- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’aspetto più importante dell’accordo siglato questa settimana a Mosca tra Russia, Iran e Turchia su una possibile risoluzione del conflitto in Siria, per lo meno in attesa di verificarne l’efficacia, è rappresentato senza dubbio dall’esclusione degli Stati Uniti dai negoziati condotti tra i tre governi le cui forze armate risultano impegnate nel paese mediorientale.
L’altro particolare di rilievo è che l’annuncio di un piano comune da parte dei rispettivi ministri degli Esteri riuniti nella capitale russa non è stato ostacolato né ritardato dall’assassinio, avvenuto lunedì ad Ankara, dell’ambasciatore di Mosca in Turchia, Andrey Karlov, per mano di un agente della polizia turca.
Se motivazioni ed eventuali legami dell’attentatore, opportunamente eliminato dalle forze di sicurezza turche, non sono ancora chiari, è difficile pensare a uno scenario differente da quello in cui un’operazione così cruenta sia stata messa in atto come ritorsione o per impedire il riavvicinamento in atto tra Russia e Turchia, manifestatosi su più fronti, tra cui appunto quello siriano.
In quella che è stata battezzata come “Dichiarazione di Mosca”, i rappresentanti dei tre governi coinvolti hanno affermato di essere pronti ad agire da “garanti” di un accordo di pace tra Damasco e l’opposizione. I punti principali dell’intesa riguardano l’implementazione di un cessate il fuoco e il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria.
Inoltre, la lotta allo Stato Islamico (ISIS/Daesh), alla filiale di al-Qaeda in Siria, ovvero il cosiddetto Fronte Fatah al-Sham (ex Fronte al-Nusra), e ad altri gruppi fondamentalisti proseguirà, mentre una proposta russa prevede colloqui diplomatici, da tenersi ad Astana, in Kazakistan, tra il regime di Assad e l’opposizione interessata al dialogo.
L’ambizione delle tre parti, e soprattutto di Mosca, è dunque quella di gettare seriamente le basi per una risoluzione del sanguinoso conflitto in Siria e di un processo di transizione politica in termini che salvaguardino i loro interessi nella regione.
Quella in corso appare un’evoluzione diametralmente opposta al quadro nel quale fino a pochi mesi fa erano condotti – da Stati Uniti e Russia – gli improbabili negoziati di pace di Ginevra sotto la supervisione ONU. Proprio a questi ultimi ha fatto riferimento in maniera indiretta martedì il ministro degli Esteri russo, Sergei Shoigu, nel bollare come fallimentari i precedenti sforzi degli Stati Uniti e dei loro partner, nessuno dei quali aveva “una reale influenza sulla situazione sul campo”.
La marginalizzazione di Washington appare ancora più significativa alla luce del fatto che, secondo il nuovo formato dei futuri negoziati lanciati a Mosca, i rapporti con l’opposizione anti-Assad saranno tenuti dalla Turchia. Questo ruolo sembra essere stato concordato proprio con il Cremlino.
Non solo, secondo la stampa russa, l’ambasciatore Karlov aveva stabilito contatti con l’opposizione siriana, verosimilmente grazie alla mediazione del governo di Ankara, per promuovere i negoziati di pace di cui si è parlato nei giorni scorsi a Mosca. La sua morte sarebbe perciò direttamente connessa agli sviluppi della crisi in Siria e all’evolversi dei rapporti tra Russia e Turchia.
L’assassinio, in ogni caso, sembra avere avuto l’effetto contrario a quello desiderato dai possibili mandanti. Se la posizione di Erdogan nei confronti di Putin si è fatta indubbiamente più delicata, restringendo forse le opzioni e i margini di manovra della Turchia in Siria, i due governi si sono subito ritrovati sulla stessa lunghezza d’onda circa le responsabilità dell’omicidio e le misure da adottare in conseguenza di esso.
Le relazioni tra Turchia e Russia continueranno cioè a rafforzarsi, in parallelo al raffreddamento registrato con Europa e Stati Uniti. Significative in questo senso sono state le dichiarazioni degli esponenti del governo turco sulla situazione ad Aleppo, dove Ankara ha svolto un ruolo cruciale nel mandare in porto l’accordo per l’evacuazione dei “ribelli” rimasti nei quartieri orientali assediati dall’esercito di Damasco.
La Turchia, in sostanza, da sponsor dell’opposizione armata al regime di Assad ha finito per elogiare l’operazione di Siria, Russia, Iran e Hezbollah che ha portato alla liberazione di Aleppo. Questa è d’altra parte la logica conseguenza del riallineamento strategico deciso da Erdogan dopo il punto più basso toccato dalle relazioni con Mosca in seguito all’abbattimento del jet russo sui cieli della Siria nel novembre del 2015.
Nei mesi successivi, le scuse formali del presidente turco sono state seguite da una serie di iniziative che hanno fatto crescere il disagio dei partner occidentali di Ankara: dalla promozione della cooperazione in ambito militare con Mosca al lancio ufficiale del gasdotto “Turkish Stream” per trasportare il gas russo verso l’Europa meridionale. Anche l’intervento militare turco nel nord della Siria iniziato la scorsa estate, principalmente in funzione anti-curda, sembra essere stato concordato con la Russia.La notizia dell’accordo di Mosca, seguito alla sconfitta dei “ribelli” ad Aleppo, ha ulteriormente indebolito la posizione americana in Siria e, più in generale, nell’intera regione mediorientale. A poco sono servite le rassicurazioni del dipartimento di Stato sul mantenimento da parte di Washington della propria influenza sugli eventi, così come il tentativo di minimizzare l’esclusione dall’iniziativa diplomatica di Mosca.
Tutto ciò che è stato concesso a Washington è stata una telefonata del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al segretario di Stato, John Kerry, per metterlo al corrente dei risultati del vertice nella capitale russa una volta ultimati i lavori.
Le recriminazioni sul ridimensionamento degli USA hanno trovato invece libero sfogo sui giornali d’oltreoceano, soprattutto tra quelli che da tempo chiedono un intervento più deciso nel teatro di guerra siriano.
Al riconoscimento che Assad potrebbe rimanere al suo posto ancora a lungo si sono mescolate le accuse rivolte a Obama per non avere avuto il coraggio di adottare iniziative efficaci volte al rovesciamento del regime di Damasco. A causa di ciò, gli USA si sono ritrovati a svolgere un ruolo da spettatori, mentre il destino della Siria sembra decidersi a Mosca, Teheran e Ankara.
In realtà, il fallimento americano in Siria deriva direttamente dalla decisione deliberata di fomentare una rivolta studiata in buona parte a tavolino e basata su formazioni con tendenze fondamentaliste. I legami quasi del tutto inesistenti di questi gruppi armati con la popolazione siriana e l’implementazione di un’agenda estremista e settaria nelle località strappate al controllo del governo, ancora prima delle bombe russe hanno determinato una più o meno rapida perdita di terreno nel paese, nonostante il massiccio appoggio finanziario e militare garantito dagli stessi Stati Uniti e dai loro alleati nel mondo arabo.
Il progetto americano per la Siria, a causa della sua stessa natura, ha finito poi con l’essere sopraffatto dalle proprie contraddizioni. Ad esempio, il presunto approccio prudente dell’amministrazione Obama, dovuto all’impossibilità di far digerire una nuova guerra totale in Medio Oriente alla popolazione americana, ma anche a una parte dell’apparato militare, è consistito nell’appoggio non solo a formazioni “ribelli” con inclinazioni non esattamente democratiche, ma anche alle milizie curde, a lungo considerate lo strumento più efficace nella guerra all’ISIS/Daesh.
Il ruolo assegnato ai curdi nella crisi in Siria ha creato il panico in Turchia, il cui governo era uno degli sponsor principali dell’opposizione anti-Assad, e ha contribuito al raffreddamento dei rapporti con Washington e alla distensione con Mosca. Il rimescolamento delle priorità strategiche di Erdogan ha poi probabilmente spinto gli Stati Uniti quanto meno ad appoggiare tacitamente il fallito colpo di stato del luglio scorso, attribuito a quegli stessi “gulenisti” che oggi sembrano essere dietro all’omicidio dell’ambasciatore russo Karlov, sventato proprio dalle informazioni sui preparativi comunicate da Mosca ad Ankara.
Al di là delle possibilità di successo della “Dichiarazione di Mosca” e degli eventuali sviluppi delle prossime settimane, le speranze di una qualche stabilizzazione della Siria e del Medio Oriente rimangono comunque fragili se non del tutto illusorie.
Per cominciare, l’allontanamento della Turchia dai suoi alleati NATO prefigura una serie di scosse difficili da sopravvalutare, visto il ruolo svolto per decenni da questo paese nell’Alleanza Atlantica. Il raffreddamento dei rapporti con Ankara e, ancor più, il continuo rafforzamento della posizione della Russia in Medio Oriente non saranno accettati passivamente dagli Stati Uniti, malgrado la retorica del presidente eletto Trump appaia diametralmente opposta a quella di Obama in questo ambito.In generale, quindi, gli sviluppi della crisi siriana osservati a Mosca indicano anch’essi un’accelerazione del processo di integrazione euro-asiatica in atto ormai da tempo, a discapito delle potenze occidentali, prima fra tutte quella americana.
Se questi sviluppi prospettano in linea teorica un’inversione dell’escalation di violenza e distruzione che ha caratterizzato la politica estera degli Stati Uniti, la reazione di questi ultimi al progressivo indebolimento della propria posizione internazionale rende quanto mai precaria ogni previsione ottimistica sul futuro della Siria o di qualsiasi altro paese coinvolto in un conflitto che si intrecci con gli interessi strategici di Washington.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Fabrizio Casari
Come a Nizza, il terrore fatto in casa ha colpito. Alla strage ha fatto seguito, puntuale, la rivendicazione dell'ISIS. Non che vi fossero molti dubbi sulla paternità dell'attentato. Nella dinamica di quanto avvenuto a Berlino ci sono diversi elementi che di forte similitudine con quanto avvenne in Costa Azzurra, a cominciare dalla relativa semplicità con la quale l’attentato è organizzato e realizzato. Non c’è bisogno di una grande preparazione militare per lanciare un camion contro la folla, dunque nemmeno di cellule organizzate e coordinate.
Nella sua barbarie, la relativa semplicità dell’attentato incute dunque un surplus di allarme, perchè se la paternità politica e terroristica è nota, non altrettanto lo sono i possibili lupi solitari in grado di attuare le direttive jahidiste. Il gesto isolato apre infatti scenari inquietanti proprio perché rende la sua prevenzione difficile da organizzare. Ma, come si è visto, il gesto di uno solo non sempre è organizzato in solitudine.
Per quanto Berlino potrebbe apparire come gesto da lupo solitario, la sua realizzazione è stata tutto meno che spontanea. Molto più verosimilmente condivisa - se non ordinata - con l’organizzazione terroristica di riferimento. Assistiamo dunque alla conferma di una modalità operativa con dinamiche diverse da quelle viste a Parigi e Bruxelles. Si conferma la virata verso il ricorso ad unità di kamikaze, piuttosto che di commandos, indicando con ciò una regia militare che lavora ad una riduzione al minimo delle risorse umane ma capace comunque di colpire duro e produrre stragi.
Dovuto forse al ripiegamento militare e finanziario da Siria ed Irak, l’Isis e la sua galassia variamente dispiegata sembrano aver abbandonato la strategia dell’attacco guerrigliero e dello scontro diretto con le forze di sicurezza come avvenne a Parigi. Era quello, probabilmente, un modo di agire legato ad un’altra fase del reclutamento, destinata ad impressionare, a dimostrare come la potenza tecnologica e territoriale del nemico poco può contro la determinazione nel colpire.
Oggi, quando le forze del Califfo sono in ripiegamento, cacciate dalla Siria e dall’Irak, gli attacchi assumono piuttosto una dinamica di retroguardia. Nel primo tipo era l’avanzata militare che forniva alimento e motivazioni alle azioni delle cellule guerrigliere; nel secondo sono le azioni dei singoli che intendono comunicare alle truppe in fuga che, come può, la retroguardia prova a sostenerli.
Ma proprio la complessità di quanto avviene sul terreno mediorientale non deve indurre ad errori di semplificazione eccessiva. Ad Ankara si è trattato di altra storia. Se infatti la data comune potrebbe configurare a prima vista due elementi a sostegno della tesi di una comune regia, non è detto che le cose stiano esattamente così. Il gesto di Berlino è attribuibile all’ISIS, quello di Ankara ha invece origini diverse pur se obiettivi condivisi. Per quanto riguarda Berlino, la similitudine con Nizza e la scelta di rendere i civili obiettivo unico dell’attentato è tipico di una logica che spaccia terrore per terrore, propria di una organizzazione vigliacca, nata per volontà dell’Occidente, giovatasi di migliaia di mercenari sunniti, armata e finanziata dall’Arabia Saudita, ovvero da uno dei regimi più sanguinari ed oscurantisti della storia contemporanea.L’ISIS è stata forte fino a quando non ha trovato una risposta militare adeguata, ovvero quella che Mosca ha deciso di dare entrando nel conflitto a sostegno del governo di Assad. Con l’entrata in campo dei russi da un lato e dai Peshmerga kurdi dall’altro, il cosiddetto stato del Califfo si è dimostrato aggregato contraddittorio e tutt’altro che invincibile. Aver preso in ostaggio la popolazione civile, essersi riparato dietro di essa nella speranza di veder indietreggiare il nemico, è stato l’ultimo dei suoi errori di valutazione politici e militari.
L’attentato di Ankara, invece, disegna una pista parzialmente diversa da quella dell’ISIS. L'obiettivo è un alto funzionario del governo russo, in prima fila nella cacciata degli jihaidisti dalla Siria. L’attentatore era un poliziotto dei reparti antisommossa che, per un periodo di tempo, aveva anche svolto l’incarico di scorta del premier Erdogan.
Islamico, probabilmente deluso dal cambio di rotta le suo governo in merito alla partita siriana, nell’associare la difesa di Aleppo all’assassinio dell’ambasciatore russo ha offerto una sua possibile carta d’identità politica che rimanda al magma di organizzazioni anti-Assad sostenute da Stati Uniti, Francia e Siria.
Il cambio repentino di linea politica da parte di Erdogan nei confronti di Mosca e dunque della Siria, così come l’arrivo di Trump alla Casa Bianca - che potrebbe comportare la sottrazione statunitense dall’appoggio alle guerriglie finanziate e dirette dai sauditi - ha certamente generato la consapevolezza che la partita siriana è finita. Sono iniziati oggi a Mosca i colloqui tra Russia, Iran e Turchia e l’Occidente, che quella guerra ha voluto, non è di scena.
La guerra è finita e Assad non andrà via se non nel quadro di un accordo con Mosca in tal senso e Francia e GB, private del sostegno USA, daranno vita ad un ripiegamento tattico con vista sulla Libia. In questo senso il gesto di Ankara rimanda ad un atto di disperazione, di protesta estrema contro il proprio governo e il suo cambio di linea politica, oltre che verso i russi.
Che Erdogan incolpi Gulen è ovvio: non solo non vuole apparire a Mosca come alleato inaffidabile, anzi ci tiene a dimostrare come la sua nuova collocazione è ribadita pur se comporta costi di natura politica. Inoltre, approfitterà dell’occasione per stringere ulteriormente il cappio al collo del suo paese, dando vita a nuove ondate repressive ed al rafforzamento delle misure liberticide.Quello che certamente può indicare quanto avvenuto a Berlino e ad Ankara è quanto le distinte organizzazioni terroristiche si sentano ormai private dei loro originari riferimenti, di quell’interlocuzione privilegiata con chi li aveva ingaggiati a combattere per ridisegnare la mappa del Medio Oriente in chiave sunnita, con il mondo sciita seppellito sotto il tallone delle monarchie del Golfo, trasformatisi da regimi da operetta in dominus nel ruolo di unica potenza regionale.
La commozione per quanto avvenuto ad Aleppo così come in ogni altra città mediorientale, irakene, libiche e siriane soprattutto, restano eredità vergognosa di chi ha scelto di giocare a domino sulla pelle di 500 milioni di persone. Un Occidente che ha inteso la sovversione continuata di ogni ordinamento politico come strada principale per l’imposizione del suo ed ha provato ad aprire il capitolo della guerra permanente senza avere nemmeno un’idea di come governarne le conseguenze.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nella giornata di lunedì è andata in scena negli Stati Uniti una delle ultime procedure di un complicato processo elettorale che culminerà il 20 gennaio prossimo con l’insediamento alla Casa Bianca del nuovo presidente. La convocazione del cosiddetto Collegio Elettorale in ognuno dei 50 stati americani ha ratificato il voto popolare dello scorso 8 novembre ma, nonostante anche in questa occasione non si siano verificate sorprese, l’evento ha attirato l’attenzione dei media e degli attivisti del Partito Democratico, dal momento che esso era sembrato essere l’ultima opportunità, sia pure in larga misura teorica, di impedire l’installazione di Donald Trump alla presidenza.
Di per sé, già il fatto che una procedura solitamente ignorata dalla stampa e, ancor più, dagli elettori, sia diventata quest’anno oggetto di discussione, se non di scontro, è il sintomo delle scosse al sistema politico americano provocate da un’aspra campagna elettorale e dalla vittoria inaspettata di Trump su Hillary Clinton.
Come è noto, nelle presidenziali americane gli elettori non scelgono direttamente il candidato alla Casa Bianca, bensì i 538 membri del Collegio Elettorale che, suddivisi proporzionalmente secondo la delegazione al Congresso di Washington di ogni singolo stato, dovranno appunto votare materialmente per il nuovo presidente.
Questi “grandi elettori” non sono teoricamente vincolati al risultato delle elezioni nei loro rispettivi stati, anche se alcuni di questi ultimi hanno attuato leggi che impediscono di fare una scelta diversa da quella degli elettori. I giornali americani in questi giorni hanno spiegato però che queste leggi, le quali prevedono una serie di provvedimenti e sanzioni per coloro che si discostano dal voto del loro stato, potrebbero non sopravvivere a un eventuale ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti.
In ogni caso, nelle settimane dopo l’election day si sono diffuse ipotesi di un clamoroso voltafaccia dei membri del Collegio Elettorale o, quanto meno, si sono moltiplicate le iniziative per convincerli a privare Trump della maggioranza necessaria per conquistare ufficialmente la presidenza.
Una petizione on-line ha raccolto ad esempio quasi 5 milioni di firme, mentre il regista Michael Moore ha chiesto ai “grandi elettori” Repubblicani di “votare secondo la loro coscienza”, promettendo loro di pagare personalmente le sanzioni che avrebbero potuto essere applicate per la scelta di un candidato diverso da Trump.
Un membro del Collegio Elettorale in Texas ha invece dichiarato pubblicamente che non avrebbe votato per Trump. Un altro ancora si era dimesso per evitare di votare per un candidato che non riteneva legittimo.
Ancora più significativa è stata però la lettera aperta indirizzata al direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper, da alcune decine di “grandi elettori” per chiedere di essere informati dettagliatamente sulla presunta intrusione di hacker al servizio del governo russo nel processo elettorale americano.
Questa iniziativa, appoggiata anche dal capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, John Podesta, dimostra come le pressioni sul Collegio Elettorale americano derivano per lo più proprio dalle accuse rivolte a Mosca di avere favorito l’elezione di Trump, nonostante di simili azioni non vi sia prova se non nelle dichiarazioni di esponenti dell’intelligence americana.
Clapper ha comunque bocciato la richiesta, a conferma di come anche nel campo anti-Trump ci siano divisioni e molti auspichino prudenza per non mettere in discussione il sistema elettorale americano. Secondo il sito Politico.com, svariati membri Democratici del Collegio Elettorale in stati vinti da Trump erano pronti a cambiare il proprio voto, ma attendevano un segnale da parte di Hillary Clinton, che invece non è mai arrivato.Anche considerando legittima la libertà di scelta dei “grandi elettori”, è singolare che la campagna per cercare di privare Trump della presidenza non si sia basata su fattori ben più importanti e reali. In primo luogo sul fatto che Hillary Clinton ha ottenuto quasi tre milioni di voti in più del suo rivale su scala nazionale.
Poi, sulla costruzione da parte di Trump di un gabinetto ultra-reazionario, composto da figure con inclinazioni chiaramente fasciste e che prefigura la distruzione di ciò che rimane dello stato sociale in America e delle regolamentazioni al business privato.
L’ossessione per il ruolo attribuito alla Russia nel decidere le elezioni americane ha trasformato perciò anche la formalità del voto del Collegio Elettorale per il nuovo presidente in un terreno di scontro sulle scelte strategiche di Washington.
Gli attacchi portati contro Trump da parte dei leader del Partito Democratico vengono cioè in sostanza da destra, visto che non hanno nulla a che vedere con il profilo ultra-reazionario della nascente amministrazione, ma intendono alimentare un clima di scontro con una potenza nucleare per promuovere gli interessi planetari di quelle sezioni dell’establishment USA a cui fanno riferimento.
Se, pure, il tentativo di far cambiare idea ai “grandi elettori” era fin dall’inizio destinato a fallire, come peraltro ben sapevano i vertici Democratici, il vero obiettivo di questa iniziativa, così come più in generale della caccia alle streghe in atto, non era e non è quello di impedire a Trump di insediarsi alla Casa Bianca, quanto piuttosto di rendere complicata se non impossibile una possibile svolta strategica che si risolva in una qualche riconciliazione con Mosca.
L’intenzione del Partito Democratico e degli ambienti di potere che a esso fanno capo non è insomma quella di combattere la presidenza Trump sulla base di un’agenda progressista, bensì tramite la promozione del militarismo e del confronto con quello che viene considerato come il principale rivale strategico degli Stati Uniti.
A livello popolare, al contrario, continua a essere presente una forte opposizione a Trump e al suo progetto politico reazionario. Lunedì si sono tenute infatti manifestazioni di protesta di fronte alle sedi dei parlamenti locali in svariati stati, dove erano riuniti i “grandi elettori”, tutte o quasi all’insegna dell’ostilità per le politiche di estrema destra che il presidente eletto sta mettendo in cantiere.Durante la giornata sono così giunti a poco a poco a Washington i risultati del voto tenuto nei vari stati che hanno confermato l’elezione di Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti. Mentre polemiche e accuse proseguiranno, il prossimo appuntamento sarà il 6 gennaio, quando i membri di Camera e Senato si riuniranno per il conteggio dei voti espressi dal Collegio Elettorale. A presiedere la seduta sarà il vice-presidente uscente e presidente del Senato, Joe Biden, il quale, in assenza di obiezioni, proclamerà ufficialmente l’inizio dell’era Trump negli Stati Uniti.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le tensioni tra Cina e Stati Uniti, che stanno caratterizzando le settimane precedenti l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono intensificate nuovamente nei giorni scorsi dopo la vicenda del drone sottomarino americano requisito dalle forze navali di Pechino. Il nuovo incidente è sembrato avviarsi verso una risoluzione pacifica nel fine settimana, ma ha mostrato il chiaro deterioramento delle relazioni già problematiche tra le due potenze, entrambe impegnate a sfruttare l’episodio per rafforzare le rispettive posizioni.
La marina cinese aveva intercettato il mezzo sottomarino americano venerdì scorso durante un’operazione che gli USA hanno definito di natura scientifica nel Mar Cinese Meridionale. Il ministero della Difesa di Pechino ha affermato che il drone è stato sequestrato per evitare pericoli alla navigazione, per poi invitare gli Stati Uniti a mettere fine alle loro “attività di sorveglianza” in queste acque.
Il drone finito nelle mani cinesi, assieme a un secondo recuperato dagli americani, era operato dalla USNS Bowditch in acque internazionali a circa 50 miglia nautiche a nord-ovest della base filippina di Subic Bay, dove gli USA hanno mantenuto a lungo una propria installazione militare.
Il governo americano ha presentato una protesta formale a quello cinese, sostenendo che quest’ultimo ha agito “illegalmente” nel requisire il drone della propria marina militare. Pechino e Washington hanno però fatto sapere sabato di avere raggiunto un accordo per la restituzione, in maniera “appropriata”, del mezzo sottomarino.
Il governo cinese ha tenuto comunque a denunciare il tentativo degli USA di “amplificare” l’incidente. Da parte americana, è stato il presidente eletto Trump a rilasciare dichiarazioni provocatorie, come al solito attraverso Twitter, invitando ad esempio Pechino a “tenersi” il drone “rubato”.
Le rassicurazioni americane sugli scopi dell’operazione condotta con i due droni non lontano dalle acque rivendicate dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale sono da prendere quanto meno con le molle. Come hanno ricordato anche i media occidentali, per cominciare, l’impiego principale di questi mezzi è infatti quello di sorveglianza.
Questa è d’altra parte l’interpretazione data dal governo cinese alla vicenda, mentre vari analisti hanno rilevato come la mossa decisa da Pechino di impossessarsi del drone americano sia un chiaro messaggio, diretto soprattutto all’amministrazione Repubblicana entrante a Washington, dopo le frizioni seguite alle presidenziali dell’8 novembre scorso.
Bonnie Glaser, del Center for Strategic and International Studies (CSIS) di Washington, ha spiegato che Pechino intende far capire a Trump che “gli USA non possono mettere in discussione gli interessi cruciali cinese senza conseguenze”. Inoltre, l’iniziativa di venerdì non può essere stata presa individualmente da un comandante della marina militare cinese, ma deve avere avuto l’input dai massimi livelli dello stato, visto anche il controllo sempre più stretto sulle forze armate esercitato dal presidente, Xi Jinping.Ad ogni modo, l’incidente sembra essere il primo di questo genere tra USA e Cina e, come già ricordato, si inserisce in un’escalation di provocazioni seguite all’elezione di Trump alla presidenza. In particolare, quest’ultimo aveva accettato una telefonata di congratulazioni della presidente di Taiwan, Tsai-Ing-wen, facendo registrare il primo contatto diretto ad altissimo livello tra i due paesi a partire dal 1979, quando Washington riconobbe ufficialmente quello di Pechino come l’unico solo governo legittimo della Cina.
Trump era poi giunto a mettere in discussione la politica di “una sola Cina”, sposata per quattro decenni da tutte le amministrazioni americane, suscitando la durissima reazione di Pechino. Questa svolta strategica, secondo il neo-presidente, potrebbe essere clamorosamente implementata se non ci saranno concessioni da parte di Pechino su vari fronti, tra cui quello commerciale, della svalutazione della valuta cinese o della “militarizzazione” del Mar Cinese.
Il governo del Partito Comunista ha immediatamente ricordato come Taiwan e la sovranità cinese siano questioni di importanza assoluta per il regime e la loro messa in discussione minacci la stabilità dei rapporti con gli USA, ma anche della stessa regione asiatica e del Pacifico, se non dell’intero pianeta.
Gli scambi di accuse e le provocazioni americane sembrano essere anche tentativi di assestare le rispettive posizioni in vista della transizione alla Casa Bianca, con un’amministrazione che prospetta l’implementazione di misure ancora più rigide nei confronti di Pechino rispetto all’amministrazione Obama.
A Pechino, il messaggio è stato indubbiamente recepito e sugli organi di stampa ufficiali non sono mancati ad esempio gli appelli a un’accelerazione delle capacità militari della Cina, così da rispondere adeguatamente alle provocazioni o a eventuali attacchi da parte americana.
Proprio qualche giorno fa era apparsa sulla stampa occidentale una rivelazione sull’installazione da parte cinese di nuovi impianti militari anti-aerei sulle isole Spratly, situate nel Mar Cinese Meridionale e controllate da Pechino ma rivendicate anche da Filippine, Vietnam, Malaysia e Brunei.
Il governo cinese non ha smentito la notizia e ha anzi definito “legittime” le azioni intraprese in un territorio su cui proclama la propria sovranità in maniera incontestabile. Soprattutto, il rafforzamento delle strutture militari è stata definita necessaria dal ministero della Difesa cinese, alla luce della “arroganza” degli Stati Uniti, protagonisti negli ultimi quattordici mesi di almeno tre operazioni di pattugliamento nelle acque rivendicate dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale.Che la rivalità tra USA e Cina possa scivolare ben oltre i livelli di guardia già nei prossimi mesi, a causa di fattori oggettivi legati al declino economico statunitense e all’agenda nazionalista dell’amministrazione Trump, è apparso chiaro infine anche dalle parole del presidente uscente Obama in una recente conferenza stampa incentrata sulla presunta interferenza russa nel processo elettorale americano.
Malgrado la prudenza che aveva sempre caratterizzato a livello formale l’amministrazione Democratica sulle questioni riguardanti gli interessi cruciali cinesi, Obama ha lasciato intendere che le posizioni di Trump sulla politica di “una sola Cina” non vanno respinte del tutto, poiché in questo frangente è necessario una sorta di ripensamento della politica estera USA.
Allo stesso tempo, Obama ha avvertito però che qualsiasi mossa provocatoria in questo senso dovrà essere valutata con estrema attenzione, visto che implicherebbe la messa in discussione dell’identità e dei cardini della sicurezza cinese, provocando inevitabilmente, da parte di Pechino, reazioni “molto significative”.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Con la ormai quasi definitiva riconquista della città di Aleppo da parte delle forze armate governative siriane, appoggiate da Russia, Iran e Hezbollah, il conflitto nel paese mediorientale potrebbe far segnare una svolta significativa, anche se la fine delle ostilità non sembra ancora essere all’orizzonte. A decretare la fine delle operazioni belliche in quella che era la capitale commerciale della Siria potrebbe essere un accordo ancora in bilico, negoziato dai governi di Russia e Turchia, per favorire l’evacuazione dei “ribelli” sotto assedio rimasti nella parte orientale della città e di un certo numero di civili.
Il piano di evacuazione avrebbe dovuto scattare nella prima mattinata di mercoledì, ma nelle stesse ore sono ricominciati i bombardamenti sulla città. Prevedibilmente, le due parti coinvolte nel conflitto hanno dato resoconti differenti della situazione. La Turchia, uno dei principali sponsor di alcune fazioni armate anti-Assad, ha accusato il governo di avere rotto la tregua, mentre la televisione di stato siriana ha parlato di bombardamenti da parte dei “ribelli” che avrebbero fatto svariate vittime.
Fonti dell’opposizione hanno affermato che il cessate fuoco è saltato dopo che l’Iran ha avanzato nuove condizioni, come la restituzione dei resti dei soldati della Repubblica Islamica caduti ad Aleppo e la liberazione degli ostaggi iraniani nelle mani dei ribelli a Idlib.
Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la resistenza delle residue forze di opposizione ad Aleppo non dovrebbe comunque durare più di “due o tre giorni”, dal momento che esse controllano ormai una piccola enclave di non più di 2,5 chilometri quadrati. La Reuters ha inoltre citato una rete televisiva vicina all’opposizione, la quale ha sostenuto che l’evacuazione potrebbe iniziare già nella giornata di giovedì.
Il ritorno di Aleppo nelle mani del regime di Assad dopo quasi sei anni di guerra rappresenta una gravissima sconfitta non solo per i “ribelli” che ne avevano il controllo, ma anche per gli Stati Uniti, l’Europa, la stessa Turchia e le monarchie assolute sunnite del Golfo Persico. Tutti questi governi hanno investito miliardi di dollari e fornito ingenti quantità di armi per sostenere forze in larga misura fondamentaliste ed estranee alla Siria per rovesciare un regime alleato con Teheran e Mosca.
Proprio gli effetti dell’evolversi della situazione ad Aleppo, nonché i possibili riflessi sull’intero conflitto siriano, si sono fatti sentire nei giorni scorsi, ad esempio sulla transizione politica in atto negli USA. Il timore di perdere definitivamente le forze anti-Assad ha contribuito a spingere una parte dell’apparato politico, mediatico e dell’intelligence ad accusare la Russia di avere interferito nel processo elettorale americano a favore di Donald Trump.
L’ingresso di quest’ultimo alla Casa Bianca prospetta infatti un riallineamento strategico di Washington in Medio Oriente, viste le promesse del presidente eletto di lavorare con il Cremlino per sconfiggere il terrorismo, a cominciare dalla Siria.Frustrazioni e recriminazioni per una guerra che minaccia il disastro per l’opposizione anti-Assad e i loro sponsor si sono manifestate anche nel corso di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Qui, vari governi occidentali hanno denunciato per l’ennesima volta i crimini di Mosca e Damasco, trascurando ovviamente il fatto che proprio su di loro e i loro alleati mediorientali ricade la piena responsabilità della devastazione della Siria.
L’ambasciatrice americana all’ONU, Samantha Power, professionista delle “guerre umanitarie”, ha avuto parole particolarmente dure per il governo russo, collegando quanto sta accadendo ad Aleppo con alcuni dei massacri più cruenti degli ultimi decenni, da Srebrenica al Ruanda.
Nessuna parola è stata spesa invece per le atrocità commesse dagli stessi “ribelli” siriani quando conquistarono Aleppo est nel 2012, né tantomeno per gli episodi e le guerre rovinose che hanno visti protagonisti gli USA, dall’Iraq alla Libia.
Significativamente, gli Stati Uniti sembrano non avere avuto nessun ruolo nel raggiungimento dell’accordo sull’evacuazione di Aleppo. Washington aveva d’altra parte fatto saltare le precedenti tregue negoziate con la Russia, tra cui quella del mese di settembre dopo il bombardamento probabilmente deliberato contro una base militare siriana nella località di Deir ez-Zor.
La fine dei massacri in Siria è comunque ancora lontana, nonostante le sofferenze degli abitanti di Aleppo saranno alleviate con l’uscita di scena dei “ribelli”. Uno dei principali finanziatori di questi ultimi, il regime del Qatar, tramite il ministro degli Esteri, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha avvisato che la riconquista di Aleppo da parte del governo siriano non significa in nessun modo la fine della guerra.
L’intenzione delle monarchie del Golfo, così come degli Stati Uniti, per lo meno nelle settimane che restano a Obama, è perciò quella di intensificare i loro sforzi per sostenere l’opposizione armata in Siria, nonostante le aree che i vari gruppi che la compongono continuino a restringersi.
L’amministrazione Obama, impegnata disperatamente a salvare ciò che resta dei gruppi “ribelli” sotto la protezione americana prima dell’insediamento di Trump, ha da poco autorizzato l’invio di altri 200 uomini delle forze speciali in Siria, che andranno ad aggiungersi ai 300 ufficialmente già presenti.
Lo stesso presidente uscente settimana scorsa aveva inoltre dato il via libera alla fornitura di armi a gruppi non meglio identificati in Siria. A questa iniziativa ha fatto riferimento il presidente siriano Assad in una recente intervista al network russo RT, collegandola al nuovo ingresso nella città patrimonio dell’umanità di Palmira dello Stato Islamico (ISIS/Daesh).La riconquista di Aleppo consentirebbe ad ogni modo al regime di Damasco di tornare a controllare tutti i principali centri urbani del paese. Oltre a questa città, le forze governative hanno in mano la capitale, Homs, Hama, la gran parte della zona di confine col Libano e l’area costiera affacciata sul Mediterraneo.
Da questa posizione di forza, secondo molti Assad potrebbe diventare addirittura un interlocutore dell’amministrazione Trump nella lotta al terrorismo in Siria, malgrado le fortissime resistenze all’interno della classe dirigente americana.
Quest’ultima ipotesi ha preso ancora più consistenza questa settimana in seguito alla nomina a segretario di Stato dell’amministratore delegato di ExxonMobil, Rex Tillerson, considerato molto vicino al presidente russo Putin.