocare a gran voce le elezioni e se Bossi e i suoi agiscono in tal modo, è perché sanno per certo che la prossima tornata elettorale potrebbe dare delle soddisfazioni finora insperate.
E anche un modo furbo di proseguire nella raccolta di denaro da parte dei parlamentari del Carroccio; molti di questi, ad oggi, ricoprono (in barba alla legge che lo proibisce) doppi e tripli incarichi sitituzionali. "Roma ladrona" paga lautamente la Lega che non perdona. E non solo di parlamentari e funzionari di partito, ma anche di giornalisti affini. Stando ai dati forniti dal Dipartimento per l'Editoria della Presidenza del Consiglio, in questi 16 anni di vita il quotidiano del partito del celodurista e della Trota, La Padania, ha percepito sotto forma di finanziamento pubblico ben 50 milioni di Euro. Non é quindi strano che, fregandosene bellamente della congiuntura economica e politica, la Lega voglia tornare rapidamente alle urne.
Stando a quelli che sono gli umori popolari propugnati dai sondaggi di Renato Mannheimer, la Lega naviga verso l’11% e raccoglie consensi anche in quelle regioni del centro-nord che, storicamente, fanno parte della cosiddetta “zona rossa” italiana, ovvero Emilia-Romagna (dal 4,8% del 2005 al 7,8%), Umbria (dall’1,7 al 5,3%), Toscana (dall’1,3% al 6,6%) e Marche (dallo 0,9% al 6,8%).
Il Carroccio passa quindi indenne dal “ciarpame” berlusconiano e rimane quel partito a base popolare che tanto colpì le fantasie dei piccoli imprenditori del triveneto, cominciando però ora ad attecchire in settori storicamente deputati alla sinistra come gli operai o i dirigenti pubblici: le regionali di quest’anno ne hanno dato piena conferma con un 12,8% di preferenze complessive e il colpaccio su Veneto e Piemonte.
La Lega Nord mira paradossalmente ad essere un partito nazionale e il bailamme che si è scatenato tra gli scranni della maggioranza offre il fianco di Berlusconi alle frecciate che finora il Senatur aveva tenuto tra i denti in attesa del da farsi. “Per Berlusconi la strada è molto stretta: se tutti i giorni deve andare a chiedere i voti a Fini e a Casini per far passare una legge, non dura molto”.
Questo il commento di Bossi dopo Mirabello, mentre a seguito della riunione dei capigruppo alla Camera, e dopo un incontro con Giulio Tremonti e Roberto Calderoli, il Senatur ha premuto sull’acceleratore spiegando ai cronisti che per arrivare alla crisi che apre la strada alle elezioni anticipate, ci sono due sole strade: le dimissioni di Silvio Berlusconi o un voto di sfiducia da parte della Lega. Salvo poi, una volta incassato il no di Berlusconi, fare rapida marcia indietro, come sovente accade.
La cronaca e la storia, infatti, ci hanno insegnato che le sparate di Bossi solitamente non si realizzano all’atto pratico, ma hanno l’inestimabile pregio di venir prese sul serio dal suo fedelissimo e idolatrante elettorato. Il Premier, infatti, ha subito raffreddato gli entusiasmi del Carroccio ribadendo il suo “dovere di governare” e scongiurando, almeno per ora, lo spauracchio di un elezione già a novembre. Per ora, perché la Lega sa che ormai quello che è stato il suo cavallo di Troia per far breccia nelle istituzioni non gode più del credito o, per meglio dire, del rispetto che l’ha portata a monopolizzare il Paese per 16 anni. Ad ogni piè sospinto Bossi annuncia la calata su Roma di milioni di padani, ma a starlo a sentire sono sempre quatto gatti dall’inconfondibile aspetto di fuoriusciti da osteria.
E se le sue Ronde Padane hanno fatto la fine che meritavano, affogate in un mare d’indifferenza, e se proseguono nel generale ridicolo le sue cerimonie di acqua del Po e le elezioni di Miss Padania, dove il folklore lascia il posto al potere, il Carroccio s’infila come può. Nel grande risiko bancario, la Lega si oppone all’aumento ulteriore di capitale libico in Unicredit, ma solo per appoggiare i suoi uomini ai vertici delle banche locali del Nord e per esercitare un potere d’interdizione nei confronti dei salotti della finanza italiana.
Il partito di Bossi è stato più volte al governo dal 1992 ad oggi. Governa molte città del nord e, ora, anche due regioni. E' il partito che vuole la secessione ma anche no. Vuole il federalismo ma taglia i fondi alle regioni, vuole allontanarsi da Roma ladrona e occupa Montecitorio, Palazzo Madama, la Rai e i ministeri.
Del Carroccio Antonio Martino, forzitaliota della prima ora e Ministro del cavaliere, ha dato una definizione precisa: “Era un partito liberista, diventò laburista con il governo di Lamberto Dini, e adesso è diventato un partito clientelare, che vuole difendere il suo sistema di potere localistico su cui innestare senza cambiamenti il federalismo fiscale”.
Ci sono in ballo voti, potere, gestione di banche aziende, regioni, enti e Istituzioni, tutto quello che la Lega si è accaparrata nel tempo. Berlusconi è ormai alle corde, un personaggio politicamente finito che si aggrappa ai partitucoli da 1% pur di rimanere a galla. Ma sta annaspando e Bossi non aspetta altro che le forze gli vengano meno. Nonostante l’alleanza con Fini sia pressoché un miraggio, il Carroccio ha tutti i numeri in regola per scardinare l’assetto di quella che pretende chiamarsi destra, e un eventuale salto di quantità tra gli scanni delle due Camere potrebbe imporre un’agenda completamente diversa da quella pianificata in anni di alleanze necessarie alla sopravvivenza.
Abbiamo già assaggiato - tanto per citarne alcuni - lo smembramento del sistema sanitario, la forzata autonomia scolastica e le ordinanze assurde e retrograde dei sindaci con i superpoteri voluti da Maroni in nome della sicurezza. Sicuri di volerne ancora?
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di Alessandro Iacuelli
E' toccato al sindaco di Pollica-Acciaroli, ridente comune del Cilento, località balneare tra le più rinomate d'Italia, cadere sotto i colpi pistola di qualche ignoto. E' non è stato certo un proiettile vagante: nove colpi di pistola, alle 2 del mattino del 6 settembre, mentre era alla guida della sua auto. Nove colpi di pistola entrati tutti dallo stesso finestrino, quello dal lato del guidatore, diretti verso di lui. Esecuzione in piena regola.
Una carriera politica non proprio asservita ai poteri forti, quella di Angelo Vassallo, 57 anni. Eletto in una lista civica, a capo di un comune che uno dei maggiori poli del Parco Nazionale del Cilento, un comune che da anni vede assegnata la bandiera blu alle sue acque, ma anche un comune sotto attacco, da altrettanti anni, dall’edilizia abusiva, dalle speculazioni.
E' proprio l'attività in qualità di sindaco, secondo gli inquirenti, la pista più indicata per arrivare a movente ed esecutori. Infatti, Vassallo era salito alla ribalta delle cronache nazionali, nei mesi scorsi, per denunciare le speculazioni avvenute nella ristrutturazione del Porto di Acciaroli. Il sindaco aveva parlato, esplicitamente, di "lavori eseguiti non a regola d'arte da parte dell'impresa" per la quale il Comune "aveva bloccato le somme destinate al pagamento". L'uomo era già stato sindaco del Comune di Pollica-Acciaroli, ed era al suo secondo mandato, sempre all'interno di una coalizione di centrosinistra.
Il comune si trova in uno dei principali Parchi Nazionali d'Italia, in una delle aree naturalistiche più preziose, da preservare affinchè possa fare da volano al turismo, e non trasformarsi nell'ennesima colata di cemento selvaggio. Come ha fatto notare in un'intervista Nicola Landolfi, segretario provinciale di Salerno del PD, "questo è un fatto di assoluta novità per il territorio cilentano, una svolta epocale di una gravità inaudita. Non si ricorda di episodi criminali di questa efferatezza in una terra fino ad oggi tranquilla. Hanno colpito un simbolo, un ottimo amministratore".
Al di là delle dichiarazioni politiche, il comune presenta un territorio che è una delle maggiori bellezze del Mezzogiorno. Diventa quindi pericolosamente plausibile che l'omicidio sia maturato negli ambienti delle speculazioni edilizie, proprio in quel Cilento che fino ad oggi è stato molto meno pervaso da infiltrazioni di criminalità organizzata, rispetto alla vicina Campania settentrionale.
Il sostituto procuratore di Vallo della Lucania, Alfredo Greco, ha commentato: "E' un agguato in stile camorristico con modalità brutte e pesanti, un’esecuzione cattiva, con troppi colpi sparati". Vassallo, dice Greco, "era una persona perbene, che metteva se stesso davanti all’illegalità. Il medico legale ha stabilito che è morto con i primi colpi, poi ne sono arrivati altri: il cadavere è crivellato di proiettili. Negli ultimi tempi era preoccupato e mi teneva costantemente informato sugli sviluppi di alcune vicende. Era un uomo che si batteva contro l'illegalità ed era sempre in prima linea. Quando accadeva qualcosa di particolare sul suo territorio, me lo segnalava".
A commentare l'accaduto anche Raffaele Marino, procuratore aggiunto a Torre Annunziata, da anni amico di Vassallo: "E' stato ucciso per un no di troppo. Un no pronunciato a gente che non ammette risposte negative. Un no detto in faccia alla camorra. Non ho dubbi".
Cosa è successo ad Acciaroli? E' successo che dopo decenni d’immobilismo, un bel giorno è arrivato un nuovo sindaco, che ha trasformato in breve tempo il porto e il centro storico in dei gioielli, salvaguardando sempre la legalità. Acciaroli, da località "fuori mano", lontana da autostrade e dal mercato del turismo di massa stile riviera adriatica, è rinata. Probabilmente, proprio la rinascita di Acciaroli ha suscitato appetiti forti; a raccontarlo sono proprio le modalità del delitto.
Angelo Vassallo verrà ricordato anche per le sue ordinanze considerate singolari, come quella emessa nel gennaio di quest'anno, che prevede una multa salatissima, ben 1000 euro, per chi getta a terra cenere o mozziconi di sigaretta. O quella per la vendita di 150 loculi del cimitero dotati di tecnologie moderne, come una webcam che rende possibile guardare, anche a chilometri di distanza, l’ultima dimora del proprio caro, e un impianto audio di filodiffusione all'interno del cimitero stesso. Ordinanze singolari, com’era singolare il personaggio. Ma, nella sua singolarità, è andato a sfidare i poteri forti per difendere la sua terra, e non ci vuole certo la sfera di cristallo per indovinare che si tratta di poteri legati al mondo dell'edilizia.
Cordoglio per la morte di Vassallo è stata espresso anche dal segretario del Pd Pierluigi Bersani: "Esprimo profondo sgomento per l'uccisione di Angelo Vassallo. Un'esecuzione feroce l’ha portato via alla sua famiglia e all'intera comunità di Pollica-Acciaroli. Un sindaco onesto e capace che ha saputo lavorare con spirito di servizio per affermare i principi di legalità, valorizzando le risorse migliori del territorio e testimoniando così, con il proprio impegno, la volontà di costruire un futuro diverso per la propria terra. Alla magistratura e alle forze dell'ordine spetta il compito di fare piena luce su questo efferato delitto e stabilire se debba essere ascritto alla ferocia della criminalità organizzata".
Il ministro dell'Interno Maroni ha invece risposo ai giornalisti, che gli chiedevano una valutazione sull'omicidio: "Valutero' insieme al capo della polizia Antonio Manganelli le iniziative da prendere, e cosa c'è dietro questo efferato delitto".
Di qualunque cosa si sia trattato, un segnale è certamente chiaro: la criminalità organizzata, plausibilmente campana, é passata all'azione: obiettivo, mettere le mani sul ridente Cilento. Ci sarà da difenderlo a spada tratta.