Il G20 ha dato il via libera alla “global minimum tax”, una nuova tassa mondiale che punta a cancellare dal pianeta i paradisi fiscali. La struttura è ancora da definire nei dettagli e sarà probabilmente affinata in sede Ocse già dai prossimi giorni. Lo schema di fondo è però chiaro: dal 2023, un’aliquota minima mondiale del 15% sarà applicata ai profitti delle multinazionali che fatturano almeno 750 milioni di euro l’anno. Il meccanismo prevede due livelli.

In primo luogo, ai grandi gruppi non converrà più stabilire la sede in un paradiso fiscale, perché quello che non pagheranno in Paesi dalla tassazione agevolata saranno costretti a versarlo in patria. Esempio: se Google continuerà a pagare il 12,5% in Irlanda, dovrà versare un altro 2,5% al fisco degli Stati Uniti, fino a raggiungere la soglia minima del 15%.

L’accordo sulla tassazione minima delle multinazionali, partorito nei giorni scorsi dal G7 dei ministri delle Finanze, ha già incontrato i primi ostacoli sulla complicatissima strada verso l’effettiva implementazione a livello globale. L’attitudine del Senato americano non sembra infatti particolarmente propizio al provvedimento proposto dal segretario al Tesoro, Janet Yellen, soprattutto tra gli esponenti del Partito Repubblicano. L’iniziativa ha poi una portata tutt’altro che storica e, oltre a rischiare di innescare una dinamica esattamente contraria a quella auspicata, è da collegare in primo luogo agli obiettivi geo-strategici dell’amministrazione Biden.

L’avvio del Recovery Fund rischia di slittare a settembre, ma a Bruxelles, per il momento, ostentano sicurezza. “Siamo pronti a mettere in moto la macchina entro giugno - ha detto la settimana scorsa il commissario europeo al Bilancio, Johannes Hahn - e siamo fiduciosi di poter versare i primi fondi, il 13% per ogni Paese, entro luglio”. Il problema è che, per rispettare questi tempi, i 27 parlamenti nazionali dell’Unione dovrebbero ratificare il piano entro maggio e i via libera mancanti sono ancora 10, compresi quelli di alcuni Paesi dell’Est in cui la situazione è piuttosto complicata.

A suscitare le maggiori preoccupazioni è la Polonia, dove il governo Morawiecki non ha più la maggioranza. “Solidarietà polacca”, partito di ultradestra, ha già detto che non voterà la ratifica “per non avviare l’europeizzazione del debito”.

La partita sul Recovery Fund non è ancora chiusa, ma all’orizzonte si profilano già nuove sfide fra l’Europa mediterranea e i Frugali del Nord. I contorni sono stati delineati la settimana scorsa dal presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, che durante l’ultimo Consiglio europeo ha messo sul tavolo due temi. Il primo riguarda la possibilità di creare dei titoli comunitari stabili, sul modello dei T-bond americani, per difendere i Paesi dell’Unione da nuovi shock finanziari. Draghi non ha usato la parola “eurobond” perché spaventa i nordici, ma il concetto è quello. “Negli Usa – ha spiegato l’ex banchiere centrale – hanno un’unione dei mercati dei capitali, un’unione bancaria completa e un safe asset”, il T-bond, appunto, e “questi elementi sono la chiave del ruolo internazionale del dollaro”.

In realtà, Bruxelles ha già dato il via libera agli eurobond, ma come soluzione temporanea: saranno emessi nei prossimi tre anni con il solo scopo di finanziare il Recovery Fund e moriranno insieme al piano da 750 miliardi. In Germania il dibattito pubblico è acceso intorno ai titoli europei, che dal punto di vista tedesco sono considerati una “presa in carico dei debiti” altrui (così hanno titolato molti giornali). La cancelliera Angela Merkel, dopo aver giurato per anni ai suoi connazionali che avrebbe impedito qualsiasi forma di condivisione del debito, oggi si giustifica in patria sottolineando la natura temporanea degli eurobond. Proprio il punto su cui invece Draghi chiede un passo avanti, puntando a trasformare i titoli in uno strumento permanente.

L’altro tema riguarda le regole di bilancio. Il Patto di Stabilità rimarrà sospeso per tutto il 2022 – su questo punto le Colombe hanno già prevalso – per evitare manovre di correzione che impedirebbero la ripresa post-pandemia. Il problema è capire cosa accadrà dopo il 2022. I Falchi vorrebbero tornare alle regole pre-Covid come nulla fosse, fingendo di non vedere che la devastazione causata dal virus ha cambiato le regole del gioco per noi. Anche ammettendo che l’emergenza sanitaria sia archiviabile in tempi relativamente brevi, la spesa pubblica imposta dal coronavirus peserà ancora a lungo sui conti dell’Eurozona, rendendo impraticabili i parametri di Maastricht per molti Paesi. Non solo per l’Italia.

È questo che intende Draghi quando chiede al Consiglio europeo di “disegnare una cornice per la politica fiscale che sia in grado di riportarci fuori dalla crisi”. Si tratta di ammorbidire i vincoli di bilancio per impedire che fra due anni l’area valutaria torni a strangolarsi da sola con il cappio dell’austerità. Su questo fronte, il Presidente del Consiglio italiano può giocare di sponda con Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, che in autunno presenterà una proposta di riforma. Gli obiettivi sono due: allentare i criteri di rientro sul debito, ridimensionando il Fiscal Compact, e introdurre una “Golden rule” sugli investimenti verdi e digitali (quelli più legati al Recovery), che si immagina di scorporare dal conteggio del debito.

In questa battaglia l’Italia avrà dalla sua parte Spagna, Portogallo, Grecia e probabilmente anche la Francia. Nella trincea opposta, come sempre, i Frugali del Nord: Olanda, Austria, Svezia, Danimarca e Finlandia. Decisiva sarà come sempre la posizione della Germania, su cui però aleggia ancora il mistero, visto che il 26 settembre si terranno nel Paese le elezioni federali e la Cdu è in caduta libera a causa del Covid. L’unica certezza è che a gestire la trattativa (o la mediazione) europea non sarà più Angela Merkel, ormai prossima a deporre lo scettro dopo 16 anni consecutivi da cancelliera.

Ma non è ancora finita. Alle discussioni su eurobond e riforma del Patto potrebbe affiancarsi anche un altro scontro Nord-Sud: quello sulla possibilità di aumentare la portata del Recovery Fund rispetto agli attuali 750 miliardi. Al momento l’idea (lanciata da Macron) circola solo a livello informale, ma i Mediterranei sono pronti a metterla ufficialmente sul tavolo quando tutti i Paesi Ue avranno finalmente approvato in Parlamento il nuovo strumento e i rispettivi Recovery Plan.

Su questo versante, però, è appena spuntato un ostacolo inatteso: la Corte costituzionale tedesca ha bloccato l’entrata in vigore della legge che dà il via libera al Recovery Fund. Il provvedimento era stato approvato con oltre due terzi dei voti dal Bundestag e addirittura all’unanimità dal Bundesrat, ma la firma del Presidente della Repubblica è stata congelata dai giudici di Karlsruhe, che hanno accolto un ricorso di Bernd Lucke, fondatore dell’ultradestra di Afd e animatore di una piattaforma euroscettica. A Bruxelles come a Berlino sono tutti convinti che le basi giuridiche per bocciare la legge non esistano. L’unico problema riguarda i tempi: se la Corte non deciderà in fretta, l’entrata in vigore del Recovery Plan slitterà ancora. Insieme alle battaglie che verranno dopo. 

In uno dei momenti più drammatici nella storia della Repubblica, il governo rischia di cadere per uno dei motivi più stupidi di sempre. L’avversione del Movimento 5 Stelle per il Meccanismo europeo di stabilità, meglio conosciuto come fondo salva Stati. Mercoledì il Senato (dove i numeri della maggioranza sono più risicati) è chiamato ad approvare la riforma europea del Mes, che l’Italia - a causa dei grillini - tiene in sospeso da oltre un anno, bloccando su questo fronte l’intera Unione europea. La questione non ha nulla a che vedere con l’utilizzo o meno del Mes sanitario, il fondo d’emergenza varato la scorsa primavera in funzione anti-Covid e che potrebbe garantire all’Italia circa 37 miliardi.


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