di Sara Michelucci

Due donne. L’affetto, l’amicizia, l’amore, racchiusi nelle pieghe di un ventaglio. Racconti di vite lontane, legate da un patto inscindibile, quello laotong. Un legame d’amicizia tra due donne, più forte di una parentela, tipico della contea di Jangyong e sancito dal linguaggio femminile segreto, “nu shu”. Il ventaglio segreto, ultimo lavoro del regista cinese, Wayne Wang e ispirato al romanzo di Lisa See, "Fiore di Neve e il ventaglio segreto", racconta la storia di Nina e Sophia, amiche intime che hanno deciso di sancire l’antico patto laotong per rimanere legate per sempre da un sodalizio spirituale.

Alla loro storia si alterna quella di due bambine, Fiore di neve e Giglio bianco, nella Cina del 19° secolo, a cui sono stati fasciati i piedi nello stesso giorno. La loro storia è narrata nel libro che Sophia sta scrivendo e che Nina trova e legge mentre l’amica è in coma in ospedale, dopo essere stata travolta mentre andava in bicicletta.

Le due bambine, che hanno sottoscritto l’antica alleanza, diventeranno adulte e seppur lontane e nella solitudine dei loro rispettivi matrimoni, continueranno a scriversi su dei ventagli affidati a messaggeri. Si rincontreranno, tenteranno di scindere il loro legame per rendere l’una libera dall’altra, ma il loro affetto e l’amicizia che le unisce sono troppo forti.

Anche il legame di Nina e Sophia è messo a dura prova. Anche in questo caso Sophia tenterà di liberare Nina da un peso, ma alla fine ci sarà una riscoperta in chiave moderna dell’antica unione del laotong. La tradizione cinese, il maschilismo della società tradizionale, l’empatia delle donne, sono ben presenti in questo film che mischia elemento storico con quello più attuale.

Dal linguaggio, alle scene e ai colori, si evincono le differenze, ma le similarità delle due storie sono rese visibili dalle scelte delle stesse interpreti per i quattro ruoli. Nei gesti teneri delle due donne si racchiude un mondo fatto di comprensione e lealtà, cui il mondo maschile, che resta sempre sullo sfondo, difficilmente potrà accedere.

La forza di queste due donne, al contrario delle Thelma e Louise di Ridley Scott, non è tanto nei gesti quanto nelle parole, nonostante le scelte alla fine saranno nette, e Nina non ci penserà due volte a rinunciare o almeno a rimandare il suo trasferimento da Shanghai e New York.

Wang, che ricordiamo essere il regista un bel film come Smoke (1995), sceglie questa volta una storia tenera, al femminile, nonostante non sia stilisticamente perfetto e probabilmente non sarà un film “indimenticabile”.

 

Il ventaglio segreto (Cina-Usa, 2011)

regia: Wayne Wang
sceneggiatura: Angela Workman, Ronald Bass, Michael Ray
attori: Bingbing Li, Gianna Jun, Vivian Wu, Hugh Jackman, Archie Kao
fotografia: Richard Wong
montaggio: Deirdre Slevin
produzione: IDG China Media
distribuzione: Eagle Pictures

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

L’agiatezza e la povertà sono ben distinte in un borghese palazzo parigino degli anni Sessanta. Al sesto piano abita un gruppo di domestiche spagnole, relegate in una sorta di soffitta con diverse stanze e un bagno che non funziona. Il resto del palazzo è suddiviso tra gli appartamenti dei ricchi signori che queste donne servono.

Ma il signor Jean-Louis Joubert  è diverso. Maniaco dell’uovo alla coque e agente di cambio affermato e rigoroso, scopre che la sua vita e soprattutto il suo matrimonio sono piatti e senza un’autentica felicità. Quando la giovane Maria entra nella sua vita come governante, al posto della vecchia e brontolona Germaine, la sua vita e quella della sua borghese e “finta” famiglia cambiano di colpo.

La giovane donna, da poco giunta nella Ville Lumiere da Burgos, gli apre le porte di un universo esuberante, totalmente diverso da quello a cui è abituato, fatto di sacrifici, ma anche di allegria, folklore e gioia. Colpito da queste donne piene di vita, Jean-Louis si lascia andare e per la prima volta gusta i sapori più semplici che la vita gli dona.

Sullo sfondo di questo bel film, che sa ben caratterizzare i personaggi dando uno spessore tale che ad ognuno possiamo dare un’identità ben precisa, c’è la Francia di De Gaulle e la violenta Spagna di Franco. Due mondi contrapposti, come lo sono quelli delle domestiche iberiche e dei borghesi francesi. Due mondi che sembra non possano mai incontrarsi, ma le cui barriere verranno destrutturate da Maria e Jean Louis, creando scandalo, ma aprendo gli occhi su una società ipocrita.

Guardando il film di Philippe Le Guay, Le donne del sesto piano, seppur con le dovute differenze, viene così alla mente il pluripremiato Gosford Park di Robert Altman. In questo caso al piano di sotto c’è la servitù e a quello superiore c’è la nobiltà. Il contrario insomma di quello che avviene nel film di Le Guy.

L’autentico oggetto del capolavoro di Altaman è proprio la rappresentazione del rigido sistema di classi dell’Inghilterra degli anni Trenta. Molte delle vicende che s’innestano sulla trama principale vogliono svelare le complesse relazioni tra la nobiltà e la servitù, mostrando l’ipocrisia dei comportamenti pubblici ingabbiati nei rituali della società.

Stessa cosa accade ne Le donne del sesto piano, con l’immagine della portinaia sprezzante verso le domestiche spagnole, pur essendo lei stessa a servizio dei padroni e quella diametralmente opposta di Jean-Louis, illuminato borghese che rinuncia alla sua agiatezza pur di respirare una boccata di aria pura, assaporando con Maria la vera gioia di essere uomini.

Le donne del sesto piano (Francia 2011)
regia: Philippe Le Guay
sceneggiatura: Philippe Le Guay, Jérôme Tonnerre
attori: Fabrice Luchini, Sandrine Kiberlain, Natalia Verbeke, Carmen Maura, Lola Dueñas, Berta Ojea, Nuria Solé, Concha Galán, Muriel Solvay, Marie-Armelle Deguy, Annie Mercier, Michele Gleizer
fotografia: Jean-Claude Larrieu
montaggio: Monica Coleman
musiche: Jorge Arriagada
produzione: France 2 Cinéma, Les Films de la Suane
distribuzione: Archibald Enterprise Film

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

L’assassinio di Abraham Lincoln nel 1865 e l’accusa di cospirazione di sette uomini e una donna. Da qui parte il film di Robert Redford, The Conspirator, che torna dietro la macchina da presa a quattro anni di distanza da Leoni per Agnelli. Una storia di giustizia e ingiustizia, di coscienza e morale, dove il rispetto della Costituzione e la sete di vendetta si scontrano e si danno battaglia in tribunale.

Il giovane avvocato ventottenne e reduce di guerra, Frederick Aiken, viene “costretto” a difendere davanti a un tribunale militare, Mary Surratt, la donna di 42 anni accusata dell'assassinio del presidente. Il giovane, nonostante sia un nordista convinto, eroe di guerra e legato al suo paese, si rende conto che, nonostante le prime ritrosie, la giustizia è una cosa decisamente delicata e che spesso le accuse fatte sono appannaggio di pregiudizi e errori molte volte grossolani.

Quando realizza che la sua cliente potrebbe essere innocente e che viene usata come esca e ostaggio, per catturare l’unico cospiratore che è sfuggito, John Surrat, ovvero il figlio della donna, tenta a tutti i costi di salvarla e di far prevalere la verità. L’unica colpa di Mary è quella di gestire una pensione, luogo della presunta cospirazione ai danni del presidente.

Man mano nel giovane avvocato crescerà la consapevolezza della distorsione di quel tipo di giustizia che, pur di trovare un capro espiatorio, è pronta a tutto, anche a condannare a morte un’innocente. C’è molta storia, ma anche molta cronaca americana nel film di Redford, richiamando alla mente i casi di (in) giustizia che hanno portato alla morte o alla reclusione di persone che non erano colpevoli.

Lo stile di Redford è decisamente lineare, senza colpi drammatici troppo evidenti, ma con la capacità di coinvolgere lo spettatore nel cuore stesso di quello che si vuole raccontare. Il tema della giustizia è sicuramente caro al regista, che ha rivestito ruoli indimenticabili come il giornalista del Washington Post, Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente o il giovane impiegato della Cia, Joseph Turner, nel bellissimo I tre giorni del Condor.

Le distorsioni di un sistema vengono ancora una volta portate alla luce e, seppure il periodo storico dei tre film sia molto diverso, certi meccanismi continuano ad esistere. Una denuncia e soprattutto la possibilità di guardare con occhio lucido e con il senno di poi ciò che sarebbe dovuto essere cambiato e quello che ancora oggi non va bene nel sistema giudiziario statunitense. Il film è stato presentato in anteprima mondiale l'11 settembre 2010 al Toronto International Film Festival.

The Conspirator (Usa 2011)

regia: Robert Redford
sceneggiatura: James Solomon
attori: Robin Wright, James McAvoy, Jonathan Groff, Alexis Bledel, Danny Huston, James Badge Dale, Evan Rachel Wood, Justin Long, Kevin Kline, Norman Reedus, Stephen Root, Tom Wilkinson, Johnny Simmons, Toby Kebbell, Chris Bauer
fotografia: Newton Thomas Sigel
montaggio: Craig McKay
produzione: The American Film Company, Wildwood Enterprises
distribuzione: 01 Distribution

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Dodici anni, una bicicletta e la voglia di essere amato da suo padre. Questo è Cyril, giovane protagonista del film dei fratelli Dardenne, Il ragazzo con la bicicletta. Biondo, magrolino, parcheggiato da un giovane padre egoista in un istituto, Cyril non si rassegna e tenta in tutti i modi di riconquistare l’affetto di suo padre, pronto a tutto, anche a rubare, pur di poter tornare a vivere con lui. Ma non sono i soldi, non è la ristrettezza economica a impedire il riavvicinamento. Semplicemente il piccolo Cyril rappresenta un intralcio nella vita di suo padre, che vuole rifarsi una nuova famiglia, ma senza di lui. Lo dà via come ha fatto con la sua bicicletta, senza provare un minimo rimorso. Sulla strada di Cyril, però, compare Samantha, la sua seconda possibilità.

La persona che lo amerà davvero come una madre, come se quel ragazzino fosse veramente suo figlio. E forse è proprio vero che i figli sono di chi li cresce e non di chi li mette al mondo. Samantha fa la parrucchiera, è una ragazzotta forte e diretta, ma ha dei tratti angelici, pur essendo la sua figura fortemente stagliata nella realtà. Il realismo si scontra così con una spiritualità fatta di sentimenti puri, di parole non dette, ma di abbracci e gesti profondi.

Samantha è una persona autentica, che crede negli altri, nei rapporti interpersonali, e non ha remore nell’accogliere un ragazzino problematico, con cui si scontra, ma da cui riuscirà a tirare fuori il meglio. Il tema dell’abbandono torna in questo nuovo film dei fratelli Dardenne, dopo L’Enfant del 2005, dove Sonia mette al mondo un figlio, ma Bruno, il suo compagno, lo vende a una banda malavitosa nella convinzione di fare una scelta necessaria, dato che la giovane coppia non possiede i mezzi economici per allevarlo.

Ancora una volta è la donna a sentire il legame madre e figlio come qualcosa di inscindibile e ancora una volta la figura maschile è mero contorno, figura immatura e fragile, che non riesce ad elevarsi verso un amore maturo. Ritorna anche preponderante la tematica dell’infanzia. Un’infanzia difficile, dimenticata, dove si lotta per avere un posto nel mondo degli adulti. Un’infanzia rubata, potremmo dire parafrasando Truffaut, in cui lo scontro generazionale è messo ben in evidenza, e dove sembra che il mondo degli adulti trascuri quello dei più piccoli. Questo è molto accentuato nel cinema di Truffaut e meno in quello dei fratelli Dardenne, dove c’è sempre qualcuno che “veglia” sui giovani protagonisti.

In Cyril troviamo un po’ dell’Antoine Doinel dei Quattrocento Colpi, soprattutto per l’irrequietezza e la difficoltà di far coincidere i suoi bisogni affettivi con quelli del genitore. Ma se Antoine è abbandonato a se stesso, Cyrill avrà una possibilità nuova, e sceglierà Samantha come fonte di amore e affetto sinceri e incondizionati. Insomma il mondo degli adulti trova un punto di incontro con quello dell’infanzia e dell’adolescenza, mettendo fine a un vuoto incolmabile.

Il Ragazzo con la bicicletta (Francia 2011)
regia: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
attori: Cécile de France, Thomas Doret, Jérémie Renier, Fabrizio Rongione, Egon Di Mateo, Olivier Gourmet
fotografia: Alain Marcoen
montaggio: Marie-Hélène Dozo
produzione: Wild Bunch
distribuzione: Lucky Red

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Sara Michelucci

Ci sentiamo padroni del mondo, e invece siamo dipendenti sempre da qualcuno, come dei picconi con i pop corn gettati in strada da un passante qualunque. Sembra essere questo il leit motive che accompagna il film Un perfetto gentiluomo, direttore dalla coppia Shari Springer Berman e Robert Pulcini. Una storia che sembra appartenere un po’ al passato, ma che invece ha radici ben piantate nella modernissima New York.

Louis Ives, interpretato da Paul Dano, è laureto in letteratura americana e la insegna in una piccola scuola media privata, ma la sua vera aspirazione è quella di diventare uno scrittore. Dopo essere stato licenziato dalla preside della scuola, che l’ha trovato a provarsi un reggiseno trovato in sala professori, il giovane scrittore decide di trovarsi una nuova casa e di tentare di diventare il nuovo F. Scott Fitzgerald.

Dal New Jersey si sposta allora nella Grande Mela per inseguire il suo sogno e trovo alloggio in un minuscolo appartamento diviso con un eccentrico “vecchio lord”, Henry Harrison, interpretato dal grande Kevin Kline. Entrambi sono accomunati da un’idea del sesso piuttosto particolare. Il giovane scrittore è attratto dal travestimento, mentre il “decaduto” Harrison da una castità imposta e maniacale.

Tra i due però nasce un’amicizia sincera che va al di là delle bizzarrie di entrambi. Louis rimane affascinato dalla storia personale di Henry e dai suoi imprevedibili impegni: fare da accompagnatore a una vecchia e ricca signora per cercare di ottenere una stanza per l’estate a Palm Beach o andare all’Opera senza pagare il biglietto.

Insomma Henry è un “extra man” che tiene compagnia a facoltose signore in età avanzata. Da qui si apre un mondo al giovane Louis, fatto di avventori, signore grasse che cercano di accaparrarsi un posto in società e scrocconi di ogni tipo, disprezzati dall’elegante Henry. Il personaggio così rappresenta la cartina al tornasole di tutto un tessuto sociale.

È usato come la lente d’ingrandimento su un mondo, mettendone in luce le aberrazioni e le storture. La voce narrante mutua dalla letteratura la tecnica di utilizzare il personaggio per catturare le abitudini di un ambiente sociale. E così lo sguardo confuso, altamente introspettivo e fragile di Louis è lo strumento attraverso cui osservare le bassezze umane, ma anche la capacità di capirsi e voltare pagina.

Kevin Kline nuovamente riesce a trasferire sul grande schermo le sue doti di grande attore, interpretando un personaggio molto complesso, ironico e triste allo stesso tempo. Surrealismo e commedia sentimentale s’intrecciano e si mischiano, creando un film piacevole, ma allo stesso tempo profondo, che riesce ben a scandagliare i sentimenti dei suoi protagonisti, strappando tra una risata e l’altra una riflessione sulla vita e la società.

Un perfetto gentiluomo (Usa 2011)

Regia: Shari Springer Berman, Robert Pulcini
sceneggiatura: Robert Pulcini, Shari Springer Berman
attori: Katie Holmes, Paul Dano, Kevin Kline, John C. Reilly, Cathy Moriarty, Alicia Goranson, Patti D'Arbanville, Celia Weston, Jason Butler Harner, Marian Seldes, Alex Burns, Rafael Sardina
fotografia: Terry Stacey
musiche: Klaus Badelt
produzione: 3 Arts Entertainment, Likely Story, Tax Credit Finance, Wild Bunch
distribuzione: BIM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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