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di Rosa Ana De Santis
La TV di Stato, quella del canone - per capirci - quella che indigna il governo per le puntate di Annozero, per le parole di Travaglio infarcite di richiami al codice penale, per il cattivo gusto di esporre una escort in prima serata e per qualche satira troppo audace, quella tv pubblica lì, sabato sera, è entrata nelle nostre case. L’ha fatto per tessere l’elogio di un capo di governo sotto assedio e per contestare la manifestazione che, qualche ora prima, aveva unito la stampa dei farabutti contro il monopolio dell’informazione che in Italia ha un nome e un cognome: Silvio Berlusconi. Il capo del governo.
L’ha fatto il direttore del TG1 con un editoriale che ricordava, per pathos e per sentimento, quello con cui mesi fa difese il premier dalle critiche e dalle insinuazioni dopo l’annuncio del divorzio da Veronica Lario. Minzolini esordisce con un “senza polemica”, ed infatti non è troppo attento ad argomentare contro le ragioni dei manifestanti: è semplicemente devoto e innamorato del proprio datore di lavoro e, se non ci fosse il blu dello sfondo e l’icona della RAI a tradire la scena, sembrerebbe di essere finiti dentro Rete Quattro, nel TG del vecchio amico Fede.
Le parole, la posa ieratica, il tono canzonatorio con cui si pensa di liquidare il problema del conflitto d’interessi con la solita rassicurazione per cui Berlusconi sarebbe un liberale doc, fanno davvero pensare alla piaggeria del TG di famiglia. E invece quello è il TG1 della RAI. Non una trasmissione di dibattito o di commento, ma il telegiornale. Lo spazio delle notizie, della cronaca, la fotografia del paese.
Il Direttore del TG1 non ha dubbi nel sostenere che in Italia sia garantita la massima libertà d’informazione. Lui è un giornalista sulla carta, come il collega di Libero e il direttore de il Giornale che elargisce minacce a colpi di dossier erotici. A Minzolini, in totale buona fede vuole farci intendere lui con il tono grave di chi espone un parere tecnico e neutro, a lui proprio non sembra una vergognosa anomalia il monopolio delle reti TV e dell’editoria, sovrapposto e coincidente con la massima carica di governo.
Proprietario di Mediaset, con la mano del governo sulle nomine RAI, controlla cinque telegiornali su sette. Ha tutto quello che si deve avere per parlare agli italiani e per vincere le elezioni, mentre la sinistra, con il fare di una razza in via d’estinzione mediatica, rincorre la platea di Ballarò o di RAI3, l’unica rete soggetta a par condicio. Non sarà un caso che l’osservatorio di Pavia riferisce di uno spazio dedicato al governo e agli esponenti della destra oltre il 70% della presenza nelle reti.
Il monopolio di Berlusconi, quello che fa sobbalzare tutta l’Unione Europea, quello che lo renderebbe - senza le altre accuse – ineleggibile, Minzolini non lo comprende se non accusando i colleghi querelati di essere un po’ troppo audaci e perseguibili quando scrivono del mercato del sesso del premier con base a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli come luogo di scambio per favori, corruzioni di vario titolo o commercio di carriere politiche. Questo è privato, dice lui. Soprattutto, sembra di capire, non gli sembra concepibile criticare chi su quella poltrona, ce l’ha insediato.
L’unica cosa sensata che avrebbe potuto evidenziare una difesa intelligente del premier poteva essere una domanda secca da rivolgere al popolo dell’opposizione che del conflitto d’interessi fa sempre la sua bandiera e il suo pezzo forte. Perché la sinistra non sia stata in grado, una volta al governo, di curare questa peste della libertà e quest’abuso di poteri. Forse gli italiani non l’hanno dimenticato del tutto. Ma il direttore non spende editoriali per analisi politiche, fossero pure colorate di commento e di note personali. Lui è stato incaricato di elogiare e difendere.
Di recitare panegirici ad ogni occasione utile. Di essere fedele. Un compito che Berlusconi a quanto pare sa chiedere in modo convincente a molti. Alle donne in un modo che conosciamo meglio e agli uomini in un altro. Forse Feltri potrebbe spiegarcelo. Un lavoro ben fatto che fa sembrare la libertà di opinione un’eccezione concessa dal sovrano, una benevola indulgenza e un segno di bontà di cui non bisogna esser sazi e di cui si deve ringraziare. E’ così che un giornalista che scriveva di Dell’Utri, della mafia e di Craxi, un giorno è diventato Minzolini.
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di Ilvio Pannullo
Trecentomila ieri in piazza del popolo a Roma. All’appello lanciato dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, la parte sana e cosciente del paese ha risposto in modo compatto e presente. Non male per l’Italia e giornata di ferie per la questura di Roma. Numeri a parte, quello che è sicuro è che le strade del centro della capitale erano invivibili, paralizzate da un fiume di cittadini mossi solo dalla voglia di essere presenti, uniti dal desiderio di fare numero ad una manifestazione che si sentiva come diversa dalle altre.
Ed è diversa anche la piazza che si vede, una piazza variegata nei colori, nelle bandiere, nelle età dei suoi partecipanti. C’è un po’ di tutto e c’è la classica voglia di contarsi e di divertirsi, pur con la consapevolezza della serietà del momento e del motivo per cui si è chiamati a manifestare. Alla difesa della libertà di stampa va il sostegno dell’intera piazza e ai berlusconiani non rimane che il traffico. C’è da sorridere perché la punizione è di quelle che pesano.
Sono in tanti a parlare dal palco, ma a rubare la scena é sicuramente il presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Stimato professore, per quanto abituato a parlare in pubblico, appare un po’ intimorito dalla colorata e rumorosa moltitudine destinataria del suo intervento. Il tono non è - né potrebbe essere - quello di un abile politico, di un arringatore di folle, ma le sue parole arrivano dove devono arrivare, colpiscono al cuore e la piazza risponde. "Il cittadino non informato, o informato male, è meno libero". È un’ovazione e c’è il senso di tutta una giornata. Parla dell’articolo 21 della nostra Costituzione e distingue tra dovere di informare e diritto di essere informati; se il primo oggettivamente non sembra minacciato da imminenti incursioni delle forze dell’ordine nei vari consigli di redazione, il secondo forse in questo paese non l’abbiamo mai conosciuto.
Poi arriva l'intervento di Roberto Saviano. Già dall’annuncio, non appena s’intuisce che il prossimo intervento sarà quello dell’autore dell’ormai celebre “Gomorra” la piazza s’infiamma. È un boato, un applauso scrosciante che non accenna a spegnersi nonostante Vianello insista nella presentazione. Non appena appare sugli schermi la temperatura sale, l’applauso diventa ovazione e ovunque si levano grida d’apprezzamento. Pare di assistere ad una partita della nazionale, una di quelle che contano. Roberto si ferma, si mostra colpito dall’affetto che la moltitudine gli tributa. “E adesso dove trovo il coraggio di parlare?” dice quasi sibilando, dimostrando tutta la sua modestia e i suoi trent’anni portati male. Poi inizia a parlare: “Combattiamo per la serenità di lavorare senza doverci aspettare ritorsioni. Quello che sta accadendo in questi giorni dimostra che verità e potere non coincidono mai”.
I tempi anche in questo caso non sono da comizio come la dimensione dell’uditorio richiederebbe. “Quello che è accaduto a Messina – continua – è il frutto non della natura, ma del cemento. Se chi permette a chi scrive di farlo secondo coscienza e senza pressioni, tragedie, come questa potrebbero essere evitate. Onore è una parola che la mafia ci ha rubato. Questo termine oggi è stato recuperato. Ma non bisogna dimenticare che qui vicino, in una via molto famosa, sono stati sequestrati dei ristoranti di proprietà della n'drangheta. Oggi, però, abbiamo dimostrato che questo Paese vuole ritrovare il suo onore”.
L’intero pomeriggio viene scandito dagli interventi e i giornalisti sono davvero tanti. Anche quelli della stampa cattolica, da Avvenire a Famiglia Cristiana, il cui direttore Don Sciortino manda un messaggio per dire che è "diabolico far credere che questa manifestazione sia una farsa. La legittimazione del voto popolare non autorizza nessuno a colonizzare lo Stato e a spalmare il Paese di un pensiero unico senza diritto di replica". Incredibile a dirsi ma si schiera anche il cdr di Mediaset. Senza saperlo il papi si ritrova una frangia di estremisti, un avamposto di farabutti proprio dentro casa sua. Miracoli italiani.
Dal palco si fa sapere che né il TG1 né il TG5 hanno dato la notizia della manifestazione, ma risponde SkyTG24 con la diretta Tv dell’intera giornata. Beghe tra potenti. Così, nei vari interventi si va delineando la chiave di lettura con cui interpretare questa dimostrazione di forza di quanti non ci stanno ad una informazione piegata alle direttive del governo. Più che libertà di stampa si parla di libertà di non ricevere condizionamenti dall’esterno e si sottolinea l’anomalia dell’assetto televisivo italiano. Se da fonti Cesis sette italiani su dieci si informano guardando la tv, è sulla tv e su come viene gestita l’informazione che si concentra la critica. Già, perché il sistema televisivo è il sistema nervoso della democrazia, se non funziona questo non funziona la democrazia.
Prima delle elezioni, infatti, nessun cittadino potrà incontrare Berlusconi, Veltroni, piuttosto che Fini o D’Alema. Quello che si saprà di loro sarà essenzialmente quello che i media avranno riferito sul loro conto, oltre alle loro dichiarazioni. Ma altrettanto rilevante sarà il negato e il taciuto. Scelte decisive contro informazioni false, distorte o grottesche e la mente va subito a Fede, Mimun e a quel Minzolini che, con tanto zelo, sta dimostrando all’Italia intera il perché della sua nomina. Con il suo ultimo intervento, conferma di non essere un direttore di un telegiornale né un giornalista oggettivo, ma il propugnatore di un preciso punto di vista. Quello di chi sta al comando. Commenti e fatti si mescolano al punto da non poter più comprendere dove finisce la notizia e dove inizi la sua interpretazione.
La vera forza della propaganda si manifesta quanto più il pubblico si convince o viene convinto che non vi è alcuna propaganda. Ed in questo il nostro primo ministro è un maestro. Un forte apparato ideologico come alternativa ad un palese governo autoritario. Ma c’è una parte del paese che non ci sta e che ieri lo ha dimostrato, urlando a quell’Italia distratta e stanca che c’è chi si farà carico di una battaglia per la tutela di diritti, che appartengono a tutti e segnano il grado di civiltà di una democrazia. “Questa piazza è la miglior risposta a chi definisce una buffonata la necessità di manifestare per la libertà di stampa” ha detto Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21. “Questa piazza – ha continuato - saprà difendere anche la libertà delle donne e degli uomini di destra, dileggiati per aver espresso un punto di vista diverso rispetto a quello del presidente editore. Il miglior sponsor di questa manifestazione è stato Berlusconi, il quale ha sostenuto che in Italia c'è talmente libertà di stampa al punto che vanno in onda 4 o 5 trasmissioni che non gli piacciono. Parole di un sovrano sul viale del tramonto”. Lo sperano in molti.
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di Alessandro Iacuelli
Alla vigilia delle primarie, la vita noiosa del PD si è animata: Rutelli se ne va. Non ancora, dice lui, ma manca poco, capiscono tutti. Il segnale è stato dato alla conferenza stampa di presentazione del suo libro, dal titolo “La svolta: lettera ad un partito mai nato”. Un titolo più che altro autobiografico, dal momento che sono state numerose le “svolte” dell’ex ragazzo di Torre Argentina e la stessa mancata nascita del PD ha in lui uno degli alfieri principali. Ma “la svolta”, in effetti, appare la cifra più adatta a rappresentare il tortuoso cammino dell’errante senza pace. Di svolta in svolta, dai radicali fino al PD, passando per la Margherita, in effetti il piacione della politica romana non si è fatto mancare niente. Negli intersizi delle sue numerose svolte, ha trovato la candidatura a Premier, la carica di Sindaco della Capitale e diversi altri incarichi di minore livello, fino alla trombatura annunciata alle ultime comunali ad opera di Gianni Alemanno, che avrebbe perso con chiunque, ma che ha vinto con Rutelli.
La svolta principale di Rutelli è certamente stata quella del passaggio dalla cultura laica ed anticlericale, propria della sua militanza nel Partito Radicale - nel quale durante gli anni ’80 ricoprì anche l’incarico di tesoriere - all’abbraccio mistico dell’identità religiosa. Un percorso iniziato da sindaco di Roma, evolutosi poi (decisamente in modo inglorioso) con i “coraggiosi” e i Teo-dem. Dal rappresentare la voce dei diritti civili al farsi megafono di Paola Binetti, il percorso, pure non semplice, è stato lineare: di svolta in svolta, infatti, “er cicoria” non ha mai perso di vista il luogo da dove era partito a quello dove voleva arrivare, anche solo per marcare le differenze oltre il richiesto.
Ed oggi, quando il nodo non tanto dell’identità, quanto della sopravvivenza, del partito democratico sembra arrivare al pettine, Rutelli annuncia la sua ultima rottura. Nessuna sorpresa, per carità: persino i sassi sapevano delle ambizioni rutelliane e tutti sanno che - qualunque sarà l’esito delle primarie - il suo futuro ruolo nel PD sarebbe stato ogni giorno più marginale. Da qui la volontà di trovare una nuova collocazione: e Casini, che di ricollocazioni è un grande intenditore, ha pensato bene di spalancargli le porte dell’Udc.
“La Margherita, dice, non tornerà, ma così come sta procedendo, il PD è un grande tradimento delle idee che diedero vita al progetto. Spiega “er cicoria” che il PD va ormai verso l’identità di ultimo partito della sinistra italiana e che, a questo destino, lui si oppone: “A sinistra no - dice - è una strada senza uscita”. Come si è arrivati a essere l’ultimo partito della sinistra (soprattutto senza che nessuno, soprattutto gli elettori di sinistra se ne sia accorto)?
Lo spiega lui, con parole come al solito chiarissime: “E’ mancato il coraggio di scegliere e tracciare la propria strada. La nascita di un partito riformatore, di questi tempi, avrebbe comportato la costruzione di una nuova narrazione e il fascino e la concretezza di un’azione ben organizzata nella società italiana”. Coloro che eventualmente trovassero nebulose le parole e oscuri i concetti, potranno rifarsi con il concetto che segue: “La debolezza della proposta ha reso sfumata la differenza rispetto ad avversari e vicini. L’inevitabile conseguenza - chiosa Rutelli - è che il PD diviene una variante nello sviluppo della storia della sinistra”. Chiaro, no?
E adesso? Per cambiare, conclude Rutelli, si dovrebbe formare un governo di ricostruzione e rilancio dell’economia, un governo del presidente con larga base parlamentare, l’interruzione dei conflitti distruttivi, un programma ambizioso di tre anni, pero poi - nel 2013, arrivare all’appuntamento con una competizione tra due schieramenti alternativi, basati su alleanze di nuovo conio”. Tra le declamazioni e i progetti non si sa dove la confusione regni maggiore. Per il PD, oggettivamente, quella dell’uscita di Rutelli è una buona notizia, che contribuisce a dipanare le contraddizioni sui temi etici e sulla conseguente collocazione politica. A patto però che i suoi coraggiosi teo-dem, lo seguano.
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di mazzetta
L'apparizione di Piero Sansonetti a Porta a Porta durante l'ormai famigerato show di Berlusconi continua ad agitare le acque della sinistra, in particolare di quella definita, chissà perché, radicale. Non sono beghe di cortile, paradossalmente la polemica chiama in causa questioni di difficile risoluzione, tattiche come politiche. La pochezza dell'intera vicenda e la sua chiarezza rendono l'occasione ghiotta per sviluppare alcune considerazioni. Ad accusare Sansonetti di collaborazione con il nemico sono stati in diversi, da Francesco “Bifo” Berardi che ha formalizzato l'accusa insieme alle sue dimissioni pubbliche dalla collaborazione con L'Altro (il quotidiano diretto da Sansonetti), fino a Il Manifesto che si è divertito assai alle sue spalle.
Sansonetti per parte sua ha variamente spiegato le sue apparizioni a Porta a Porta e in questo modo ha reso evidente il fatto che non abbia una vera spiegazione da dare o che, in alternativa, non possa esplicitare e spendere i veri motivi che lo hanno spinto a fare lo zerbino di Berlusconi. Il problema, infatti, non è tanto nell'aver presenziato a Porta a Porta, ma che nel farlo il buon Piero si è adeguato in maniera imbarazzante agli standard di Bruno Vespa, che a tratti è addirittura parso “più giornalista” di lui. Il problema non è proprio che Sansonetti abbia legittimato lo show di Berlusconi, quello che è sembrato sfuggire ai più è che Sansonetti sia da tempo una colonna (quella di sinistra) di Porta a Porta, che non è uno spettacolo episodico, ma una delle più grandi macchine di creazione del consenso a disposizione di Berlusconi e del suo governo. Sansonetti è ormai parte di Porta a Porta.
Le presenze a Porta a Porta offrono grande visibilità, ma Sansonetti non può certo dire che si presta alla recita per una moneta del genere. Chi ha ventilato altri vantaggi probabilmente sbaglia, quella visibilità è già di per se stessa una retribuzione evidente e tangibile. Se Sansonetti frequentasse Porta a Porta in veste critica non ci sarebbe nulla da eccepire, ma la sua pretesa di rappresentare l'anticonformismo prestandosi docile al copione di Vespa è insostenibile. Che sia docile non ci sono dubbi, non si ricordano polemiche sollevate da Sansonetti a Porta a Porta e non sono pervenute domande scomode al presidente del consiglio. Di questi tempi non è facile evitare le domande sgradite a Berlusconi, ma Piero ce l'ha fatta, confermando l'opinione di chi lo conosce personalmente per un soggetto intelligente.
Al di là dei toni che ha assunto la discussione, molto colorati e forse sopra le righe, e prima che tutto si perda nella conta dei punti-militanza e negli insulti incrociati tra chi critica il salto di Piero e chi lo difende per questioni più o meno affettive, bisogna cogliere e ribadire il vero significato della vicenda, che dimostra la grande capacità d'attrazione e di cooptazione che chi controlla l'accesso alla televisione e al potere economico e politico riesce ad esercitare anche su chi ha lunghe storie di militanza politica in campo avverso. Può entrarci anche la delusione per le sorti di una sinistra italiana da sempre minoritaria, ma il numero e il flusso di questi transfughi é troppo robusto e costante per essere solo figlio della frustrazione.
La realtà dimostra che aderire alle richieste del sistema è terribilmente vantaggioso, ma anche che per ottenere la visibilità necessaria e sufficiente per esistere nella società spettacolare, bisogna passare le forche caudine di un compromesso eticamente inaccettabile, per il quale bisogna inventarsi diversi e recitare una parte. Capita nei reality show, dove aspiranti allo spettacolo vengono diretti da un regista e capita anche per tutti gli altri show televisivi, dove i protagonisti sono sempre selezionati e diretti in modo funzionale alla storia che si vuole raccontare e al messaggio che si cerca di trasmettere. Stile, funzione e funzionamento di Porta e Porta sono noti da tempo: ovvio che imbarchi solo intelligenti consenzienti o vittime sacrificali che si sente capace di sbranare. Sansonetti non lo sbrana, non lo morde nemmeno: perché?
Lasciando Sansonetti ai suoi problemi, resta l'evidenza dell'incapacità della sinistra di “trattenere” il proprio personale politico e gran parte della sua classe parlante, incapacità che si spiega facilmente senza bisogno di filosofare: l'attivismo politico e culturale sui temi della sinistra storica, anche di quella più light, rende molto meno che prestarsi alla grande affabulazione. A volte capita anche che le persone intelligenti alla lunga siano tentate di mettere fine al sacrificio o addirittura di monetizzare professionalità e capacità messe insieme con tanti sacrifici e attraverso tante esperienze e battaglie per una notorietà fino ad ora sconosciuta.
Solo l'etica resterebbe ad opporsi a questo genere di seduzioni, ma per l'etica sono tempi duri e non esiste più traccia di stigma sociale che si dimostri capace di frenare i comportamenti che ne fanno stracci. Anche il frazionismo di sinistra contribuisce a facilitare questo genere di defezioni, perché è difficile provare lealtà verso persone con le quali ci si guarda in cagnesco da anni e con le quali si sono fatte fiere battaglie sul sesso degli angeli. Non c'è un gruppo omogeneo al quale dover rendere conto delle proprie azioni, conformismo e anticonformismo sono parole dal significato intercambiabile e variabile nel tempo e nello spazio. Lo spazio semantico è stravolto e dominato dal rumore prodotto dalla tromba televisiva, che suona sempre la stessa musica a tutte le ore e i richiami a valori comuni e diversi evaporano insieme all'integrità delle persone.
Il problema posto da questa transumanza rimane rilevante e di difficile soluzione, un esodo a senso unico, ad ulteriore dimostrazione del potere d'attrazione del sistema dello spettacolo che determina un'emorragia costante di forze ed energie, che si spendono anche in questo genere di polemiche, con grande spasso di chi questi problemi non se li è mai posti. Il problema non è quindi Sansonetti, ma l'impetuoso torrente che si è portato via Sansonetti e tutti gli altri dopo la caduta delle barriere etiche e ideali che un tempo costituivano il pur flessibile perimetro ideale della sinistra italiana.
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di Mariavittoria Orsolato
Oltre ad aver fatto cinque milioni e mezzo di ascolti con il 22,87% di share, la puntata di giovedì di Annozero ha regalato a quella Rai che tanto disprezza il suo conduttore e i suoi ospiti fissi, l’ennesima secchiata di acqua gelata. Intitolata “Farabutti”, in chiaro riferimento al gentile appellativo con cui Berlusconi ha additato i giornalisti che non gli fanno da lacché, il tema della puntata verteva sulla libertà di stampa e sull’ormai trito tema della scarsa moralità del premier. C’era Vauro, Franceschini e Bocchino, c’erano la De Gregorio e il solito odioso “mr. No” Belpietro, c’era un Mentana che non si capiva se c’era o ci faceva e c’era quel Marco Travaglio la cui testa fa gola a più di un dirigente Rai.
Le polemiche sulla nuova serie della trasmissione, infatti, sono iniziate ancor prima che questa incominciasse: prima il problema dai contratti non firmati a meno di due settimane dalla messa in onda, poi il diktat sottaciuto che voleva Travaglio fuori dalla trasmissione e la querelle tra Masi e Santoro. Ma infine la puntata è andata in onda, con l’editoriale di un Travaglio senza contraddittorio e con un Santoro forzato a richiamare il passato prossimo dei nostri governanti e a spiegare il perché di tanto allarmismo sul rischio censura. Insomma il compagno Michele - come lo dileggiano gli scrivani del premier - è riuscito a scampare agli anatemi di Palazzo Chigi e di Viale Mazzzini, trasmettendo all’Italia la solita gustosa informazione che contraddistingue lui e i suoi collaboratori.
“Tanto rumore per nulla?” chiede Santoro. Buona parte dell’opinione pubblica pensa di sì, ma il fatto che Annozero sia andato in onda giovedì, non è certo un buon motivo per chetare gli animi e assuefarsi nuovamente nella convinzione che in Italia vada tutto bene. Se polemica infatti c’è stata, è perché ci sono i precedenti e Santoro e la sua trasmissione sono proprio uno di questi. Ricorderete tutti l’editto di Sofia del 18 aprile 2002 e ricorderete anche come la stagione seguente, i tre soggetti citati nell’ukase bulgaro fossero divenuti dei desaparecidos dell’etere. Se perciò ci si è sbracciati al punto da indire una manifestazione ufficiale della FNSI il prossimo 3 ottobre, è perché alla stampa che si chiama libera - e anche a quella di parte (opposta) - questa insinuante arroganza dei berluscones su come si deve informare, fa paura.
Tornando alla puntata di giovedì, la triste conferma di quanto stia avvenendo negli ingranaggi giornalistici del paese la dà inaspettatamente Filippo Facci, nemesi di Travaglio dei giornali della famiglia Berlusconi: intervistato da Corrado Formigli, il giornalista di Libero ha ammesso di temere per la sua libertà di espressione e, sebbene la sua sia una dichiarazione in grado di creare profonde crisi di identità, se lo dice lui c’è davvero da crederci.
Quello che però giovedì Annozero cercava di dirci, l’ha espresso con la maestria che lo contraddistinse Giorgio Bocca: “Può darsi che questo tentativo di uccidere la democrazia fallisca, come che abbia successo. Berlusconi è stato molto intelligente a creare un sistema, un regime tollerante, che coltiva tutti i vizi del paese: vi piace rubare? Rubate. Volete la ricchezza? Sposate un miliardario. Quando sento dire che gli italiani sono intelligenti, sono bravi… Ma non è vero! Gli italiani sono poco intelligenti perché stanno distruggendo questo bene che è la libertà e la democrazia”.
Ecco, se gli italiani sono poco intelligenti o se vanno dritti verso la perdita delle proprie libertà intellettuali è perché ormai riescono a vedere il dibattito politico come un’eterna lotta tra il bene e il male, come un continuo rimpallarsi di colpe e di mancanze, e non importa che questo sentimento dualistico sia radicato nel nostrano dna sin dalla notte dei tempi. La colpa di questa sindrome da dicotomia è in buona parte ascrivibile al fatto che la maggioranza dei nostri connazionali s’informa (quando lo fa) solo ed esclusivamente grazie al tubo catodico, si nutre di panini mimouniani e si abbevera alle sorgenti di professionisti conclamati come Fede e Minzolini. In questo desolante panorama, trasmissioni come Che tempo che fa e Parla con me, giornalisti come la Gabanelli e - seppur con tutti i suoi difetti - Santoro sono necessari per equilibrare il mostruoso conflitto d’interesse che attanaglia l’inconsapevole pubblico catodico.
La Rai nei fatti non ha toccato i palinsesti, tutti i programmi sopraccitati andranno comunque in onda durante la stagione autunnale. Ma se l’ha fatto, la ragione non é da cercare in un improvviso attaccamento ai bilanci dell’azienda, perché è pur sempre vero che quei format attirano pubblicità come il miele le mosche. Non è nemmeno causa momentanea debolezza di quei Masi e di quei Liofredi che si impettiscono davanti Padron’ Silvio. La vera ragione è che ormai hanno capito che alzando polvere, si alza solo attenzione, e soprattutto hanno realizzato che l’attenzione che viene data non smuove di un millimetro le convinzioni che gli italiani si sono fatti riguardo a quella che ci ostiniamo a chiamare politica. Lasciare quei programmi è semplicemente fare una cortesia a quei quattro gatti che ancora credono che la parola libertà abbia qualcosa a che fare con il pensiero.