di Rosa Ana De Santis

Il business sulle esecuzioni capitali, da gennaio 2011 partirà dalla sede italiana di Liscate (Milano) dell’azienda farmaceutica Hospira. Questo denuncia il dossier di “Nessuno tocchi Caino” e l’ong “Reprieve”. Il Pentotal, barbiturico ormai inutilizzato per gli ospedali, verrà prodotto per essere utilizzato nei protocolli USA dell’iniezione letale. Un carteggio svelato tra l'ufficio del governatore del Kentucky e una dirigente della società di Lake Forest lo dimostra.

Quindi mentre l’Inghilterra dice no, l’Italia subisce pressioni fortissime per diventare il magazzino della pena di morte. Una contraddizione imbarazzante per un paese da sempre impegnato nella moratoria universale contro la pena di morte. Per non dire delle nostre Istituzioni che in tutte le salse portano avanti campagne per la difesa della vita. Papa compreso, che della sua extraterritorialità si dimentica molto spesso in cambio d’ingerenze fortissime nella vita politica italiana. Se ne ricorderà nel prossimo angelus o nella prossima lettera ai fedeli?

Le tantissime esecuzioni in sospeso hanno indotto le autorità federali a investire ancora di più nel modernissimo stabilimento di Liscate. Il marketing del macabro è proprio tutto qui. L’amministratore delegato di Hospira Italia, Giuseppe Riva, si è difeso sostenendo che il Pentotal serve solo nella fase preparatoria dell’esecuzione, come anestetico. Gli basta poco per sentirsi sollevato.

Nel frattempo é stato depositato un esposto alla Procura di Milano dal presidente dei Verdi Angelo Bonelli e l’accusa per i vertici di Hospira potrebbe essere quella di “concorso in omicidio”. L’auspicio è che il “governo della vita” decida di intervenire con forza su questa questione pesantissima e di non evitarla per assecondare i dicktat americani e il solleticante profitto. L’episodio ci creerà più di qualche problema alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

L’Italia si racconta, ancora una volta, con l’ipocrisia che ha sempre contraddistinto la nostra politica. Viene in mente il caso delle mine anti uomo. Anche li siamo sempre stati contro, ma lo stop alle produzioni è arrivato soltanto nel 1997 e si continua a tollerare, senza alcuna parola di condanna, che le maggiori banche italiane continuino indisturbate ad investire nelle aziende che le producono.

Del resto quello che accade nello stabilimento di Hospira non è altro che un effetto fisiologico, e non patologico, di una certa forma mentis che governa il mercato e, nel caso specifico italiano, del rapporto di subalternità che ci lega all’impero degli Stati Uniti d’America. Altro che Russia. Non si capisce perché certe pratiche contrarie ai diritti umani, ad esempio lo sfruttamento della manodopera e le condizioni disumane di lavoro, diventino argomenti di agitazione politico-istituzionale straordinaria.

Forse perché si tratta di cinesi e delle loro imprese tessili che tolgono guadagno alle nostre? La contrarietà di certe pratiche ai valori in cui si riconosce il nostro paese è evidente che diventa una questione di attenzione politica solo quando si tratta di paesi “canaglia” (come li chiamano gli USA) o di affari di casa nostra. La coerenza della teoria vacilla un po’.

Negli Stati Uniti la carenza di Sodium Thiopental e l’imminente scadenza delle dosi presenti sta generando una moratoria de facto nelle carceri americane. Noi però ci stiamo dando un gran da fare per far ripartire la macchina della morte. La sensazione è che si dovrebbe impedire la produzione e l’esportazione di un farmaco il cui utilizzo, carte alla mano, è finalizzato all’uccisione di detenuti. Perché, semplicemente, la legge italiana condanna la pena di morte. Oppure il rispetto della legge vale solo quando si tratta di tecniche di fecondazione assistita, di crio-congelazione degli embrioni o di diagnosi pre-impianto?

Questa applicazione parziale dell’inno alla vita, che è capace di mobilitare Camera e Senato o su bambini mai nati o su persone che scelgono liberamente di morire, è il ritratto di un paese imprigionato in battaglie ridicole e fallimentari. La conseguenza è che i cittadini ricchi di questo paese vanno a pochi km a fare tutto quello che la legge 40 gli vieta di fare in Italia, così come gli aspiranti suicidi continuano a suicidarsi. Mentre i detenuti americani, persone coscienti in carne ed ossa che vengono uccisi dallo Stato, alcuni dei quali inchiodati nel braccio della morte da un ingiusto processo, ricevono proprio dal Belpaese della vita  il boia della loro ultima ora.

Siamo ridotti ad un arlecchino della morale e della coerenza. Una sintesi di business e di devozione agli USA che ci fa dubitare in qualsiasi seria reazione di forza sul caso Hospira Italia. Siamo pronti a batterci per la difesa del parmigiano reggiano, per la vita degli embrioni e per i malati terminali. Ma sulla vita di condannati a morte per ora preferiamo limitarci ad accendere le fiaccole sotto gli archi del Colosseo. Che si trova a distanza ragguardevole dall’ambasciata Usa.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Mentre a Montecitorio “l’epocale” e tormentissima riforma Gelmini cadeva per ben due volte sotto il fuoco amico di Futuro e Libertà per poi passare in serata con 307 voti a favore e 252 contrari, l’Italia della scuola e della ricerca mandava in tilt l’intera penisola. A Bologna gli studenti medi ed universitari hanno paralizzato l’autostrada A14, a Roma i manifestanti cercano di irrompere a Montecitorio e a Pisa, Milano, Mestre, Padova e Catania le stazioni ferroviarie sono state occupate.

Il movimento studentesco forte di 450.000 adesioni, alza il livello dello scontro e poco importa se per l’acciaccato Berlusconi “i veri studenti stanno sui libri, quelli in piazza sono i fuori corso e quelli dei centri sociali”: dal variegato mondo dell’istruzione e della ricerca il no alla disarticolazione della scuola pubblica arriva forte e chiaro.

Com’è ovvio e ormai scontato, la rabbia di quella che a tutti gli effetti è una generazione precaria viene etichettata dalle istituzioni come sfacciata pelandroneria, pungolata dall’antagonismo a tutti i costi dei centri sociali e dalla bramosia dei baroni di mantenere i propri privilegi. Certo quella di ieri è stata una protesta forte e a tratti tumultuosa, gli scontri con le forze dell’ordine non sono mancati ed i disagi per la popolazione sono stati evidenti. Ma anche dall’altra parte della barricata, quella che Pasolini difese a spada tratta commentando gli scontri sessantottini di Valle Giulia, la tensione ha portato a forzare la mano nella difesa delle tante zone rosse cui erano preposti a presidiare.

Quarantadue anni dopo non ci sono più i figli dei borghesi a scontrarsi con i celerini proletari, oggi il mondo degli studenti è trasversale per ceto ma quanto mai eterogeneo nel destino di precarietà che attende i neolaureati e i preziosi ricercatori ed è proprio questo disperato bisogno di certezze che spinge un’intera generazione a reclamare diritti e soprattutto attenzione. Un’attenzione che non vuole essere catalizzata sulla meccanica del dissenso ma che è richiesta innanzitutto in merito ai punti voluti dalla riforma di cui Maria Stella Gelmini è evidentemente uno
strumento inconsapevole.

Giusto per rinfrescare la memoria è buona cosa ricordare che il ddl Gelmini-Tremonti consta di tre titoli e 25 miserremi articoli per smantellare l’università a la sua ricerca in tre semplici mosse: una riorganizzazione degli atenei in visione di una stretta collaborazione finanziaria con le aziende private, un’ampia delega al governo per integrare a colpi di decreto un’improbabile corsa all’eccellenza ed infine nuove e più stringenti regole sul reclutamento di docenti e ricercatori.

Dagli atenei in rivolta e dal più vasto mondo della cultura il progetto del Governo viene sezionato punto per punto e si tradurrebbe nella realtà in una deriva aziendalistica delle università, nella definitiva precarizzazione della ricerca universitaria e dei ricercatori e nell'affievolirsi delle attuali misure sul diritto allo studio.

Secondo il testo uscito ieri dalla Camera, le università del futuro saranno infatti guidate da rettori ingombranti che, oltre a diventare rappresentati legali degli atenei e coordinatoi unici delle attività scientifiche e didattiche, presiederanno gli organismi chiave delle istituzioni universitarie, coadiuvati da soggetti privati che la riforma prevede entrare in quelli che saranno veri e propri consigli di amministrazione.

Per far fronte comune alla penuria di risorse data dai tagli indiscriminati imposti dal tesoriere Tremonti, gli atenei potranno federarsi o fondersi e un non specificato "fondo per il merito" arriverà a ad attribuire premi e borse di studio, ma solo attraverso il palcet del ministro stesso. Gli emendamenti sui cui è scivolata la maggioranza prevedono la cosiddetta norma "anti-parentopoli", che dovrebbe impedire la chiamata di parenti fino al quarto grado, e vanno a ripristinare gli scatti meritocratrici per docenti e ricercatori degni. In più grazie al testo presentato da Futuro e Libertà è prevista l'assunzione di 4500 associati nel triennio 2011-2013.

Per quanto le correzioni approvate ieri paiano ripristinare una parte dei finanziamenti, dall'opposizione e dal movimento studentesco si replica che i soldi nelle casse di Stato non ci sono e che l'obolo di 800.000 euro previsto dalla finanziaria di quest'anno, non essendo ancora stata approvata, è solo uno specchietto per allodole.

Sebbene Fli si sia presa il merito di aver emendato un testo inviso a molti, il ribaltone che gli studenti e parte dell'opposizione si erano augurati non si è verificato ed ora il disegno di legge più dibattuto del terzo governo Berlusconi torna per la terza volta al Senato.

La calendarizzazione non è ancora stata indicata, ma vista la verifica di Governo prevista per il prossimo 14 dicembre, i tempi suggeriscono di fissare il voto entro il 13. Il presidente Schifani ha indetto per giovedì una riunione con i capigruppo, ma appare evidente che un'accelerazione dell'iter sarebbe possibile solo nel caso in cui si verificasse il voto unanime di tutte le parti politiche

La riforma Gelmini non sarà quindi ricordata come il provvedimento che fece finalmente cadere il Governo auticratico del Caimano, ma sicuramente rimarrà negli annali come forza motrice della rinnovata partecipazione studentesca alla vita politica. Un sonno che, indotto dai lutti degli anni di piombo e del panciuto benessere degli anni ottanta, viene finalmente interrotto e fa sperare nuovamente in una riscossa del piccolo Davide contro il gigante Golia.

 

di Fabrizio Casari

Sono belli gli studenti, bellissimi. Ci piacciono nelle foto festanti e ci piacciono nelle aule, anche quando sono occupate. Perché nelle aule s’insegna, a volte bene, ma quando sono occupate s’impara, a volte molto. E ci piacciono gli studenti anche quando li vediamo stampati sotto ai palazzi del potere a ricordargli che fessi non li fanno, che se ora votano i parlamentari, poi saranno gli studenti a votare. Per tentare di entrare nelle sedi delle (loro) Istituzioni si scontrano con la polizia, perché solo alcune giovani possono entrare scortate e nottetempo. Ci piace vederli, perché abbiamo la sensazione, ogni volta, che la ribellione precedente, sconfitta o no, non è stata l’ultima.

Ci piacciono perché sono la quota generazionale d’indisponibilità al tacito consenso. Perché non c’è stata mai evoluzione sociale che non sia nata da una ribellione e non c’è stata mai una ribellione che non sia nata dagli studenti. Ci piacciono perché sono coloro che non hanno le spalle curve e lo sguardo basso, che cercano di scegliersi la vita, provando a cambiare quello che della loro non gli piace.

Che conoscono la solidarietà dei tanti, che usano più il Noi che l’Io. Che sanno distinguere tra destra e sinistra senza bisogno di saperlo da Fini e Bersani. Perché imparano in fretta una legge fondamentale: sarai quello che saprai e avrai quello che strapperai. E ci piacciono, gli studenti, anche perché li compatiamo, essendo la generazione che dovrà caricarsi sulle spalle i nostri fallimenti. Ci piacciono perché siamo padri e madri.

L’Italia, in 150 anni di storia ha avuto governi raramente all’altezza delle necessità di crescita e sviluppo necessari per il paese. Sono diverse le specializzazioni tragicomiche dei dicasteri italiani; la versione tragica è certamente quella del Ministero dell’Interno, quella comica è stata di quello della Cultura. Ma quella più deleteria, storicamente, è stata la poltrona del Ministero dell’Istruzione. Uno di quelli che negli ultimi anni ha cambiato denominazione, provvedendo tra l’altro, in un sommo atto di coerenza, all’abolizione dell’aggettivo “Pubblica”.

Quasi fosse una sorta di outing istituzionale, un’ammissione di colpa politica, era in effetti un disegno strategico. La scuola pubblica viene spolpata ogni anno per stornare fondi verso quella privata, in spregio della Costituzione. Privata ormai, infatti, è la spesa destinata dai governi succedutisi negli ultimi 15 anni all’istruzione; di pubblico resta solo la fattura da pagare, tutta in capo alla fiscalità generale, cioè ai contribuenti.

Precisamente 526 milioni di euro, mica bruscolini. Per giunta, 245 in più di quelli già assegnati precedentemente dal governo del fare (cassa). Non a caso è stata messa lì un soggetto come Maria Stella Gelmini. La Gelmini è il peggior Ministro dell’istruzione che l’Italia abbia mai avuto. La più ideologicamente invasata, la meno capace di concepire un progetto sistemico, la meno dotata di spessore culturale e capacità politica. La persona meno qualificata sotto ogni profilo della sgangherata compagine governativa in servizio presso la real casa.

Un errore quello di credere che sia solo impotente davanti alle richieste di tagli di Tremonti, cosa comunque possibile. La verità è che la Gelmini i tagli li condivide; anzi, fosse per lei, ne farebbe di più. Del resto, per quale motivo investire sulla qualità (e persino sull’esistenza stessa) della formazione culturale quando, come lei ha dimostrato, basta cercare qualche scappatoia per acquisire i titoli in modo più facile? La logica è chiara: la scuola pubblica, responsabile dell’ignominiosa scolarizzazione di massa, é un tipo di retrovirus che permette ad un ragazzo di ceto basso di studiare e formarsi per diventare, forse, un professionista di ceto alto. Uno scandalo inaccettabile.

Perché istruire milioni di giovani quando alle nostre imprese ne servono poche decine di migliaia? E perché, quindi, non lasciarne milioni in abbandono scolastico, sì da ottenere un bell’esercito di riserva con braccia a basso costo, senza così doverle importare da fuori? Cosa c’è di più utile che tenerli lontano dalla cultura, (che fa perdere inesorabilmente copie a Chi e a Novella 2000 e riduce gli ascolti del Grande Fratello) facendo in modo che non possano sognare un reddito, al massimo un salario basso e precario?

La privatizzazione della cultura, come l’azzeramento della scuola pubblica, sono fondamenta strutturali della società divisa in classi. Sono la matita con cui disegnare presente e futuro di un modello che nella guerra al lavoro e all’istruzione, nell’odio verso il sapere critico e collettivo, esprime l’odio verso l’emancipazione sociale, verso la riduzione della voragine tra chi la ricchezza la costruisce e poi ne paga i costi e chi, invece, ci si arricchisce. Bisogna dotarsi dei temperini giusti. Si trovano nelle aule ancora disponibili.

 

di Rosa Ana De Santis

La scure di Tremonti, anche se il Ministro prova a rimpallare le responsabilità al Parlamento, ha colpito duramente i fondi destinati al cinque per mille. E’ il terzo settore, la cultura, l’assistenza a bambini e ammalati a pagare il prezzo più alto, rischiando di scomparire. Ancora una volta sono le fasce sociali più vulnerabili a rimanere a piedi. Si ridurranno le attività di assistenza domiciliare destinate ai malati leucemici, sostenute dall’AIL (Associazione Italiana contro le leucemie), e diventerà quasi impossibile proseguire con i protocolli di ricerca avviati.

L’Unicef si vedrà costretta a lasciare fuori dai propri progetti 35.000 bambini africani. Le campagne d’informazione sulla donazione degli organi, sostenute dall’ AIDO, forse non ci saranno più. Le Case famiglie che ospitano i bambini destinati all’affidamento o all’adozione avranno un futuro sempre più incerto. Solo alcuni esempi che testimoniano quello che lo Stato non fa e che ora impedirà di fare ad altri.

Lo strano caso italiano di un welfare appaltato de facto ad associazioni, forme di volontariato e cooperative, si trasforma ora nel bottino utile per il tempo di crisi. E poco importa, a quanto pare, se all’aria andranno progetti necessari alla salute dei cittadini, servizi di assistenza, attività sportive e culturali. Il Senato dovrà rimettere in discussione il pesantissimo taglio che ha portato, dopo la discussione alla Camera dei Deputati, i 400 milioni destinati al 5 per mille a scendere a soli 100. Banca Etica è in prima fila nel denunciare l’errore, non solo etico ma anche economico, che porta lo Stato a colpire proprio un modello di eccellenza ed efficienza economica – quale è il terzo settore in questione - che, non a caso, i contribuenti hanno sempre apprezzato.

I tempi per far tornare il provvedimento in aula ci sarebbero, così come la ricerca dei fondi sarebbe più semplice oggi che non agli inizi del 2011. Ma il governo è troppo impegnato a sopravvivere e la maggioranza troppo lacerata per poter portare a casa un risultato. Così alle associazioni e alle maratone della solidarietà rimane solo un grande punto interrogativo che aggiunge all’incertezza economica la pena dell’umiliazione. Quella di venire dopo. Dopo i capricci del Ministro Carfagna, dopo lo show delle elezioni prossime, vicinisse o da evitare a tutti i costi. Dopo i siparietti folcloristici dell’esecutivo e la ricerca del dna del PDL.

A fermarsi con questi tagli è qualcosa che il nostro paese non può permettersi, senza pagare il pegno di lasciare migliaia di cittadini senza diritti fondamentali. Non è un lusso la salute, non è un lusso la cura, né la ricerca. Non è un lusso l’aiuto ai bisognosi. E’ quel midollo che tiene dritto un paese e che da ossigeno ad una società. La spina dorsale di una democrazia. Fondamentale ancora di più se lo Stato, come il nostro, non ha forze né risorse per occuparsi seriamente di welfare.

Lasciare in asfissia il paese più debole oltre ad essere un atto ignobile, ancora di più se con l’altra mano si fanno rientrare i capitali dei mafiosi, significa generare una ferita pericolosa e insidiosa nella cittadinanza. Un intollerabile seme di ingiustizia. L’altra faccia di una solidarietà obbligata che da anni sostituisce lo stato, colma le sue inadempienze, sana i suoi vuoti che ora negata, si trasforma nella negazione di diritti per tanti.  Il capolavoro di una finanziaria creativa che ha scelto di curare la crisi con gli spiccioli dei più poveri. E che presto tornerà a chiedere voti.

di Ilvio Pannullo

Sono giorni complicati per l’Italia. La crisi politica oramai conclamata e prossima ad essere portata in Parlamento il prossimo 14 dicembre rischia di pregiudicare irrimediabilmente i conti pubblici del paese. Per evitare il peggio il Quirinale ha scelto una linea interventista, dimostrando una certa discontinuità rispetto l’interpretazione data sino ad oggi al settennato di Giorgio Napolitano. Ieri il Presidente invocava "il giusto riserbo", anche se, alla platea riunita al Colle per la consegna dei riconoscimenti ai Cavalieri del lavoro, consegna un suo commento sull'attuale fase politica.

"Sono soddisfatto per il senso di responsabilità dimostrato ieri da parte di tutte le forze politiche" che hanno deciso di dare la precedenza al varo della legge di stabilità. "Avremo bisogno di altri segni di questo senso di responsabilità - ha aggiunto il capo dello Stato - nei tempi a venire". Il tutto dopo che il giorno precedente sempre il Presidente della Repubblica aveva incontrato Gianfranco Fini e Renato Schifani.

Fonti vicine al Colle, raccontano di un Capo dello Stato piuttosto indispettito per le parole del Cavaliere nel chiedere la fiducia solo a Montecitorio. Insomma, il Presidente della Repubblica sembra convinto nel seguire la strada dello strappo finale. Intanto, i finiani prefigurano alleanze con Rutelli, Lombardo e la stessa sinistra. Non va meglio al Pd.

Questo il quadro politico. Frastagliato, caotico, curvo e ingessato sulla triste quotidianità politica, del tutto incapace di immaginare una visione comune e responsabile per portare il paese in una condizione di sicurezza, lontano dalle nubi che aleggiano sui suoi conti pubblici. Ecco dunque l’altro fronte d’intervento - quello dell’economia - su cui il Colle non ha lesinato parole anche dure.

Più chiaro di così il Presidente Giorgio Napolitano non poteva infatti essere: "C'è una grande confusione, un grande buio, il vuoto sulle nostre scelte, sulle priorità nella destinazione delle risorse pubbliche". Al Quirinale, insomma, la finanziaria (ora denominata legge di stabilità), proprio non piace. Era il 12 novembre e Napolitano parlava davanti all'assemblea del Cuamm, l'associazione dei medici per l'Africa, quindi lo spunto fu la riduzione delle risorse per la cooperazione internazionale: "Non sono concepibili - disse - sordità e assurdità così che con un tratto di penna si cancellano gli aiuti allo sviluppo".

Ma la critica del Capo dello Stato non si limita a questo, l’accusa mossa al governo e al ministro del Tesoro Giulio Tremonti è di muoversi senza una vera politica economica, senza cioè una logica generale, una visione, un’idea che innervi i procedimenti proposti e votati a ranghi serrati dall’esecutivo. Ma c'è una domanda legittima da porsi: perché Napolitano interviene così duramente adesso se il momento dei tagli è stato quello della manovra estiva, approvata a luglio?

La tempistica risulta più comprensibile mettendo in fila i provvedimenti di politica economica del governo. Già a maggio, quando diventa evidente che la crescita dell'Italia non sarà quella prevista dall’esecutivo e che la crisi della Grecia impone di accelerare il risanamento, Napolitano avverte: "Tutta l'Europa sta vivendo gravi difficoltà ed è questo il tempo dei sacrifici, che devono essere distribuiti equamente tra i cittadini".

Poi Tremonti e il governo confezionarono tra maggio e luglio la manovra che anticipò la legge di bilancio per il 2011-2013: una manovra finanziaria che vale 25 miliardi di euro. Un risanamento dei conti deciso per contenere il rapporto deficit/Pil, che prevede soprattutto una drastica riduzione dei trasferimenti agli enti locali ed il taglio ai costi del pubblico impiego realizzato attraverso il blocco dei pensionamenti e del turn-over.

E di Napolitano si ricordano almeno due interventi piuttosto espliciti. A fine maggio s’indigna per il modo "rozzo" e "pedestre" (secondo quanto riferiscono i quirinalisti) con cui il governo ha individuato gli enti inutili da tagliare, soprattutto quelli culturali. Il 27 luglio farà poi sapere di approvare la protesta dei diplomatici della Farnesina, mobilitati contro i tagli al Ministero degli Esteri, e ribadisce che il rigore nei conti "non deve modificare funzioni e strutture portanti" dello Stato. La replica del governo, soprattutto di Tremonti, non si fa attendere ma rimane velata per evitare lo scontro istituzionale.

Nella sostanza si diceva che con la manovra votata si erano realizzati tagli di spesa lineari (cioè riduzioni secche: -10% a tutti i dicasteri) perché era l'unico modo per far passare tagli senza perdersi in negoziati senza fine. Poi, in un secondo momento, si sarebbe corretto il tiro restituendo con provvedimenti di spesa un po' di risorse a chi avrebbe dimostrato di meritarsele. E quali siano le priorità Napolitano l’ha fatto capire anche di recente, il 18 ottobre, alle celebrazioni per i duecento anni della Normale di Pisa: la necessità di risanare il bilancio non deve causare una "miopia temporanea" che porta a trattare Università e ricerca come voci di spesa qualsiasi. Proprio in quei giorni, infatti, la riforma dell'Università saltava per assenza di copertura finanziaria.

Ieri è arrivato in commissione bilancio della Camera il maxiemendamento alla finanziaria. L'ultima occasione per il governo di affinare gli interventi di risanamento di luglio, visto che la cosiddetta legge di stabilità (quel che resta della legge finanziaria d'autunno) non muove praticamente un euro. La vecchia finanziaria d'autunno ormai é infatti soltanto una scatola vuota che non ha effetti sostanziali sui saldi di finanza pubblica rilevanti, cioè non incide sui parametri deficit/Pil e debito/Pil definiti con l'Unione Europea. Sul 2011 ha un effetto pari a soltanto un miliardo di euro, che salgono a 3 per l’anno 2012. Non è più lo strumento principale di politica economica. L'unico strumento che il governo ha per distribuire risorse è dunque un emendamento governativo alla legge di stabilità.

Per l’appunto quel maxiemendamento, depositato in commissione Bilancio alla Camera, che perde alcune agevolazioni, come la proroga del 55% sulle ristrutturazioni, e ne rimanda di alcuni mesi altre, come l’abolizione del ticket sanitario per le visite specialistiche e diagnostiche o l’assegnazione del 5 per mille. Sono state confermate, invece, la proroga per gli ammortizzatori sociali, la detassazione dei premi produttività, i fondi per i Comuni e le Regioni e per il trasporto pubblico locale.

Per quanto riguarda l'Università i fondi saranno comprensivi di altre voci, come il credito d'imposta (voucher fiscale) a favore delle imprese che affidano attività di ricerca e sviluppo agli atenei o ad altri enti pubblici di ricerca, i prestiti d'onore e l'erogazione di borse di studio. Il quantum delle misure, però, lascia a desiderare. Confermati anche i fondi per l'edilizia sanitaria (l'85% andrà al Sud) che saranno coperti dal Fondo per le Aree Sottosviluppate (FAS).

La copertura del maxi emendamento, calcolata in circa 5,5 miliardi di euro, si prevede verrà dalle entrate dei giochi, dalla vendita delle frequenze del digitale e dal fondo Gianni Letta, ossia la cassa di palazzo Chigi, nonché dalla sempre presente lotta all’evasione (con un inasprimento delle sanzioni per il “patteggiamento” con il Fisco) e dall’imposta sostitutiva per le tasse ipotecarie e catastali sul leasing immobiliare.

Il Quirinale ha visto subito che poco cambiava nella sostanza: addio alle detrazioni per l'efficienza energetica, niente soldi per la cooperazione internazionale, soltanto 1 miliardo per l'Università (mentre le risorse si trovano per le scuole cattoliche, i comuni che non rispettano il patto di stabilità e per l'editoria). Quindi Napoletano è stato ancora più esplicito, denunciando l'assenza di una linea politica dietro queste scelte. Il governo replica, ma il messaggio è arrivato e si vedrà nei prossimi giorni se verrà recepito, magari con qualche correzione al maxiemendamento.

Di certo le parole di Napolitano sono state ascoltate anche dai mercati finanziari, sempre più pessimisti sulle sorti dell'Italia. La settimana scorsa la differenza di rendimento tra i buoni del tesoro decennali e i titoli di Stato tedeschi, parametro che misura quanto l'Italia è considerata a rischio bancarotta più della Germania, è arrivato al massimo da quando esiste l'euro.

Con un governo oramai allo sbando, un Parlamento svilito nelle sue funzioni ed umiliato dalla presenza di personaggi impresentabili, rimane solo il Presidente della Repubblica a difendere la credibilità del nostro paese e l’interventismo decisionista recentemente dimostrato lasciano almeno viva la speranza.

 


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