Se il governo non cambia rapidamente strategia, dal prossimo inverno l’Italia rischia di dover razionare il gas, innescando così una nuova recessione. Il pericolo è concreto e a rilevarlo sono esperti del settore come gli analisti di Nomisma Energia, che nessuno può accusare di essere putiniani. Purtroppo però il ministro della Transizione energetica, Roberto Cingolani, non la pensa così: “Già entro quest’anno avremo una buona diversificazione - ha detto la settimana scorsa in un’intervista al Corriere della Sera -  e se tutto va bene entro due o tre anni saremo completamente indipendenti dalla Russia”. Ammesso che questo sia vero, il problema è capire in che condizioni saremo fra due o tre anni.

Sono in molti al di fuori dei circuiti dei media ufficiali a pensare che il conflitto in Ucraina darà una spinta forse decisiva alle tendenze multipolari in atto già da alcuni anni. A farne le spese sarà il dominio già traballante degli Stati Uniti, con lo spostamento del baricentro strategico globale verso il continente asiatico. Un indizio potenzialmente esplosivo dell’accelerazione che questo processo starebbe vivendo è la notizia, circolata in questi giorni, che l’Arabia Saudita starebbe finalizzando con la Cina un accordo per vendere il proprio petrolio a Pechino non più in dollari ma in yuan. Se confermato, questo scenario rappresenterebbe l’inizio della fine dei cosiddetti “petrodollari”, su cui si basa in gran parte la posizione finora indiscussa dell’America di superpotenza finanziaria e, di conseguenza, economica, politica e militare.

Le nuove sanzioni internazionali contro la Russia rischiano di danneggiare soprattutto l’economia europea. Mosca è sotto regime punitivo dal 2014 e, prima di invadere l’Ucraina, ha sicuramente previsto le nuove mosse di Usa e Ue. Ha quindi avuto più tempo degli altri per prepararsi alle conseguenze, organizzandosi su due livelli: le ritorsioni contro l’Europa e la ridefinizione del proprio mercato di import/export, il cui baricentro va sempre più spostandosi verso oriente.

Tra i tanti dossier industriali che attendono da tempo una soluzione, da Atlantia a Tim fino all’automotive, ce n’è uno che sembra procedere verso un possibile approdo: su Ita, nata dalle ceneri di Alitalia, si sono accese luci di interesse da parte del gruppo MSC e di Lufthansa.

Dossier difficili che toccano dei gruppi industriali molto importanti giacciono da tempo sul tavolo di un governo che appare sostanzialmente inerte in proposito. Molte incertezze permangono così sulla questione di Atlantia come su quella di Tim, mentre negli ultimi tempi si è anche aggiunto il problema dell’auto, con relative società di componentistica che faticano molto a seguire il passo delle trasformazioni tecnologiche e di mercato, minacciando così nel nostro paese una strage sociale di cui registriamo in questi mesi le avvisaglie.

La riforma fiscale del governo Draghi è iniqua, perché consiste quasi esclusivamente in una modifica degli scaglioni Irpef. Un intervento che, per sua natura, avvantaggia chi ha di più. E a poco serve la revisione delle detrazioni aggiunta come foglia di fico: in teoria dovrebbe aumentare l’effetto redistributivo, ma in pratica non ci riesce. Anche perché gli italiani più poveri non pagano l’Irpef e quindi sono esclusi a monte dall’operazione.

Il nuovo sistema, introdotto con un maxiemendamento alla legge di Bilancio, inizierà a farsi sentire su pensioni e buste paga a partire da marzo. L’impianto, in sintesi, è questo: il numero degli scaglioni scenderà da cinque a quattro e le due aliquote centrali si ridurranno di qualche punto (dal 27 al 25% sulla fascia di reddito tra 15 e 28mila euro e dal 38 al 35% su quella fra 28 e 50mila euro); l’aliquota più alta, invece – quella del 43%, che oggi si applica oltre i 75mila euro – scatterà sulla parte di reddito che supera i 50mila euro.

La domanda è una sola: chi ci guadagna di più? Stando a una simulazione dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio – non proprio un covo di trozkisti – il risparmio fiscale più significativo (765 euro) si avrà nella fascia di reddito fra 42mila e 54 mila euro. Si tratta dei contribuenti che incassano da 3.500 a 4.500 euro lordi al mese: una fetta di popolazione che costituisce il 3,3% della platea, ma riceve il 14,1% delle risorse, pari a un miliardo.


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