di Ilvio Pannullo

La Camera dei Deputati rimarrà chiusa per l'intera settimana, così com'è stato comunicato a tutti deputati dall'ufficio di presidenza. Sembra uno scherzo, o un messaggio surreale. È invece il dato incontrovertibile che segna quanto la nostra democrazia parlamentare sia in affanno, messa sotto scacco da una volontà politica ormai chiara più del sole. Già da tempo, sui giornali, si era infatti registrato il lento congelamento del Parlamento, lo svuotamento delle funzioni di Palazzo Madama e di Montecitorio: ma lungi dall'essere il frutto di un destino cinico e baro, o di una qualche calamità naturale, quanto accade in questi giorni è il prodotto di un disegno scientifico.

Scopo di questo disegno è concentrare tutti poteri nelle mani dell'Esecutivo, spostando il baricentro del potere dal Parlamento, così come descritto nella nostra carta costituzionale, a Palazzo Chigi, sede del governo. È questo un disegno che vede come suo inizio la famosa legge porcata di Calderoli, con la quale si è cercato non solo di svuotare di qualsiasi significato il voto elettorale, espressione genuina della sovranità popolare, ma anche, attraverso la diretta indicazione del Presidente del Consiglio sulla scheda, di modificare la costituzione materiale di questo paese in senso presidenzialista. Quanto accade in questi giorni è solo l'ennesima conferma della pericolosissima direzione, evidentemente anticostituzionale, che intende seguire l'attuale esecutivo.

Così accade che mentre il governo vede nella quotidianità della vita politica aumentare drasticamente i propri poteri, attraverso un’interpretazione espansiva delle norme che ne regolano la disciplina, la Camera chiude i battenti per dieci giorni. I numeri sono eloquenti: i deputati lavorano in media 27 ore alla settimana e, su 102 leggi approvate fino ad ora dall'inizio della legislatura, ben 87 sono di iniziativa governativa. Il che equivale a dire che il 90% delle leggi provengono dal governo. Fa impressione, inoltre, sapere che le 15 leggi approvate dal Parlamento sono il frutto di una sintesi che ha come base ben 4200 testi presentati dai deputati.

A Palazzo Madama la situazione è, se possibile, anche peggiore: dai numeri risulta infatti che un senatore lavora in media solo nove ore la settimana. Questa è la situazione ed appare evidente a tutti che un Parlamento ridotto in questo stato non serve a nessuno, essendo già di fatto nient'altro che un semplice luogo di ratifica delle proposte del governo.

La notizia dunque è questa: Montecitorio non lavora perché le scelte del governo gli impediscono di lavorare. A rendere eclatante quanto accaduto è il fatto che a denunciare la gravità della situazione sia stato lo stesso Presidente della Camera, Gianfranco Fini, autorevole membro della maggioranza. È stato infatti il cofondatore del PDL a confermare che la conferenza dei capigruppo ricomincerà a lavorare il 9 novembre con la riforma della legge di bilancio. “Mancanza di copertura finanziaria”. Questa una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare. Le commissioni sono ferme, ma non per pigrizia - precisa Fini - ma perché mancano i soldi. Quello stesso Gianfranco Fini, che all'inizio della legislatura aveva promesso che l'Assemblea avrebbe lavorato cinque giorni su sette invece dei tre della precedente, ha dato la colpa di questo stop all'esecutivo.

Teatro di questo conflitto è stato l'organo di autogoverno del Parlamento, la conferenza dei capigruppo. "Una delle ragioni per le quali non è possibile calendarizzare in aula progetti di legge d’iniziativa parlamentare - ha detto l'ex presidente di Alleanza Nazionale - deriva dal fatto che questi non possono essere licenziati dalle commissioni per mancanza di copertura finanziaria". Questo perché ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 81 della Costituzione, "ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte". Tuttavia, né la Costituzione, né altre fonti di diritto positivo, avevano in passato dettato precise norme in ordine agli strumenti e alle modalità di attuazione dell'anzidetto precetto costituzionale, che era stato di sovente disatteso, come rilevò la sentenza del 10 gennaio 1966, n. 1 della Corte Costituzionale.

La materia, invece, risulta ora espressamente disciplinata sotto il titolo di "copertura finanziaria delle leggi" dall'articolo 11 ter della legge 5 agosto 1978, n. 468. La legge prevede che la copertura avvenga esclusivamente a mezzo di: 1. utilizzo degli accantonamenti dei fondi speciali; 2. riduzione di precedenti autorizzazioni di spesa; 3. modificazioni legislative comportanti nuove o maggiori entrate. Il principio appare dunque chiaro: se non ci sono i soldi è meglio evitare di perder tempo per discutere di un intervento legislativo che comunque non potrebbe produrre alcun effetto.

Parole, quelle di Fini, indirizzate al ministro Elio Vito, responsabile dei rapporti con il Parlamento, e rimaste, a detta dei testimoni, senza nessuna risposta. Così accade nella sostanza che l'intera assemblea rimarrà ferma in un momento in cui certamente il lavoro non manca. Dopo la riforma della legge finanziaria, infatti, dal 9 novembre l'assemblea di Montecitorio discuterà la mozione Realacci sulla nave dei veleni al largo della Calabria e il disegno di legge sull'istituzione del ministero della Salute, mentre il provvedimento sulla cittadinanza gli immigrati sarà rinviato a dicembre.
Il punto però che occorre sottolineare è un altro. L'idea, cioè, di poter modificare l'ordine costituzionale del Paese senza rispettare le norme previste dalla stessa Costituzione all'articolo 138.

Accade dunque che il governo, in questo aiutato dallo strapotere mediatico del Biscione, cerchi di persuadere la pubblica opinione che l'Italia è un paese che ha bisogno di essere ristrutturato e rivisto nella sua interezza e che, per lungo tempo, è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. La soluzione ai problemi è dunque nel rigore economico, che si traduce in un immobilismo dell'esecutivo nella gestione della spesa pubblica e nel taglio di ogni costo superfluo, che si traduce nella riforma di qualsiasi istituto che sia di ostacolo all'iniziativa del governo, e dunque alla volontà di Silvio Berlusconi.

È infatti questa la chiave di lettura attraverso la quale leggere i recenti avvenimenti. È in atto una vera e propria guerra istituzionale da quando il Presidente del Consiglio, sentendo come un oltraggio la bocciatura da parte della Corte Costituzionale del lodo Alfano, ha deciso di lanciare una vera e propria controffensiva nei confronti di tutti poteri ancora autonomi, e dunque pericolosi perché immuni dalla sua influenza: la magistratura prima, la Corte Costituzionale e il Presidente della Repubblica poi, il Parlamento adesso. Ben si comprende quindi il perché il presidente del Senato, Schifani, uomo di fiducia del premier, abbia deciso di non seguire l'iniziativa del suo collega Fini, come se il problema dell'autorevolezza del Parlamento non lo riguardasse. Quando si va in guerra, infatti, servono soldati non filosofi, bisogna quadrare le posizioni e serrare i ranghi: la fedeltà al capo non si mette in discussione neanche se ad essere sotto attacco è la credibilità della istituzione che si rappresenta. La strategia è chiara, i giochi sono fatti. In palio c'è il regime.


 

di Rosa Ana De Santis

La sentenza della Corte Europea, che accoglie il ricorso di una madre italiana originaria della Finlandia, non lascia ombre interpretative. La presenza della croce nelle aule scolastiche rappresenta una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni e una pesante discriminazione della libertà religiosa dei ragazzi. Il Parlamento italiano, quasi unanime, è insorto. Non solo i soliti cattolici alla Buttiglione, ma anche i paladini delle teorie più modaiole dell’integrazione e del multiculturalismo. Il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, parla di laicismo deteriore. Bersani, neo segretario del PD, scomoda addirittura una lezione sulla conflittualità accademica tra il diritto e il buonsenso,  contraddizione in cui saremmo incappati, secondo lui.

La reazione italiana e il pronto ricorso sono i sintomi evidenti di uno strumentale utilizzo ora della religione ora della laicità e della smania, questa davvero pericolosa, di seppellire i fondamenti inequivocabili che regolano i rapporti tra Stato e Chiesa, quindi - mutatis mutandis - tra la scuola pubblica e i principi della Costituzione italiana. Per chi l’avesse dimenticato, la religione cattolica, indubbiamente rappresentativa di cultura e tradizioni nazionali, non è più religione di Stato dalla revisione dei Patti Lateranensi del 1984. E, a chi fosse digiuno di catechismo, sarà bene ricordare che la croce non è semplicemente anzi non è affatto il simbolo di una cultura o di un folclore nazionale.

Alla CEI, che si adira della sentenza, non andrebbe giù un’interpretazione di questo tipo. La croce è tutta la mistica della religione cristiano-cattolica. Il centro della dogmatica e dei pilastri della fede. La croce non è uguale all’icona di Gesù di Nazareth. La croce è Cristo, un chiaro simbolo di fede. Ciò su cui si dirime, non a caso, attraverso sottili sfumature teologiche, la differenza tra le diverse chiese cristiane.

A quale tradizione e cultura da tutelare si riferisce il Ministro Gelmini? Alle meraviglie dell’arte sacra che rendono l’Italia regina di bellezza? Al patrimonio inestimabile della croce rappresentata nelle nostre chiese e nelle innumerevoli opere d’arte? Oppure si riferisce alle processioni, ai riti, ai costumi anche inconsapevoli che la nostra tradizione ha ereditato e assorbito? Peccato che tutto questi non c’entri con i crocifissi appesi sopra le cattedre o con il rito delle preghiere che si celebravano un tempo a fine lezione.

Insomma sarebbe opportuno decidere da quale parte stare, sempre. E non di volta in volta assecondare la teoria che più piace e più procura consensi. La laicità di un paese che si candida a sostenere l’integrazione come unica via di un multiculturalismo pacifico non può diventare ora una teoria, ora il suo esatto opposto. Non esistono interpretazioni controverse. La croce non è solo cultura, ma un richiamo esplicito a una fede particolare che non può accampare visibilità e dominio maggiore di altre solo perché corrisponde anche ad una tradizione. L’errore di questo slittamento, che al Parlamento italiano piace molto, è quello che ha permesso all’Europa di bocciare la nostra visione ridicola del laicismo svelata per quello che è: un dominio all’italiana.

E’, ancora una volta, un’elementare questione di metodo, a fare la differenza. Quella stessa croce, tolta dal muro e portata al collo, non è più elemento di dominio, o richiamo alla supremazia di una fede attraverso la maschera della cultura. In quello spostamento sta l’unica possibilità che nella scuola, i figli di tutti, a partire dalle diverse educazioni e convinzioni, imparino a riconoscere la differenza e a rispettarla. Questo ci aspetteremmo dalla scuola di uno Stato laico. Non un crocefisso per ricordare al bambino musulmano, a quello ateo o al buddista tutto quello cui lui non ha diritto. Nemmeno un simbolo per le sue tradizioni e per il suo dio.

Non è con il pretesto di un simbolo imposto nelle aule di tutti e dello Stato che torneranno a riempirsi le chiese. Non crederà la CEI che facendo di dio la bandiera di questo Paese verranno rimessi i peccati di certa politica. Tutti quelli fatti contro gli ultimi e i bisognosi. E non era questo il monito di un innocente messo in croce dal potere degli uomini? Ma del resto è lontano da questa morale il fuoco che agita gli animi del Parlamento, loro parlano di tradizione.  E’ così che una scappatoia per la coscienza rimane sempre. In chiesa e davanti ai cittadini.

 

di Giovanni Gnazzi

Urlava al telefono Papi, nella trasmissione condotta da Floris. L’amico di Noemi era furibondo per la condanna reiterata all’avvocato Mills, costretto a mentire per salvare il premier. Si è definito un perseguitato, anzi una vittima, né più né meno. L’uomo che presiede il governo ed ha in affitto la maggioranza dei parlamentari, controlla i servizi segreti, l’economia, la maggior parte dell’informazione e il mercato pubblicitario che ne determina l’esistenza o la fine, si considera una vittima.

Sfugge, a Papi, il senso delle parole, quasi come quello della decenza. Un caso così grande di conflitto d’interessi e una commistione così spaventosa tra i suoi affari privati e quelli pubblici, in quale altro paese sarebbe stata possibile? Nei confronti della magistratura l’equazione, alla fine, non è poi difficile: se i giudici lo assolvono sono magistrati, se lo condannano sono comunisti.

E sì che la magistratura comunista l’ha appena salvato dal dolore più grande: quello di dover pagare per quello che ha fatto. Succede infatti che, a differenza dei comuni mortali italiani, che vedono l’immediata esecuzione della sentenza civile in caso di condanna e, normalmente, si vedono rigettare l’stanza di sospensiva in attesa dei successivi pronunciamenti (della serie: intanto paghi, poi, eventualmente, recuperi), nel suo caso l’iter consueto si ribalta. L’azienda del Premier, infatti, ha ottenuto la sospensione del pagamento dovuto alla Cir di De Benedetti in attesa dei gradi successivi di giudizio. Tradotto: De Benedetti non verrà risarcito per anni e anni.

Il magistrato Giacomo De Deodato, presidente della II Corte D’Appello che ha deciso la sospensiva, non è comunista, ovvio. Se proprio si vogliono cercare simpatie politiche nel suo curriculum non se ne trovano; nell’albero genealogico si trova invece il fratello, Giovanni, deputato di Forza Italia dal 1996 al 2006. Due fratelli, però, come sanno Silvio e Paolo, non fanno un’accusa e tanto meno una prova, solo una constatazione in punta di penna. Ma, ad eccezione di Deodato de di chi lo ha assolto in altri processi, gli altri magistrati sono comunisti.

La furia dell’uomo che si è fatto da se, ma rifatto da chirurghi amici, si è scatenata a seguito della conferma di condanna per l’avvocato Mills; condanna che, se venisse confermata dall’istanza superiore di giudizio, porterebbe ad identica sorte anche Papi, con inevitabili riflessi e ricadute sulla sua permanenza a Palazzo Chigi. L’anomalia, dice lui, non è Berlusconi, ma la magistratura. Il giudice che ha condannato Mills, Flavio Lapertosa, è certamente un comunista, a detta di Papi. Che poi sia lo stesso giudice Flavio Lapertosa che assolse Berlusconi nel processo SME-Ariosto, indica certamente la diffusione pericolosa dei casi di omonimia, un'abile strumentazione della sinistra, immaginiamo.

Ora, il fatto che Berlusconi sia stato oggetto di molteplici iniziative giudiziarie è fatto noto. Ma nessuna di queste ha avuto origine da reati commessi nella sua vita politica. Tutte, invece, hanno affrontato Berlusconi nella dose di reati connessi alla sua attività imprenditoriale, dalle origini dei suoi affari a poco prima della sua discesa in politica. Semmai, la questione dovrebbe essere posta diversamente: qual’é l’imprenditore che più di lui ha violato così continuativamente il codice penale italiano? E chi si è potuto permettere d’insultare e calunniare magistrati, giornalisti, politici ed imprenditori utilizzando le aziende editoriali di famiglia?

I processi che l’hanno visto protagonista - il Lodo SME, quello Mondadori, All Iberian ed altri - lo hanno visto imputato o co-imputato di reati quali corruzione della Guardia di Finanza, dei giudici e dei testimoni, frode fiscale, falso in bilancio ed esportazione illecita di capitali. Chi mai in Italia sarebbe rimasto a piede libero con queste accuse? Chi mai avrebbe ottenuto la riduzione dei tempi di prescrizione per i processi che lo riguardavano? E chi mai, attraverso leggi ad personam, sarebbe riuscito ad evitare le condanne? E dunque qual’é l’anomalia italiana?

di Fabrizio Casari

Tre milioni di persone accorse ai gazebo per eleggere il nuovo Segretario sono certamente una certificazione di un buono stato di salute del Partito Democratico. Molte di più di quelle che si attendevano, quasi un sussulto di partecipazione in un quadro desolante come quello della scena politica italiana. Si potrà obiettare sull’identico peso riservato a militanti ed elettori nella scelta della costruzione del gruppo dirigente ma, almeno sul piano della partecipazione popolare, la scommessa è stata vinta. E il fatto che l’elettorato ha confermato il dato emerso dal voto delle assise militanti del partito, indica poi una sintonia tra il partito e la sua base elettorale. O, almeno, della comune opinione, tra militanti ed elettori, circa la terapia necessaria per far uscire la più importante formazione del centrosinistra dallo stato semi-catatonico nel quale pare versare.

E seppure il dato principale é ovviamente la vittoria (annunciata) di Bersani, appare significativa anche l’affermazione personale di Marino, che sembra indicare l’esigenza del popolo del Pd di uno schieramento più netto sul terreno dei diritti civili. L’affermazione di Marino, infatti, esprime una richiesta d’intervento sui temi “etici” per ampliare la sfera dei diritti civili e non di un’opportunistica “libertà di voto secondo coscienza” che i parlamentari cattolici utilizzano in funzione dei loro personali convincimenti. Il voto a Marino rappresenta un segnale politico e identitario di laicità che il nuovo gruppo dirigente dovrà tenere bene a mente.

Nella vittoria di Bersani e nell’affermazione di Marino sembrano dunque emergere due opzioni legate tra loro: un partito attento al radicamento sociale e ai temi delle libertà collettive, un PD finalmente capace di riaprire una comunicazione positiva con il mondo del lavoro e decisamente laico nei confronti dei temi “etici”. Un sostanziale cambio di passo rispetto a quanto proposto fino ad ora dalla gestione prima di Veltroni e poi di Franceschini. La vittoria di Bersani è, da questo punto di vista, destinata a modificare in buona sostanza sia la fisionomia del partito che la sua identità programmatica; tanto in ordine agli schieramenti ed alle alleanze possibili, come alle ipotesi di riforme istituzionali previste nell’agenda politica del Paese.

Esce invece sconfitta, di contro, l’impostazione veltroniana dell’autosufficienza del progetto politico e dell’indissolubilità del credo maggioritario in veste bipolare, così come appare respinta l’idea di un partito americano, modello “comitato elettorale”. Fine insomma del partito liquido, rimessa in carreggiata del partito pesante, quello cioè presente sul territorio, nei posti di lavoro, ovunque le contraddizioni sociali richiedano idee nuove e gambe sulle quali farle marciare.

Bersani sa bene che la sconfitta della destra in Italia passa in primo luogo dal rafforzamento del centrosinistra. E sa che nessuno steccato ideologico, basato su una presunta autosufficienza del progetto, potrà raccogliere i voti dell’elettorato democratico e progressista che non può - e non potrebbe - ritrovarsi a votare sempre e solo turandosi il naso. Diddicile sognare il meglio e votare sempre per il meno peggio. Serve di nuovo, come già nel passato, riunire lo schieramento più ampio per raccogliere ogni voto ed ogni energia. Questo, insieme alla ridefinizione di un programma politico adeguato, è l’unico antitodo al veleno del berlusconismo ed alla sua vittoria di prospettiva. Non avere steccati a sinistra é l'unico modo per dialogare ed agire anche con i moderati.

Unità, solidità, partecipazione. Questo volevano riaffermare quei tre milioni di persone che hanno affollato i gazebo del Pd: non hanno voluto solo prendersi la libertà d’indicare il Segretario che volevano. Prima ancora che questo, quei tre milioni di persone hanno voluto approfittare della possibilità che gli era stata data di poter prendere la parola, di poter testimoniare la voglia di dire la loro e di ricordare che la passione civile e politica di questo paese, troppo in fretta data per morta sotto i colpi del gossip, ha ancora la forza per rimboccarsi le maniche e per profferire parola. Si tratta di vedere se ora, chi ha vinto, dimostrerà di saper ascoltare.

di mazzetta

Per rendere l'idea della differenza tra lo scudo fiscale americano e quello italiano basterebbe il titolo con il quale il New York Times annuncia l'avvicinarsi della scadenza: “Paga o prega”. Paga il dovuto o prega che non ti becchino, perché per chi non aderisce alla generosa offerta del governo americano e cerca di nascondere capitali all'estero, c'è il rischio della galera. Nessuna minaccia invece da parte del governo italiano, che a quanti vorranno rimpatriare capitali costituiti all'estero illegalmente garantisce anche l'anonimato. Mentre gli americani partono dal presupposto che il reato originale non meriti un trattamento troppo di favore, quello italiano si preoccupa di farsi complice e coprire gli evasori che invita a riportare il bottino in Italia.

Gli americani hanno inoltre incentivato l'adesione al concordato fiscale con alcune azioni mirate. Prima di tutto hanno messo sotto pressione i paradisi fiscali, in particolare la Svizzera, dove l'UBS ha dovuto capitolare e consegnare i nominativi di molti americani e chiudere i conti di molti altri. Trovarsi dalla sera alla mattina con il contenuto, spesso milionario, di un conto anonimo svizzero trasformato in un assegno, è sicuramente un buon incentivo a riflettere sull'opportunità offerta dal governo americano. Non è stato troppo onorevole per i banchieri svizzeri, ma in fondo la Svizzera ha già rinunciato alla sacralità del segreto bancario in seguito allo scoppio dello scandalo Swift, quando ha dovuto prendere atto che era impossibile impedire agli USA di spiare le transazioni finanziarie mondiali con la scusa della lotta al terrorismo. La sconfitta dell'UBS rappresenta la fine della leggendaria riservatezza elvetica.

Le penalità per chi adempie in tempo oscillano dal 5 al 20% del picco più alto raggiunto dal conto estero che si vuole sanare e, molti di più di quelli che pagheranno entro il termine, rimpatrieranno comunque i capitali sperando di sfuggire all'IRS, il fisco americano. Poi cercheranno di giustificarne l'esistenza con rettifiche delle dichiarazioni dei redditi pregresse, rettifiche che sono aumentate molto in questo periodo e che sono soggette alla tassazione ordinaria, più alta di quella offerta dallo scudo fiscale. Il che dimostra che a fronte di un'azione repressiva incisiva, il rientro dei capitali non ha bisogno di tappeti rossi e di particolari amnistie per gli evasori.

C'è ancora una sottile differenza con la situazione italiana: la legge americana prevede infatti che per godere dello scudo fiscale occorra rivelare all'IRS i nomi, indirizzi e numeri di telefono dei banchieri, avvocati, commercialisti, consulenti e fiduciari che hanno aiutato a nascondere i capitali agli occhi del fisco.

In Italia una cosa del genere è difficilmente ipotizzabile in condizioni normali, figurarsi sotto il regno di Robin Hood-Tremonti, il principe dei commercialisti e artista della finanza creativa, che ha offerto ai gentili colleghi l'opportunità di offrire l'imperdibile “servizio” di un'amnistia tombale ai propri clienti in difficoltà con il rispetto delle leggi e delle normative fiscali. Fare leva sui clienti per portare alla luce le vere e proprie associazioni a delinquere che si occupano del favoreggiamento agli evasori su scala professionale, deve sembrare terribilmente crudele a Tremonti e Berlusconi, che a sua volta conosce e riconosce benissimo cosa voglia dire la rottura del rapporto di fiducia tra professionista e cliente, come nei casi di Mills e D'Addario.

Così, mentre gli Stati Uniti incasseranno molto di più e raccoglieranno dati utili a stroncare il fenomeno dell'evasione e della fuga dei capitali all'estero, l'Italia concede l'amnistia agli evasori e gli fa pure lo sconto sulle tasse, rifiutandosi categoricamente di sapere finanche chi siano questi evasori. Un segno della superiore civiltà cattolica sul calvinismo protestante anglosassone: qui da noi si dice il peccato, ma non il peccatore, al di là dell'Atlantico invece trionfano il giustizialismo e i forcaioli. Almeno così assicura chi sostiene le scudo fiscale tricolore.


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