Il problema non è soltanto come spendere i soldi, ma anche quali soldi scegliere. Nella partita del Recovery Fund, il governo deve fare i conti con il mostro che ci ostiniamo a nascondere in cantina fingendo che non esista: il nostro terrificante debito pubblico. 

Le tre manovre d’emergenza varate nei mesi scorsi in funzione anti-Covid hanno spinto l’indebitamento italiano a livelli impensabili fino a pochi anni fa. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, il rapporto debito/Pil – che nel 2019 si era stabilizzato al 134,8% – arriverà oltre il 160% a fine 2020. L’anno prossimo il prodotto interno lordo rimbalzerà (si spera in un +5%, dopo il record negativo di -9% atteso per quest’anno) e la risalita aiuterà a contenere i danni sul fronte del debito, che tuttavia, in assenza di ulteriori interventi, rimarrà comunque sopra il 160%. Peraltro, questa è la più rosea delle previsioni, perché se nel frattempo chiedessimo tutti i prestiti che ci spettano nell’ambito del Recovery Fund, spingeremmo l’asticella fino al 168%. Come dire un aumento del 33% in due anni. Un disastro.

Intendiamoci: non stiamo parlando del rischio di bancarotta, che non esiste. Per quanto grande, il debito pubblico italiano rimane sostenibile, soprattutto ora che il Patto di Stabilità è sospeso e la Bce acquista Btp a piene mani. Il problema è che queste condizioni non dureranno per sempre. E, se non ci poniamo il problema adesso, quando la musica finirà rischieremo una nuova impennata degli interessi sul debito, che già prima della pandemia pesavano come un macigno sui nostri conti pubblici (basti pensare che, al netto di questa spesa, il bilancio pubblico italiano sarebbe addirittura in attivo da circa 30 anni). Non ce ne rendiamo conto, ma spendere di più per il debito vuol dire avere meno risorse per tutto il resto, a cominciare dagli investimenti e dallo Stato sociale.

Per evitare tutto questo, il Tesoro sta mettendo a punto un’architettura finanziaria di precisione. In tutto, l’Italia incasserà dal Recovery Fund circa 209 miliardi, ma solo 180 potranno essere impiegati nel biennio 2021-2022. Di questi, 117 arriveranno sotto forma di prestiti e 63 come trasferimenti a fondo perduto: i primi andranno restituiti (con interessi minimi) e per questo ingrasseranno il debito pubblico, mentre i secondi sono a tutti gli effetti un regalo e non lasceranno tracce sui conti. 

Ecco perché il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sta cercando il modo di usare nei prossimi due anni soltanto i “Grants”, ossia i fondi regalati. Gli altri, i “Loans”, diventerebbero la riserva a cui attingere soltanto dopo, quando ci potremo permettere di tornare a spingere sul pedale del debito.

Grazie a questo stratagemma, il governo punta a ridurre il rapporto debito/Pil a quota 150% il prossimo anno e al 140% (o quasi) nel 2022. Gli obiettivi ufficiali saranno indicati nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, in arrivo a fine settembre. Quello che conta, in questi casi, è la tendenza: il segnale da lanciare ai mercati e agli investitori è che il debito pubblico non solo non è fuori controllo, ma è perfino tornato su una traiettoria discendente.

Quando nel 2023 i trasferimenti a fondo perduto saranno finiti, inizieremo ad attingere ai prestiti, ma a quel punto – si spera – i conti saranno in condizioni molto migliori di oggi. E poi, nella prima metà di quell’anno, si dovrebbero svolgere le prossime elezioni politiche. Non certo un dettaglio, visto che il tempismo è perfetto: torneremo a votare proprio alla fine della pioggia di soldi regalati.

Lo scorso 27 agosto si è verificato un fatto destinato a entrare nei libri di storia dell’economia. Riguarda gli Stati Uniti, ma è significativo anche per noi europei (italiani in particolare), visto che in futuro potrebbe danneggiarci. Il fatto è questo: dal simposio di Jackson Hole, nel Wyoming, il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha fatto sapere che la Banca centrale americana cambierà l’impostazione di fondo della sua politica monetaria. Per importanza, l’annuncio è paragonabile al “Whatever it takes” di draghiana memoria.

Chiuso in Europa l’accordo sul Recovery Fund, resta da risolvere in Italia lo psicodramma Mes. Può sembrare un paradosso, ma il risultato positivo ottenuto da Giuseppe Conte a Bruxelles ha rafforzato la posizione di chi vuole attingere al fondo salva-Stati (Pd, Italia Viva, Forza Italia e Confindustria). Il motivo è semplice: se siamo tanto contenti di ricevere i 209 miliardi del nuovo piano, tanto più dovremmo esserlo d’incassare i 36 miliardi per la sanità. A ben vedere, infatti, il Mes è meno rischioso del Recovery Fund sotto ogni aspetto: condizioni d’accesso, tempi d’erogazione e meccanismi di verifica. Tutto il resto è propaganda.

Da mesi i detrattori del fondo salva-Stati (M5S, Lega e Fratelli d’Italia) parlano di condizioni capestro nascoste fra le pieghe normative del fondo. Non si fidano: temono ripensamenti retroattivi dell’Europa, bollano le regole come “poco chiare”, evocano lo spettro della Troika e il massacro della Grecia. Come al solito, per non disorientare gli elettori meno inclini alla riflessione, rifiutano di ammettere che la realtà è complessa, che i giudizi vanno sfumati e che a volte si è costretti a cambiare idea. Per loro, se il Mes era cattivo prima deve essere cattivo sempre: punto.

Peccato che, dopo la riforma di aprile, il fondo sia diventato qualcosa di molto diverso dalla macchina micidiale che anni fa annientò Atene. In base alle nuove regole, adesso per ottenere i fondi bisogna rispettare un solo vincolo: spendere le risorse per le esigenze sanitarie legate all’emergenza Covid. Non si tratta nemmeno di una norma stringente, perché le spese da finanziare possono essere “dirette” (ad esempio l’acquisto di respiratori o l’assunzione di personale negli ospedali) ma anche “indirette” (formula volutamente ambigua che ci permetterebbe d’infilare nel calderone anche i milioni di banchi singoli necessari a distanziare i ragazzi nelle scuole). Inoltre, i soldi del Mes sarebbero disponibili entro poche settimane e i controlli dell’Ue arriverebbero solo ad acquisti fatti.

Ora, chi vuole credere che queste siano bugie inventate per nascondere una trappola è libero di farlo. Quello che non si può fare è demonizzare il Mes e al contempo incensare il Recovery Fund, visto che quest’ultimo prevede delle condizioni molto più severe rispetto a quelle del fondo salva Stati. 

Per ottenere i soldi del mega-piano, infatti, bisogna obbedire alle raccomandazioni della Commissione europea, che quindi diventano ordini. I governi sono tenuti a dettagliare come e quando intendono approvare le riforme chieste dall’Ue in un documento che deve essere approvato prima dall’esecutivo comunitario, poi dall’Ecofin, cioè dai ministri economici dell’Unione. In seguito, se un Paese (leggi “Olanda”) riterrà che un altro membro non stia rispettando gli impegni (leggi “Italia”) potrà imporre la sospensione degli aiuti e portare il caso davanti al Consiglio europeo.

Anche se alla fine l’ultima parola spetterà alla Commissione e non ci sarà un vero e proprio diritto di veto nelle mani dei singoli governi, è chiaro che questo meccanismo sarà usato come strumento di pressione politica per imporre le riforme più sgradite (leggi “cancellazione di quota 100”). Infine, per quanto riguarda i tempi, i soldi non arriveranno prima del secondo trimestre del 2021, ma potranno essere usati per coprire le spese sostenute da febbraio.

Le differenze fra Mes e Recovery Fund dimostrano quanto siano strumentali le discussioni italiane sul fondo salva Stati. Non c’è nulla di tecnico su cui dibattere, il problema è solo elettorale. Per questo nessuno si aspetta che Conte prenda posizione adesso: se un’apertura ci sarà, non arriverà prima di fine settembre. Dopo le amministrative.

Dopo le bordate contro il piano Colao, al centro del mirino si piazza un nuovo bersaglio. Lo chiamano già “piano Gualtieri”, ma il nome ufficiale è “piano di Rilancio”: un documento che l’Italia invierà a Bruxelles entro settembre per spiegare come progetta d’investire il mare di liquidità in arrivo dall’Europa nei prossimi anni.

L’agenzia Ansa ha pubblicato una bozza del Programma nazionale di riforma (che andrà inserito nel Def, anch’esso da consegnare entro settembre), da cui emerge che il Piano di Rilancio sarà basato su tre pilastri: “Modernizzazione del Paese, transizione ecologica e inclusione sociale e territoriale e parità di genere”. Per il momento, siamo ai livelli di vaghezza del piano Colao.

Le uniche indicazioni più puntuali che il governo ha lasciato trapelare riguardano gli interventi sul fisco, il tema più sensibile dal punto di vista elettorale (dopo tutto, in autunno ci sono le amministrative).

“L'alleggerimento della pressione fiscale – si legge – è una delle componenti più importanti del programma di Governo” e dopo il taglio del cuneo partito da luglio, il governo sta lavorando a “una riforma complessiva della tassazione diretta e indiretta” per “disegnare un fisco equo, semplice e trasparente per i cittadini, che riduca in particolare la pressione fiscale sui ceti medi e le famiglie con figli e acceleri la transizione del sistema economico verso una maggiore sostenibilità ambientale e sociale”.

Il tono non è da rapporto tecnico, ma da proclama elettorale. Di questa ristrutturazione complessiva del fisco italiano non si sa ancora nulla, ma il governo si spinge addirittura oltre: “Saranno anche razionalizzate le spese fiscali, e, in particolare, saranno rivisti i sussidi ambientalmente dannosi”.

Ora, la revisione delle cosiddette tax expenditures è per antonomasia la riforma più annunciata negli ultimi decenni. Tutti i governi ne hanno parlato, nessuno ci è mai riuscito. Il motivo è che le agevolazioni fiscali italiane sono una foresta pluviale impossibile da sfoltire: recidere anche il più piccolo dei rametti vuol dire tirarsi addosso le critiche delle categorie economiche coinvolte, esponendosi ai colpi bassi dell’opposizione. È il trucco dei bonus: introdurli è facile, cancellarli è un’impresa.

Per riuscire in un’operazione del genere su larga scala, occorre inserire i tagli alle agevolazioni in una riforma fiscale davvero ampia, che consenta alle famiglie di recuperare dalla finestra quello che esce dalla porta. Non è un caso se finora non ci è riuscito nessuno: non è semplice. Il governo potrebbe spiegarci in cosa il suo tentativo si distinguerà dai precedenti, ma per il momento si limita a recitare la solita poesia: “L’obiettivo primario”, si legge ancora nel poco fantasioso Pnr, è la lotta all’evasione, da realizzare con “il miglioramento della riscossione” e con una spinta “alla compliance volontaria” (tradotto, le procedure che permettono ai contribuenti di mettersi in regola da soli a fronte di sconti sulle sanzioni). Non sono previsti invece condoni fiscali, anche perché usare i soldi di Bruxelles per una sanatoria pro-evasori significherebbe dare ragione a chi in Europa si batte per farci avere meno aiuti.

In effetti, ancora non sappiamo quanti soldi avremo a disposizione: con il Recovery Fund da 750 miliardi targato von der Leyen, al nostro Paese spetterebbero 172 miliardi, ma è probabile che alla fine questa somma si ridurrà di qualche decina di miliardi per arrivare a un accordo con i “Frugal four” (Olanda, Danimarca, Austria e Svezia), che si oppongono a un eccesso di liberalità nei confronti delle cicale meridionali.

D’altro canto, non c’è da considerare solo il “quanto”, ma anche il “come”: i soldi che arriveranno saranno per lo più a fondo perduto (come vorrebbero Francia e Germania) oppure si tratterà di prestiti, ancorché agevolati (come pretendono i Frugali)? Non è un dettaglio di poco rilievo, visto che bisogna pianificare ora l’azione governativa dei prossimi anni.

Purtroppo, l’Italia non ha mai brillato per capacità di programmazione, nemmeno quando la barca galleggiava e le risorse da gestire erano note da tempo. Ora stiamo colando a picco e non sappiamo né quanti soldi arriveranno né con precisione quando. L’unica certezza è che non incasseremo niente di sostanzioso prima del 2021, mentre il periodo peggiore della crisi economica arriverà in autunno. L’innesco della bomba è la cassa integrazione: se il governo non troverà i soldi per prolungarla, a fine settembre la misura scadrà, facendo saltare migliaia di aziende e provocando un’impennata della disoccupazione. E questo nello scenario virologico migliore, quello in cui il Covid-19 ci risparmia da una seconda ondata di contagi e quindi dall’esigenza di un nuovo lockdown.

I margini d’incertezza, insomma, sono enormi e si articolano su più fronti. L’unica speranza è che entro l’estate il governo si produca nella migliore programmazione economica vista in Italia negli ultimi vent’anni. Date le premesse, si richiede un atto di fede notevole.     

Più del cosa, ora conta il quando. Commissione europea, Germania e Francia premono per chiudere l’accordo sul Recovery Fund entro luglio, ma non sarà semplice. I Paesi comicamente noti come “frugali” - Austria, Olanda, Danimarca e Svezia - continuano a dare battaglia e non è detto che uno o due vertici il mese prossimo basteranno a trovare un’intesa prima della pausa estiva.

Intanto, il Consiglio europeo di venerdì scorso è andato in archivio senza scossoni. Come da attese, non è emerso nulla di concreto, ma la discussione è stata impostata e i quattro oppositori hanno evitato di fare baccano. Era il massimo che si potesse ottenere.


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