di Mario Braconi

“La crisi economica attuale si deve soprattutto a un'eclissi etico-culturale che ha inciso in modo determinante sull'economia e sulla finanza mondiale”. Così Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR, a margine di un convegno su “La questione economica come questione culturale e morale”, organizzato dalla Fondazione Lepanto lo scorso 23 novembre. Parole forse condivisibili, ma a patto di non andare ad approfondirle troppo.

Preludono, infatti, ad un insensato peana alla crescita demografica incontrollata) ma che, alla luce dei recenti incidenti giudiziari occorsi al brillante finanziere “di Dio”, si rivelano fastidiosamente moralistiche. Dal 21 settembre scorso Gotti Tedeschi, assieme al Direttore Generale dello IOR Paolo Cipriani, è indagato per violazione delle leggi antiriciclaggio della Repubblica Italiana.

La pietra dello scandalo è una doppia transazione, del valore complessivo di 23 milioni di euro, che lo IOR avrebbe disposto verso la banca JP Morgan di Francoforte e la banca del Fucino tramite il Credito Artigiano (controllato dal Credito Valtellinese, il cui presidente, Giovanni De Censi, siede anche nel Consiglio di Sovrintendenza dello IOR).

Ironicamente, sembra che la denuncia che ha messo nei guai i due alti dirigenti dello IOR sia stata effettuata proprio da De Censis, mentre è verosimile che l’operazione, fortissimamente voluta da Cipriani a dispetto della sua evidente pericolosità, potrebbe essere stata veicolata attraverso una banca “amica” proprio nella speranza di poter beneficiare di un’interpretazione blanda della legge.

Il danno per la banca vaticana è stato doppio: al gravissimo colpo all’immagine subìto (Gotti Tedeschi avrebbe dovuto far dimenticare tutte le malefatte di Marcinkus e soci, ma sembra che la Banca del Vaticano non riesca a tenersi lontana da corruzione e malaffare), si aggiunge il sequestro dell’intera somma da parte delle autorità giudiziarie.

Il 20 dicembre il procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi ed il PM Stefano Rocco Fava, argomentano il loro reciso “niet” alla richiesta di dissequestro dei 23 milioni, presentata dagli avvocati della banca del Vaticano: sono parole precise ed attente, le loro, come si conviene in questi casi, ma che gettano una seria ipoteca sulla buona fede dell’Istituto. Secondo i legali dello IOR il denaro che affluisce sui conti di corrispondenza dello IOR è per definizione di proprietà dello IOR stesso: questa interpretazione giustificherebbe la mancata segnalazione in Banca d’Italia delle transazioni rilevanti. Non a caso Gotti Tedeschi si è difeso sin dall’inizio sostenendo che le operazioni incriminate fossero semplici girofondi, ovvero trasferimenti in cui ordinante e beneficiario coincidono.

Secondo gli inquirenti, è proprio il modo in cui lo IOR intende la natura dei conti di corrispondenza a creare condizioni favorevoli al loro impiego per veicolare “operazioni di assai dubbia liceità”. Come ogni altra banca, lo IOR intrattiene infatti con le varie banche italiane rapporti di conto corrente di corrispondenza; conti tecnici, cioè, che vengono impiegati per regolare le transazioni intercorse giornalmente tra un istituto e l’altro.

Il fatto è che lo IOR utilizzerebbe detti conti in modo libero, per non dire spregiudicato: secondo la Guardia di Finanza, essi, oltre ad accogliere il riflesso contabile delle operazioni effettivamente concluse dai clienti dello IOR, vengono spesso usati per “parcheggiare” giacenze provenienti da assegni, bonifici eccetera, per periodi di tempo indeterminato, circostanza che cozza con “la transitorietà che dovrebbe caratterizzare i conti di corrispondenza”. Insomma, sembra che i conti di corrispondenza dello IOR siano uno strano ibrido, a metà tra il conto corrente di corrispondenza classico e un normale conto corrente ordinario.

La questione potrà anche apparire eccessivamente tecnica, ma è d’importanza essenziale: è infatti l’incredibile interpretazione che l’alta dirigenza dello IOR ha creduto di dare al funzionamento dei suoi conti di corrispondenza dell’Istituto che potrebbe consentire una situazione come quella che segue: se dalla filiale di Al-Quaeda di Piazza Mazzini di Roma parte un bonifico da un milione di euro destinato ad un conto presso lo IOR, a Dio piacendo, quel milione potrebbe diventare “formalmente” di proprietà dello IOR, che non sarebbe tenuto a spiegare da dove provenga e potrebbe disporne come meglio crede.

Ed in effetti, la transazione da 23 milioni su cui sono inciampati Gotti Tedeschi e Cipriani, alla luce dei dati snocciolati dalla Guardia di Finanza, rischia di essere la proverbiale punta dell’iceberg: sembra infatti che in due anni (dal dicembre 2007 al novembre 2009) siano ben 116 i milioni “senza padrone” transitati attraverso Banca del Vaticano in spregio alla legge (e anche al buonsenso). Insomma, ancora una volta le parole pronunciate da Gotti Tedeschi al convegno citato in apertura si rivelano (involontariamente) profetiche: “(...) non esiste in sé una “finanza etica” [...]: è soltanto l’uomo che la rende tale.” Appunto.

di Mariavittoria Orsolato

Gli scontri romani dello scorso 14 dicembre non hanno spostato di una virgola la cocciutaggine del Governo, che nel pomeriggio di ieri ha approvato in Senato - con 161 si, 98 no e 6 astenuti - la tanto contestata riforma dell’università. Il voto era previsto per martedì pomeriggio ma i lavori a Palazzo Madama hanno subito un blocco quando si è scoperto che nel testo un provvedimento modificato veniva poi abolito pochi commi oltre.

Dopo il rifiuto dell’esecutivo di emendare il testo, facendolo tornare per la quarta volta alla Camera e lasciando scorrere così altro tempo prezioso, è subentrato l’ostruzionismo dell’opposizione, che finalmente si degna di adempiere al proprio compito. Tempo sprecato perché purtroppo l’aritmetica delle alleanze e del cerchiobottismo, in questo esecutivo esangue, la fanno comunque da padrone.

Nel frattempo gli studenti medi ed universitari sono tornati in piazza. Roma non è andata di nuovo in fiamme e le manifestazioni in giro per la penisola si sono rivelate pacifiche e composte, anche se a Palermo e a Milano si sono registrati scontri e tafferugli tra i ragazzi e le forze dell’ordine. La giornata è però stata resa significativa dal presidente Napolitano, che ha accettato di ricevere una delegazione di studenti per aver modo di tastare il polso agli umori e alle rivendicazioni dell’Onda studentesca.

La prima carica dello Stato diventa così l’interlocutore unico degli studenti e si dice pronto ad esaminare le alternative che i ragazzi propongono ai tagli indiscriminati e alle nuove lobbies introdotte dalla riforma.

L’incontro è stato preceduto da una lettera che gli studenti avevano inoltrato, oltre che a Napolitano, anche al sindaco Alemanno, al prefetto e al questore di Roma. Solo l’inquilino del Quirinale si è però degnato di rispondere alla gentile richiesta. Il colloquio si è svolto nel clima di conciliazione che dall’avvento di Napolitano caratterizza, forse fin troppo, la Presidenza della Repubblica: gli studenti si sono detti soddisfatti dell’udienza, pur essendo consapevoli che loro è solo una delle istanze impellenti che caratterizzano lo sfacelo di questa seconda repubblica, e hanno definito Napolitano “L‘unico interlocutore istituzionale credibile“.

L’appello al Presidente della Repubblica non è una novità nell’Italia dei disegni di legge votati a suon di fiducia. Già in altre occasioni si è chiesto accoratamente di non firmare questa o quella legge, ma finora l’unico colpo di reni del Quirinale si è registrato sulla legge che mirava ad abolire i diritti sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Per poter rimandare un testo alle Camere, Napolitano deve infatti rilevarne vizi di costituzionalità e, data la diabolica parsimonia con cui gli scribacchini berlusconiani dosano i loro attacchi alla Costituzione, è improbabile che vengano riscontrati nel ddl Gelmini evidenti segni di incoerenza con il nostro testo fondamentale.

Il gesto di Napolitano è comunque da lodare in seno alla volontà di aprire un dialogo che non sia scandito da zone rosse e manganelli ed è da lodare soprattutto nella misura in cui ha destato dal suo torpore la giovane ministra della Gioventù Giorgia Meloni. Praticamente non pervenuta nel dibattito che in questi due anni ha infiammato il mondo giovanile - eccezion fatta per l’ormai nota “legge Balilla” che vedeva 20 milioni di euro stanziati al fine di organizzare pittoreschi tour di tre settimane in caserme dell’Arma e dell’Esercito - la ministra voluta da Fini ma poi passata all’idolatria per Padron’ Silvio, ha sentito di dover far valere la sua voce istituzionale.

In un’accorata lettera al Presidente della Repubblica, la Meloni infatti chiesto a Napolitano che dopo gli studenti in protesta vengano sentiti dal Colle anche “gli studenti democraticamente eletti nelle consultazioni universitarie nazionali”. Dopo essersi dilungata in apprezzamenti sulla funzione distensiva del Quirinale “segno di dialogo tra le istituzioni e la società”, l’ex presidente di Azione Studentesca (che, ricordiamolo, nel 1992 protestava a gran voce contro la riforma della pubblica istruzione voluta e mai attuata da Rosa Russo Iervolino) vuole mettere in evidenza “il rischio che un’attività parziale di ascolto, che si indirizzi unicamente nei confronti di chi assume posizioni più spiccate di contestazione e dà vita a forme di dura protesta, offra una rappresentazione parziale e quindi distorta della complessiva realtà universitaria”.

Insomma la Meloni pretende che al Quirinale viga la stessa par condicio che ha asfissiato il programma di Fazio e Saviano: un contraddittorio tra gli studenti riottosi e quelli che invece siedono nelle consulte accademiche, probabilmente conscia del fatto che la stragrande maggioranza di questi ultimi appartiene all’area di centro-destra e quindi avrebbe un’opinione del tutto diversa dai ragazzi ricevuti l’altro giorno. Ormai però c’è poco di cui discutere e ancor meno da conciliare: la disarticolazione dell’università pubblica ha ottenuto il sigillo istituzionale tanto agognato e anche se il risultato segna già la crisi del cosiddetto Terzo Polo ( Fli, Udc e Api hanno votato in discordanza), il voto di oggi va aggiungersi alla lunga serie di immeritati successi di un esecutivo sempre arroccato sulle sue assurde posizioni e sempre più distante dalla società civile. 

 

 di Rosa Ana De Santis

Era già accaduto nell’agosto 2009, con la notizia del divorzio dalla mamma Veronica e lo scandalo freschissimo di Noemi di Casoria. Barbara ritorna a parlare di privato e di politica dalle pagine di Vanity Fair. Giovane mamma, neo laureata in filosofia, con gli occhi azzurri di sua madre e i lunghi capelli biondi, anche questa volta svela più di quello che dice apertamente sui segreti di famiglia. Il ritratto che fa di suo padre non è inclemente, ma precisi e duri sono gli affondi sugli errori e le leggerezze private. In particolare una: quella sommersa e silenziata sul Ministro Carfagna.

La donna che Berlusconi, disse pubblicamente, avrebbe sposato subito. A lui, è noto, piacciono le donne dalle forme evidenti (come quelle dei tempi dei calendari della Carfagna) e i seni esuberanti. Parola della Cuccarini che con la sua seconda misura scarsa non è mai stata nelle grazie erotiche del capo.
Barbara, devota e grata a un padre che le ha sistemato bene il futuro e che la vede già rossonera per professione, elogia il padre premier, il politico, ma soprattutto difende la regola aurea del consenso elettorale come criterio incontrovertibile di legittimità del sistema democratico. Arrivano però le note stonate. Quelle che lei chiama “debolezze e superficialità private”. Le donnine che escono dalle auto blu (“un serio danno d’immagine per il Paese”) e che comunque gli italiani hanno votato.

Questo il dato più raccapricciante. Il pattume contro cui Veronica Lario, moglie tradita, si era scagliata. Ma nessuna illusione. Barbara deve “credere alle verità del padre”. Sembra quasi un’interpretazione post moderna del quarto comandamento “Onora il padre e la madre”, fatta bene e con molto gusto tattico, o il tentativo ben pianificato di far riprendere punti a un Berlusconi un po’ acciaccato, che torna ad essere baldanzoso e senza rughe giusto nei monologhi patinati di Matrix, in cui il conduttore porge soavemente le battute al proprietario della rete ospitante.

Un solo passaggio esce fuori dal registro equilibrato di tutta l’intervista. Quello del severo attacco a Mara Carfagna. Definita come una che non si può “lagnare”, dato che dai Telegatti è passata al Parlamento. Una bacchettata irriverente e in grande stile che riesce ad accreditare le voci e i pettegolezzi. In poche righe esce fuori tutta la rabbia di una figlia sincera e di una difesa accorata per sua madre. Anzi sembra di sentire proprio lei, nonna Veronica.

Ed è proprio la figlia del premier, o almeno così pare, ad accreditare voci e pettegolezzi sulla liaison a luci rossissime  tra Berlusconi e Mara Carfagna. Il tradimento presunto, la declamazione pubblica di un amore che sarebbe stato coronato benvolentieri da nozze qualora Berlusconi fosse stato celibe, e infine il premio. Per una carriera rampante e immediata faticosamente rattoppata con la laurea e l’impegno politico affannosamente rivendicato da Mara in ogni intervista possibile.

Ma dai Telegatti alla politica c’è un vuoto che non ammette parole, tantomeno lamentele e che Barbara evidenzia con soddisfazione tutta femminile, perché forse si possono perdonare molte cose al padre amato, ma non quella donna, il divorzio passato soltanto come effetto collaterale del compleanno di Noemi Letizia, e non per quel posto in Parlamento.

Anche in questa intervista Berlusconi non esce male, tutt’altro. Ma del resto non si può chiedere un’operazione di verità a dei figli, meno che mai a dei figli che devono ogni fortuna al proprio padre. Interessanti sono le foto a corredo dell’intervista. Barbara bellissima, in una versione stile Sex and The City buca le pagine e funziona. Come donna, come manager rampante e come immagine candida di casa Berlusconi. Il marchio di fabbrica della buona comunicazione è un portato di famiglia. Soprattutto è proprio lei, critica e stizzita sulle debolezze private, a diventare la portavoce ufficiale di casa Berlusconi e ad assolvere papà Silvio.

E’ lei a riabilitarlo con moderazione e persino nel bonario rimprovero. Lo promuove come politico e come premier. Ma anche come padre. Unico neo quelle debolezze di marito e di uomo. Quelle, anzi in particolare quella caduta di stile esibita e dolorosa, che non ha nemmeno l’eleganza di tacere e che in Parlamento, con il colletto alto e senza un filo di trucco, apostrofa le altre come “vaiasse”.  L’arringa di rito per mamma Veronica è perfetta e Papi Silvio correrà a complimentarsi per questo capolavoro di bellezza e perfetta oratoria. Un fantastico prodotto Mediaset.

 

di Rosa Ana De Santis

La Consulta ha affossato un pezzo importante del pacchetto sicurezza del governo. Per i giudici della Corte Costituzionale, l’immigrato che non dovesse ottemperare all’ordine di allontanamento per condizioni d’indigenza, non potrà essere perseguito. S’incrina così l’architettura del reato di clandestinità, diventato dogma preliminare e fondante di un’autentica persecuzione per gli stranieri presenti sul territorio nazionale.

A rivolgersi alla Suprema Corte era stato il Tribunale di Voghera, che chiedeva una corretta interpretazione sul caso di una donna impossibilitata per estrema indigenza a lasciare l’Italia. Se l’osservanza al precetto - dichiarano ora i giudici della Corte - è “inesigibile” per impedimenti soggettivi e oggettivi, non possono scattare gli inasprimenti repressivi che il governo Berlusconi ha proposto.

La sentenza è importante e, azzerando l’aggravante della clandestinità, è destinata a sollevare un ripensamento profondo e sistematico del pacchetto sicurezza e della modalità con cui il governo ha approcciato la questione degli immigrati e della loro regolarizzazione. Un modo “miope” - come l’Europa ci ha rimproverato in più occasioni - oltre che ingiusto rispetto al contributo importante che il lavoro degli stranieri ha portato nelle tasche dell’ economia italiana.

Ci ha pensato il presidente della Repubblica a ricordarlo nella Giornata Nazionale dei Migranti, ribadendo il valore imprescindibile dell’integrazione e la necessità di attrezzarsi a sostenerla e a gestirla. Non ad evitarla come certa politica xenofoba, avallata dall’esecutivo, ha provato a fare in tutti i modi.

L’Italia è già, nei fatti, paese d’immigrati. Lo è nei fatti, ma non sulla carta delle legge o sui tavoli istituzionali. Lavoratori, ragazzi e bambini nelle scuole, imprenditori, acquirenti di case e gestori di esercizi commerciali, sono immigrati. La rimozione culturale con cui gli italiani rispondono è un segnale preoccupante che ci tiene lontani dai traguardi importanti di paesi come la Gran Bretagna (ad esempio) dove gli stranieri hanno pagato un 37% di tasse in più rispetto ai servizi pubblici di cui hanno beneficiato. In uno scenario di paesi industrializzati la cui popolazione cresce poco, quasi zero come in Italia, rifiutare l’apertura all’immigrazione equivale ad un suicidio economico, oltre che culturale.

Ma il nostro è il paese in cui una scuola come la Pisacane di Roma, la più multietnica della Capitale perché 8 bambini su dieci sono figli di stranieri, diventa un caso mediatico e viene evitata dalle famiglie italiane alla stregua di un ghetto, mentre da un’altra parte la scuola di Adro sostituisce il tricolore con i simboli presi a prestito dal Carroccio. Difficile vedere in queste reazioni segnali di evoluzione o di apertura. Ma anche questa volta i giudici saranno “comunisti incalliti”, la loro sentenza una “mossa politica” e gli italiani la stessa “brava gente” di sempre.

La sensazione è che ora l’attenzione e l’energia del Cavaliere e del suo cda di governo siano spostate altrove. Lontano dalla popolazione, a maggior ragione da quella straniera. L’Italia è intrappolata nel walzer dei corteggiamenti e nel salto della quaglia degli onorevoli indecisi. La politica è ripiegata su se stessa, tutto il Paese lo è.

Gli stranieri rimangano sulle gru o nei cantieri. Del resto nulla si fa, da molto tempo, tantomeno con la finta meritocrazia della Gelmini, per impedire che i cervelli italiani vadano a fare scoperte scientifiche altrove, che lascino i nostri laboratori vuoti, le nostre aule deserte.

Un paese che chiude le porte all’immigrazione e che non ferma l’emorragia della propria emigrazione è un paese che vuole morire. E questo, purtroppo, non è ancora un reato, ma un meritato epilogo per aver scelto gli uomini e le donne della “libertà”.

di Mariavittoria Orsolato

Scene di guerriglia urbana salutano l’ennesima beffa che Berlusconi è riuscito a rifilare all’Italia. Una Roma paurosamente somigliante alla Genova del 2001 racconta la rabbia delle migliaia di manifestanti, accorsi nella capitale per dare la misura dell’esasperazione di un paese abbandonato a sé stesso. Ci sono gli studenti medi ed universitari che reclamano un futuro, ci sono i terremotati dell’Abruzzo, gli operai cassaintegrati della Fiom e i cittadini campani sommersi dai rifiuti. Oltre 100.000 persone provenienti da categorie sociali eterogenee, accomunate dalla posizione di svantaggio e subalternità cui la politica li ha costretti a sottostare.

Il serpentone dell’opposizione sociale ha sfilato pacificamente per le vie di una Roma militarizzata fino alle 14 circa, quando le voci concitate confermano la notizia che Berlusconi ha ottenuto la fiducia. Da quel momento, ennesima goccia di frustrazione in un otre ormai colma di risentimento, la protesta si è trasformata in guerriglia e i manifestanti si sono improvvisamente trasfigurati - questo a detta della stampa “che conta” - in pericolosi “black block”. Gli scontri hanno caratterizzato zone diverse della capitale ed anche nelle altre città italiane (tra cui Milano, Palermo, Bologna, Torino, Napoli e Cosenza) gli studenti che non si sono potuti permettere la trasferta romana, hanno sfilato e protestato contro il governo e contro l’ennesima evidenza che la politica italiana non è cosa per gente onesta.

Mentre le vie del centro si riempivano dell’odore acre dei lacrimogeni e si coloravano dei riverberi di camionette delle forze dell’ordine in fiamme, gli onorevoli restavano barricati nelle due Camere in attesa che la zona rossa stabilita dal sindaco Alemanno fosse attestata come sicura. Una piccola vittoria per i manifestanti impegnati nella protesta, un noioso contrattempo per i parlamentari ansiosi di rilasciare le loro ovvie dichiarazioni ai primi microfoni disponibili.

Due contesti agli antipodi, che però convivono in questo 14 dicembre, data da considerarsi ormai paradigmatica nella cronistoria della seconda repubblica. Due contesti che, nella loro evidente antitesi, non possono fare altro che produrre le immagini a cui tutti ieri abbiamo assistito.

Sebbene il dubbio che il “povero” Cossiga instillò solo un paio di anni fa - agenti infiltrati nelle file dei manifestanti per creare disordini ad hoc - si faccia strada ogni qual volta si vedano scontri di piazza, è innegabile che l’esplosione di violenza che ha travolto la capitale sia soprattutto il frutto di un sentimento viscerale che in molti tra i presenti ai più di 10 cortei evidentemente condividono e che le provocazioni dei finti manifestanti ritratti da La Repubblica non hanno fatto altro che amplificare. La manifestazione collerica, il lancio esasperato di qualsivoglia oggetto e l’uso di armi improprie sono le espressioni evidenti di un malessere sociale che ormai non è più possibile sedare con annunci rassicuranti e promesse fatue.

La conferma della fiducia a quello che a tutti gli effetti è il quarto governo Berlusconi è anche la conferma che l’enorme rete clientelare che avviluppa lo Stato ha avuto la meglio sul buonsenso avvocato da una società civile sull’orlo di una guerra fratricida a causa di scelte istituzionali spregiudicate negli annunci e del tutto disastrose negli effetti. E quando la frustrazione incontra l’impeto giovanile e la disperazione di chi non trova echi - causa latenza imperitura di un’opposizione credibile - e la possibilità di essere incanalati in un’azione politica concreta, Roma, eterno simbolo di potere, viene messa a ferro e fuoco.

Quanti dicono che i fatti di ieri sono arrivati come un fulmine a ciel sereno peccano di ingenuità o di eccessiva malizia: la reazione della folla alla fumata nera di Montecitorio era assolutamente prevedibile. Certo, l’emulazione dei colleghi inglesi deve aver giocoforza influito sulla dose di coraggio dei ragazzi italiani, ma non è più possibile liquidare gli eventi appena trascorsi come smargiassate di pochi teppisti o azioni faziose degli autonomi: portare avanti i cortei anche dopo la notizia della fiducia è stata una richiesta dei manifestanti e non il diktat dei centri sociali o dei facinorosi.

La rabbia, l’odio e le esplosioni di violenza saranno anche ascrivibili a pochi, ma sono l’ineluttabile risultato dei sogni infranti di un’intera generazione, privata della previdenza sociale così come della facoltà di progettare e sognare un futuro diverso dalla precarietà imposta dall’alto. Se alle richieste di aiuto e di attenzione, le istituzioni tutte rispondono con autoreferenzialità ed evidente egoismo, il dialogo si trasforma in scontro e le possibilità di mediazione diventano lacerazioni insanabili all’interno del complesso tessuto sociale.

La totale inadeguatezza dell’attuale sinistra a raccogliere le istanze rivendicate dal risveglio delle coscienze studentesche porta, come fu durante il ’77, a far perdere la bussola a quanti, con le migliori intenzioni, lavorano e cogitano in prospettiva di un futuro migliore e di un paese più giusto. La completa autogestione della protesta rischia, infatti, di prestare il fianco alle inevitabili polemiche da talk-show e di far defezionare così anche i tanti moderati che, pur condividendo le motivazioni della contestazione, non vedono di buon occhio l’azione diretta o esasperata.

Cento feriti rispondono a un bollettino di guerra e non ai numeri di una manifestazione: l’opinione pubblica, nella sua confortante ignoranza, potrebbe ribaltare il suo giudizio e negare quella naturale simpatia che spetta a dei giovani pieni di voglia di partecipazione e sacrosante rivendicazioni. Le cronache raccontano come ieri in mattinata le casalinghe del centro romano si sporgessero dai balconi per gridare la loro solidarietà ai manifestanti, mentre nella serata bersagliassero le stesse persone di insulti per i disagi arrecati.

Questa è l’Italia, un paese in cui distruggere tutto non serve a nulla, ma dove nemmeno manifestare sembra riuscire ad ottenere udienza; un paese in cui le proteste contro Berlusconi rischiano persino di rafforzarlo. Una dittatura del paradosso che tiranneggia gli umori popolari e censura ogni afflato di libertà intellettuale. I manifestanti ieri, in modo condivisibile o meno, hanno provato a gridarlo. Purtroppo anche stavolta non verranno ascoltati.
 

 

 


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