Dopo quasi un anno dall’inizio delle operazioni militari in Ucraina si è quasi perso il conto delle sanzioni imposte alla Russia da Stati Uniti e UE. Com’è ormai chiaro a chiunque, gli effetti dei provvedimenti stanno però pesando in grandissima parte su quegli stessi paesi che li hanno decisi. Le conseguenze negative continueranno poi a farsi sentire in futuro, soprattutto nell’ambito energetico, dove le politiche suicide di Bruxelles mettono a rischio la tenuta stessa del tessuto industriale europeo. L’economia russa ha invece mostrato una solidità per molti inaspettata, con gli scambi commerciali in larga misura tornati al periodo pre-bellico e gli introiti dell’export di gas e petrolio virtualmente immutati.

A meno di uno scostamento di bilancio consistente, che non sembra voler fare per non indispettire Bruxelles e i mercati, Giorgia Meloni non ha soldi per fare praticamente nulla nella prossima legge di bilancio. I dieci miliardi di tesoretto ereditati dal governo Draghi sono già impegnati per prorogare le misure contro il caro bollette e i rincari dei carburanti, per cui non ci sarà alcuno spazio per le misure spot della campagna elettorale, come una vera riforma delle pensioni o una vera flat tax. Sgombrato il campo dalla possibilità di interventi di ampio respiro, che del resto nessuno nella maggioranza avrebbe mai saputo come realizzare, quello che rimane è ciò che più caratterizza da sempre la politica economica della destra italiana: favori e mance agli evasori e alla criminalità più o meno organizzata.

La decisione della Russia di interrompere per tre giorni, dal 31 agosto al 2 settembre, le forniture di gas dal Nord Stream per esigenze di manutenzione, ha scoperchiato un vespaio. Dopo l’annuncio di Mosca, il prezzo del gas sul mercato europeo di riferimento all’ingrosso, il TTF di Amsterdam, è schizzato a oltre 262 euro al megawattora. Un prezzo che si abbatterà come un tornado sull’economia europea: visto che l’energia serve a produrre e trasportare qualsiasi cosa. L’Europa sa che non è in grado di riconvertire a breve-medio termine il suo sistema di fornitura energetica, a meno di non voler veder crescere la sua spesa ad un livello insostenibile e il gas USA e di altre fonti non riuscirà a soddisfare le richieste.

La Bce insegue i propri errori, ma non li raggiunge. Dopo aver sbagliato le previsioni sull’inflazione - che si è rivelata ben più alta e stabile delle attese - l’istituto centrale ha varato una stretta monetaria in due fasi. Prima ha chiuso, come stabilito da tempo, tutti i programmi di acquisto titoli (sia quello emergenziale, il Pepp, sia quello ordinario); poi ha annunciato due rialzi dei tassi d’interesse, uno a luglio e uno a settembre, precisando che, a seconda di quale sarà l’andamento dei prezzi, nei mesi successivi saranno possibili ulteriori aumenti del costo del denaro.

Negli Stati Uniti, il mostro dell’inflazione ha ruggito come non faceva da più di quarant’anni. L’indice dei prezzi al consumo di maggio, pubblicato venerdì, ha segnalato un aumento dell’8,6%, contro il +8,2% previsto in media dagli analisti. È il livello più alto dal dicembre del 1981. Quando si parla di inflazione negli Usa, peraltro, bisogna tenere presente che il fenomeno è diverso da quello registrato in Europa, in quanto meno legato ai prezzi energetici e, in prospettiva, ben più pericoloso e difficile da sconfiggere. Lo testimonia il dato relativo all’inflazione di fondo (“core”), depurata cioè dai prezzi più volatili (alimentari ed energia), che è comunque molto alto: +6%, un decimo oltre le attese. 

L’effetto di questi numeri sulla Borsa non si è fatto attendere. Wall Street ha fatto segnare la seduta peggiore delle ultime tre settimane: S&P500 -2,9% e Dow Jones -2,7%. Ancora peggio il Nasdaq: -3,5%.

A questo punto, il mercato teme che la Federal Reserve - il cui braccio operativo (Fomc) si riunirà mercoledì per decidere sui tassi - possa decretare una stretta monetaria più pesante del previsto per contrastare l’aumento dei prezzi, rischiando però di affossare il Pil.


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