di Roberta Folatti 

Satira antibush in salsa surreale

Solo George Clooney e il suo entourage potevano realizzare un film così, sembra cucito addosso a loro. Per l’argomento e per la maniera di svilupparlo, tra ironia e critica politica, quest’ultima sostanziosa ma travestita di leggerezza. L’uomo che fissa le capre non andrebbe raccontato perchè le sorprese vengono proprio dal dipanarsi della trama in un crescendo di situazioni al limite del grottesco. Ma la sorpresa più grande è scoprire che la storia raccontata nel film è vera, gli americani per un certo periodo hanno creduto veramente di essere in grado di acquisire poteri telepatici talmente forti da dominare e vincere una guerra. Solamente con quelli, abbandonando le armi più letali.

La spinta iniziale venne dalla rincorsa alle (presunte) ricerche russe che si diceva  fossero molto avanti nel campo dei poteri paranormali. Potevano gli americani farsi surclassare dall’Impero del male? E sull’onda dell’entusiasmo tipicamente yankee arrivarono a immaginare di costituire un esercito composto di gente che leggeva nel pensiero, che attraversava i muri, che all’occorrenza diventava invisibile. Questo battaglione venne battezzato First Earth Battalion, la responsabilità affidata a un tenente colonnello che aveva fatto pratica nell’ambito del movimento New Age.

La vicenda è ricostruita nel libro di Jon Ronson, dal quale è stata tratta una sceneggiatura che è finita nelle mani di Clooney e del suo socio nella “Smoke House”, già produttrice di “Good night and good luck” e “In amore niente regole”. Ne sono rimasti talmente entusiasti che Grant Heslov ha deciso di dirigere il film (si tratta della sua prima esperienza da regista) e a Clooney è andato il ruolo da protagonista. Ruolo che gli calza a pennello con le sue sfumature gigionesche su una base di personaggio positivo. Si potrebbe definire l’eroe buono anche se un tantino maldestro, che insieme al flemmatico Jeff Bridges e con il supporto esterno del pavido Ewan McGregor rappresentano il versante ingenuo, generoso e pacifista dell’esercito americano. Invece quello cattivo che da chi poteva essere incarnato se non da Kevin Spacey?

Con questo po’ po’ di “dotazione attoriale”, “L’uomo che fissa le capre” è già a buon punto, se si aggiunge una sceneggiatura che sprizza ironia da tutti i pori e un fondo serio di denuncia sociale, direi che il successo del film è praticamente assicurato. Ingrediente ulteriore e un po’ eccentrico, le capre, causa di un immutabile senso di colpa nel mite Clooney che non si perdona di averne uccisa una con la forza dello sguardo... Le situazioni surreali si moltiplicano e il simpatico attore, ormai mezzo italiano, trova la giusta misura per essere irresistibilmente comico e al tempo stesso consapevole. Viene a galla un’America, quella di Bush e delle sue teorie sull’esportazione della democrazia, molto inquietante, che calpesta diritti e si sente in qualche modo autorizzata a fare cose illecite. Meno male che ora c’è Obama!

L’uomo che fissa le capre (Usa, 2009)
Regia: Gran Heslov
Sceneggiatura: Peter Straughan
Fotografia: Robert Elswit
Cast: George Clooney, Jeff Bridges, Ewan McGregor, Kevin Spacey
Distribuzione: Medusa

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 di Roberta Folatti

Ribaltamenti emotivi


Se ha un difetto La doppia ora è quello di essere troppo carico di idee, suggestioni, richiami. Gli spunti della trama si sovrappongono creando un gioco di specchi affascinante che dà alla pellicola un’aura di inquietudine, di malinconica sospensione. I piani della realtà si moltiplicano, mescolandosi e ingannando lo spettatore.


Il protagonista maschile del film, interpretato da Filippo Timi, quando sull’orologio si verifica la coincidenza di una doppia ora (06.06, 12.12, 23.23) rimane sempre sconcertato, come se quel dettaglio dovesse per forza riportare ad altro, racchiudere un misterioso significato. Questo sconcerto finisce per avvolgere l’intera storia, i personaggi sono immersi in una specie di nebbia che a tratti si dissolve per poi riformarsi più spessa.


L’opera prima di Giuseppe Capotondi si apre su un momento di socialità artefatta, una serata di speed dating, durante la quale ci si conosce attraverso incontri combinati e brevi colloqui a rotazione. Espedienti per single alla ricerca di compagnia.


Guido rimane colpito dalla bionda Sonia e quando decide di contattarla riscontra molto entusiasmo da parte sua. Sono entrambi timidi e poco loquaci ma sembra nascere una vera comprensione fra loro. Il percorso di conoscenza viene bruscamente interrotto da un fatto violento, una rapina nella villa dove Guido lavora come custode. Da quel momento tutto cambia, le carte in tavola vengono mescolate più volte, realtà e sogno si confondono in un bel crescendo di tensione.


Forse non tutti i fili si ricongiungono perfettamente però “La doppia ora” riesce a coinvolgere con ribaltamenti di scena prima di tutto psicologici, interiori. I protagonisti sono diversi da come sembrano, e anche i cattivi hanno delle sfumature di fragilità. L’attrice russa Ksenia Rappoport, che interpreta Sonia  è stata premiata a Venezia con la Coppa Volpi sbaragliando una concorrenza agguerrita. Notevole la sua capacità di disegnare sul volto della protagonista una gamma di sensazioni inafferrabili, una volubilità appena accennata, sottotono, quasi dimessa. Un contributo all’atmosfera inquieta viene sicuramente anche dalle musiche di Pasquale Catalano.

La doppia ora (Italia, 2009)
Regia: Giuseppe capotondi
Sceneggiatura: Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo
Musiche: Pasquale Catalano
Cast: Ksenia Rappoport, Filippo Timi, Giorgio Colangeli, Lucia Poli
Distribuzione: Medusa

 

 

 di Roberta Folatti

Un Festival di provincia trasformato in un raduno oceanico


Chi se l’aspettava che Woodstock, il raduno di figli dei fiori più famoso della storia, fosse nato così, quasi per caso... Spostato dalla località prescelta dagli organizzatori ai terreni intorno a Bethel, un piccolo villaggio a una sessantina di chilometri da New York, grazie alla decisione avventata del proprietario di un motel decrepito...


Motel Woodstock di Ang Lee è un film piacevole, divertente, arguto; il celebre Festival, che ebbe come ospiti tra gli altri Jimi Hendrix, Joan Baez, Janis Joplin, è raccontato da un punto di vista molto particolare. La sceneggiatura è basata sull’autobiografia di Elliot Tiber, in un certo senso l’artefice del megaraduno musicale e pacifista. Senza di lui infatti l’evento sarebbe probabilmente saltato visto che gli abitanti della località scelta per ospitarlo si erano tirati indietro, spaventati di fronte alla prospettiva di un’invasione di hippy. Si temeva che potessero arrivare in 100.000, alla fine superarono il mezzo milione!


Il protagonista del film è dunque Elliot, figlio di una sgangherata coppia di ebrei russi che gestisce un motel perennemente sull’orlo del fallimento. Lui si sente responsabile e non riesce ad abbandonare i genitori al proprio destino così finisce per trascurare la sua carriera di decoratore al Greenwich Village. Soprattutto in estate passa il suo tempo a inventarsi espedienti per risollevare le sorti del motel di famiglia. E con l’idea forse balorda di dirottare sul suo villaggio gli organizzatori del Festival riuscirà a ripianare tutti i debiti di mamma e papà.


L’arrivo di quella massa di persone, che mettono sottosopra la vita del sonnacchioso paesello, cambia la vita di Elliot anche dal punto di vista personale, il giovane prende coscienza della sua omosessualità e riesce finalmente a vedere la madre nella sua vera luce. Egoista, avara fino alla paranoia, dominata da paure che risalgono alla sua fuga dall’Unione Sovietica. Dopo aver capito questo Elliot si sentirà libero di lasciare Bethel e di intraprendere la sua strada senza rimorsi. Il festival con la sua carica rivoluzionaria, con l’eco strepitosa che ebbe nella generazione dei figli dei fiori rimane in secondo piano, diventa lo sfondo delle vicende familiari di Elliot.


Ang Lee ha sfruttato con abilità il buget sostanzioso che i produttori gli hanno messo a disposizione, la sensazione è quella di assistere dal backstage, o meglio da una porta sul retro, a qualcosa di irripetibile. Centinaia di migliaia di giovani, uniti dagli stessi ideali e dal medesimo approccio alla vita (in parte filtrato dalle droghe), ammassate pacificamente in un luogo che fino a quel momento aveva conosciuto solo i ritmi lenti dell’agricoltura: questo è l’incredibile scenario ricreato dal regista cinese. Con molte pennellate ironiche e una buona dose di tenerezza.


Quasi ci si commuove davanti a quei ragazzi così ingenui nelle loro passioni totalizzanti, così “love&peace” e sembra davvero che un abisso li separi dai giovani d’oggi e dalla società sfrenatamente consumista del terzo millennio. D’altra parte anche Woodstock fu un gigantesco business (il film descrive anche questo aspetto) e quei ventenni riuniti a Bethel con ideali pacifisti sono gli stessi che hanno contribuito a costruire il mondo com’è oggi...

Motel Woodstock (Usa, 2009)
Regia: Ang Lee
Sceneggiatura: James Schamus
Musiche: Danny Elfman
Cast: Demetri Martin, Paul Dano, Imelda Staunton, Kelli Garner, Liev Schreiber
Distribuzione: Bim

 

 

 

di Roberta Folatti

Sconfinando nel fantastico

Ricky è un bambino fuori dal comune, potrebbe essere un angelo o la matafora di un angelo se non fosse così concreto, ripreso durante il film nella fisicità della sua crescita e dei suoi bisogni. Ricky è il frutto della passione fra un uomo e una donna che non sempre sanno comprendersi e che arriveranno a lasciarsi a causa della sua stranezza di bambino prodigio.  La pellicola, firmata dal regista francese François Ozon, da molti considerato il più promettente dei quarantenni in circolazione, è capace di sorprendere anche perchè esordisce come dramma sociale e si evolve assumendo i toni del racconto fantastico. Ma la particolarità è che continua a rimanere ancorato a un contesto estremamente reale, case squallide, fabbriche dai lavori ripetitivi, supermercati di periferia. Un’ambientazione che sembrerebbe assolutamente aliena da favole e lieti fine.

Eppure quando il piccolo comincia ad alzarsi in volo o a tentare di farlo con le sue alette da pollo (che poi diventeranno ali adatte alle grandi distanze) il film cambia completamente registro, lasciando sconcertati gli spettatori. Ricky. Una storia di amore e libertà barcolla leggermente sul crinale che separa il surreale dal grottesco, ma tutto sommato se la cava, trascinandoci in un’atmosfera da favola metropolitana, con una buona dose di momenti ironici che tolgono drammaticità al contesto. Il neonato che da principio complica la vita ai suoi genitori col pianto continuo e la sua strana irrequietezza, provocando indirettamente la loro separazione, diventa un vanto, una consolazione, un’autentica gioia per la sua famiglia. Quando si manifesta la sua incredibile particolarità, che sembra renderlo più sereno, quasi felice, la madre aderisce totalmente alla sua stranezza senza farsi troppe domande. S’ingegna per facilitargli la vita e il volo, intuendo che quella è la sua vera natura. A un certo punto Ricky da problema si trasforma addirittura in possibile fonte di reddito, perché i mass media lo individuano come “fenomeno”, “mostro” e vorrebbero fagocitarlo.

Scatta qua la sua inconsapevole ribellione che rispecchia la visione di Ozon stesso che spiega . Insomma preparatevi ad essere stupiti, anche se “Ricky. Una storia di amore e libertà” è una pellicola riuscita solo in parte, alla ricerca di un equilibrio che non sempre trova e che in certe parti rasenta pericolosamente l’autoparodia.


Ricky. Una storia di amore e libertà (Francia/Italia, 2009)
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon in collaborazione con Emmanuèle Bernheim
Musiche: Philippe Rombi
Cast: Alexandra Lamy, Sergi Lopez, Arthur Peyret


Distribuzione: Teodora

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Roberta Folatti

L’arte, truffa o forza inarrestabile?

Non sa bene cosa essere questo film argentino, se una commedia grottesca che prende in giro usi e costumi del mondo dell’arte o un dramma sullo sfruttamento, con un uomo inerme manipolato da un furbo infermiere che diventa famoso a sue spese. "L’artista" oscilla tra realismo e paradosso, tra la descrizione caricaturale dei personaggi e il loro ancoraggio ad ambienti al limite dello squallore. Ma forse anche il tono dimesso fa parte di ciò che viene irriso, quello stile autoriale che sta volutamente sottotono, che sottrae piuttosto che aggiungere, arrivando a volte a livelli di piattume involontariamente comici.

“L’artista” è opera di addetti ai lavori, gente che gravita nel mondo dell’arte: lo sceneggiatore è stato curatore di mostre e di programmi culturali, uno dei produttori è addirittura Leon Ferrari, famoso artista argentino, premiato recentemente alla Biennale di Venezia. Il film ha il suo esordio in un ospedale, dove un infermiere si rende conto che il vecchio paziente, che non parla ma scribacchia continuamente dei fogli, nasconde un tocco assolutamente geniale e decide di “rapirlo” e sfruttare il suo talento.

La storia è trattata con ironia ma nasconde anche letture meno superficiali. Al di là dell’“appropriazione indebita” e della beatificazione del falso autore - l’infermiere si prende la fama e la gloria che spetterebbero al vecchio - rimane il fatto che quei disegni (che la telecamera non ci mostrerà mai) riescono a comunicare al pubblico la loro forza dirompente. L’opera di un ritardato mentale può essere arte o si tratta solo di un’abile costruzione mediatica, di una forma di autosuggestione allargata, di cui sono vittime gli stessi critici?

Le scene in cui l’omone coi baffi segna i fogli con il suo strano, buffo rituale sono forse le più riuscite del film e rinvigoriscono la tesi che l’arte rappresenti qualcosa di misterioso, un’energia che proviene dall’inconscio e che, una volta incanalata in un’opera, è in grado di suscitare emozioni in chi la guarda.

Il film argentino è notevole dal punto di vista estetico, le inquadrature sono studiate, rincorrono ombre, scanalature, muri scrostati, si soffermano sui dettagli. Parco di dialoghi, se si escludono gli “sbrodolamenti” dei critici d’arte, “L’artista” racconta a modo suo un ambiente pieno di contraddizioni e di falsità. Il vecchio dalle mani miracolose e dallo sguardo perso è l’emblema della purezza in un mondo spesso totalmente contraffatto.

L’artista (Argentina, Italia, 2009)
Regia: Mariano Cohn, Gaston Duprat
Sceneggiatura: Andres Duprat
Cast: Sergio Pangaro, Alberto Laisela, Marcello Prayer
Distribuzione: Istituto Luce

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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