di Michele Paris

Le conseguenze della disastrosa incursione condotta in Yemen il 29 gennaio scorso dalle forze speciali americane continuano a farsi sentire dopo che il governo del paese mediorientale in guerra ha fatto sapere di avere preso provvedimenti per limitare quanto meno i danni di immagine derivanti dalle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti.

Martedì, i giornali americani avevano riportato la notizia del ritiro da parte del governo yemenita del permesso, concesso agli USA, di condurre operazioni militari di terra sul proprio territorio per dare la caccia a presunti terroristi. Qualche ora più tardi, però, è arrivata la smentita parziale da parte delle stesse autorità dello Yemen.

Come ha scritto la Reuters dopo avere raccolto dichiarazioni da fonti locali, il governo riconosciuto internazionalmente avrebbe soltanto espresso a Washington le proprie “riserve” in merito al più recente blitz e chiesto “maggiore coordinazione con le autorità yemenite” nel rispetto della sovranità del paese. L’autorizzazione per le future operazioni non sarebbe stata dunque revocata.

La presa di posizione del governo dello Yemen, anche se dettata da ragioni di opportunità, è estremamente significativa. Se in apparenza la risposta al raid di dieci giorni fa potrebbe sembrare fin troppo cauta, essa va collegata alla natura di un esecutivo che conserva la propria legittimità internazionale proprio grazie al sostegno di Stati Uniti e Arabia Saudita, impegnati in un conflitto sanguinoso contro i “ribelli” sciiti Houthi che avevano di fatto preso il potere nella primavera del 2015.

Anche nel quadro del totale servilismo dovuto a Washington dal governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi, gli esponenti di quest’ultimo si sono sentiti costretti a rilasciare una qualche dichiarazione critica nei confronti degli USA, vista la precaria situazione interna. Infatti, operazioni come quella del 29 gennaio non fanno che aggravare l’avversione della popolazione yemenita nei confronti degli Stati Uniti, rendendo ancora più complicata la posizione di un governo che controlla oltretutto solo una parte del paese nella penisola arabica.

L’incursione, in preparazione da almeno due mesi, è stata la prima autorizzata dalla nuova amministrazione Trump. Il neo-presidente aveva dato il via libera senza indugi all’operazione, verosimilmente dopo avere ricevuto le necessarie rassicurazioni da parte del Pentagono, ma l’esito è stato catastrofico su tutti i fronti. Se anche Trump avesse nutrito qualche dubbio, ciò che ha prevalso è stata comunque la necessità di mandare un messaggio di fiducia ai vertici militari a pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca.

A nulla, se non ad aumentare l’imbarazzo, sono servite le dichiarazioni al limite del ridicolo dello stesso Trump e del suo portavoce, Sean Spicer, sul “completo successo” dell’operazione. La Casa Bianca, dopo il fiasco, ha provato a far credere che l’incursione aveva come obiettivo la semplice “raccolta di informazioni” sull’organizzazione terroristica al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP).

Le sole modalità del blitz e le massicce forze impiegate smentiscono però clamorosamente questa versione. A partecipare alle operazioni vi erano decine di uomini agli ordini del Comando Centrale, responsabile delle forze armate USA in Medio Oriente, e di quello delle Forze Speciali, ma anche agenti della CIA e delle forze speciali degli Emirati Arabi Uniti. A sostegno di essi, si contavano inoltre elicotteri, aerei, droni e una nave da guerra al largo della costa yemenita.

L’obiettivo reale dell’operazione è stato con ogni probabilità rivelato qualche giorno fa dalla NBC ed era cioè il numero uno di AQAP, Qassim al-Raymi, considerato dagli Stati Uniti il terzo terrorista più pericoloso del pianeta. Il leader di al-Qaeda non è però finito tra le vittime del raid, essendo forse riuscito a fuggire grazie a una soffiata prima dell’operazione o, semplicemente, le informazioni sulla sua presenza nel villaggio preso di mira erano sbagliate.

Il colossale fallimento dell’operazione è costato un numero imprecisato di vittime civili. Alcune stime parlano di oltre 30 morti in totale, mentre per altri sarebbero state poco meno di 60. Tra di essi ci sono anche donne e almeno sette bambini, inclusa Nawar al-Awlaki, la figlia di otto anni di Anwar al-Awlaki, il predicatore di nazionalità americana ucciso su ordine di Obama sempre in Yemen da un drone nel settembre del 2011.

Un paio di settimane dopo l’assassinio di Awlaki, un'altra incursione con un drone USA aveva ucciso anche il figlio16enne di quest’ultimo. A descrivere l’agonia della figlia di Awlaki è stato il nonno, il quale ha raccontato di come la bambina sia stata colpita al collo da un proiettile e sia morta dissanguata in meno di due ore.

Com’è pratica comune per i vertici militari americani, inizialmente era stata smentita l’esistenza di vittime civili. Solo dopo l’apparizione in rete di immagini raccapriccianti e la diffusione dei resoconti dell’accaduto da parte dei sopravvissuti, il Pentagono ha fatto una parziale rettifica. Almeno un certo numero di donne uccise sono state tuttavia giudicate obiettivi legittimi, in quanto presunte sostenitrici di al-Qaeda. Dei bambini trucidati non è stata data invece nessuna indicazione sul loro possibile ruolo nell’organizzazione fondamentalista.

Secondo alcune ricostruzioni dei fatti accaduti la sera del 29 gennaio nel villaggio di Yakla, nella provincia di Bayda, i membri del commando americano sarebbero stati scoperti subito dopo l’inizio dell’operazione, forse grazie a una soffiata o, addirittura, in seguito all’abbaiare di un cane. Visto il bilancio delle vittime e l’elevato numero di civili tra di esse, è probabile che i militari abbiano a quel punto sparato a tutto ciò che si muoveva.

Nel conflitto a fuoco è rimasto ucciso anche il “SEAL” americano, William Owens, e proprio il suo decesso ha senza dubbio contribuito in maniera decisiva a portare la vicenda all’attenzione della stampa. Non solo, anche un elicottero MV-22 Osprey è stato danneggiato e in seguito distrutto da velivoli militari americani appositamente inviati.

I punti oscuri del raid restano numerosi. Il leader di AQAP, in un messaggio diffuso dopo l’attacco, ha ammesso che tra le vittime c’erano 14 suoi uomini. Secondo la testata on-line Middle East Eye, invece, molte testimonianze raccolte nel villaggio hanno smentito la presenza di guerriglieri di al-Qaeda. Piuttosto, gli appartenenti ai clan locali avrebbero preso le armi, ampiamente diffuse in Yemen, e iniziato a sparare contro il commando americano dopo che i soldati avevano fatto irruzione nelle abitazioni uccidendone gli occupanti, incluse donne e bambini.

Per altri, ancora, il disastro dell’operazione dimostrerebbe la profonda ignoranza americana della realtà dello Yemen o, peggio ancora, la più o meno deliberata intenzione di fomentare odio ed estremismo, forse per alimentare una minaccia terroristica che consente a Washington di perpetuare la propria presenza militare in aree strategicamente rilevanti del pianeta, come la penisola arabica.

A Yakla, infatti, non vi era probabilmente nessuna base qaedista ma, in un intreccio tribale e di interessi locali difficile da sciogliere, forse soltanto famiglie o gruppi di individui che talvolta stabiliscono alleanza temporanee con al-Qaeda o formazioni armate vicine ad essa.

Singolarmente, almeno in apparenza, questi gruppi sono spesso sostenuti finanziariamente e militarmente dall’Arabia Saudita, il cui regime li recluta per combattere i “ribelli” Houthi. A conferma di ciò, sempre l’indagine di Middle East Eye ha citato testimoni che assicurano come nell’operazione americana siano morti almeno tre leader tribali di spicco che facevano parte di un gruppo di combattenti impegnato contro gli Houthi e, quindi, di fatto a fianco dei sauditi.

A complicare il quadro c’è infine anche il fatto che al-Qaeda nella Penisola Arabica, ufficialmente obiettivo numero uno dell’anti-terrorismo USA, ha notevolmente allargato il territorio sotto il proprio controllo in Yemen grazie alla guerra scatenata da Riyadh con l’appoggio americano, dopo che in precedenza svariate analisi avevano giudicato ormai quasi irrilevante l’influenza dell’organizzazione nel paese.

Nonostante tutti i dettagli dell’incursione americana siano ben lontani dall’essere noti, quanto è accaduto in Yemen è un ulteriore esempio della criminalità e del disinteresse per le vite umane e la stabilità di paesi sovrani con cui il governo e i militari degli Stati Uniti conducono i propri affari internazionali.

Inoltre, con l’autorizzazione al massacro del 29 gennaio, il neo-presidente Trump ha confermato la sua intenzione di raccogliere la sanguinosa eredità di Obama in questo paese, già teatro di precedenti incursioni di terra finite in tragedia, di un’incessante campagna condotta con i droni che continua a mietere vittime civili e di una guerra cruenta per ristabilire l’autorità di un governo-fantoccio che salvaguardi gli interessi nella regione degli Stati Uniti e del regime saudita.

di Mario Lombardo

Con il lancio delle campagne elettorali di tre probabili protagonisti delle elezioni presidenziali francesi, in programma tra i mesi di aprile e maggio prossimi, la corsa alla successione a François Hollande all’Eliseo è di fatto partita ufficialmente lo scorso fine settimana. L’estrema impopolarità del presidente uscente, i riflessi dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il discredito dei tradizionali partiti borghesi e la quasi totale assenza di un candidato in grado di rappresentare lavoratori e classe media rendono l’atmosfera esplosiva, con la concreta possibilità che a beneficiarne sia uno degli “outsider”, a cominciare dalla numero uno del Fronte Nazionale (FN), Marine Le Pen.

La candidata di estrema destra ha chiuso domenica una due giorni del suo partito a Lione, durante la quale aveva denunciato le “tirannie” della globalizzazione, dell’Unione Europea e del fondamentalismo islamico. Ricorrendo alla consueta strategia populista della destra estrema e sfruttando il vuoto quasi totale a sinistra, la Le Pen è stata in grado di proporsi come l’unico candidato “del popolo”.

Nel suo discorso ha poi evitato accuratamente qualsiasi analisi di classe della realtà economica e sociale odierna in Francia, per presentare un quadro profondamente fuorviante caratterizzato, a suo dire, da una “divisione non più tra destra e sinistra”, cioè tra diversi interessi di classe, bensì “tra patriottismo e globalizzazione”.

Le difficoltà dei francesi comuni, per la Le Pen, sarebbero perciò dovute al fatto che essi “sono stati privati del loro patriottismo” e soffrono dunque “in silenzio perché non è permesso loro di amare il proprio paese”. I toni apocalittici di una Francia che ha perso la propria libertà e identità di fronte all’offensiva dell’Islam e del capitalismo internazionale, ma non di quello indigeno, serve in sostanza a dirottare in senso ultra-nazionalista e xenofobo le frustrazioni più che legittime di decine di milioni di francesi abbandonati dalla sinistra.

In uno scenario dominato da austerity, precarietà e disoccupazione, nonché da un Partito Socialista che ha fatto registrare un’ulteriore drammatica deriva neo-liberista durante il mandato di Hollande, la piattaforma del “Front National”, che include misure come l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento della spesa per il welfare o l’accesso gratuito all’educazione per i francesi non può che incontrare un certo consenso. Lo stesso vale anche per l’uscita dall’euro e dall’Unione Europea, in cima al programma politico della Le Pen.

I sondaggi di opinione più recenti in Francia danno Marine Le Pen come probabile vincitrice del primo turno delle presidenziali, davanti all’ex banchiere ed ex ministro Socialista ora “indipendente”, Emmanuel Macron, largamente in vantaggio invece in un ipotetico ballottaggio. Anche Macron ha inaugurato ufficialmente la sua campagna a Lione nel corso del fine settimana.

Dopo avere abbandonato il Partito Socialista (PS) la scorsa estate, il 39enne Macron aveva lanciato la propria candidatura all’Eliseo sfruttando la sua immagine di giovane vincente, modernizzatore e progressista sulle questioni sociali, in modo da mascherare un impopolare progetto ultra-liberista in ambito economico.

I suoi riferimenti sono l’alta borghesia francese che vede con orrore l’approdo di Trump alla Casa Bianca e che, per salvaguardare i propri interessi, auspica il mantenimento del ruolo strategico della NATO, la sopravvivenza dell’UE e il rilancio della partnership con Washington e Berlino. A favore della sua candidatura si sono inoltre già espressi in molti in un PS a rischio spaccatura, soprattutto tra coloro che, nella destra di questo partito, ritengono di dover reagire alla crisi che sta attraversando liberandosi anche formalmente della retorica e dell’immagine esteriore progressista per abbracciare senza riserve i “valori” del mercato.

Comprensibilmente, sul fronte economico Macron ha finora evitato di entrare nei particolari del suo programma, mentre in politica estera ha ricalcato le posizioni della destra Socialista, basate sul militarismo e la demonizzazione di paesi come Russia o Iran.

I progressi di Macron evidenziati nelle ultime settimane dai sondaggi sono dovuti in primo luogo al tracollo del candidato della destra gollista del partito “Les Républicaines” (“I Repubblicani”), François Fillon. Dopo le primarie, l’ex primo ministro sembrava dover essere il favorito assoluto per l’Eliseo, ma un recente scandalo sembra essere sul punto di affondarne la candidatura.

Un giornale satirico francese aveva rivelato come la moglie di nazionalità britannica era stata pagata complessivamente circa un milione di euro per impieghi di assistente parlamentare che non avrebbe invece mai svolto. Negli ultimi giorni, il caso si è addirittura aggravato e i primi interrogatori dei coniugi hanno inoltre evidenziato varie contraddizioni.

Le voci all’interno de "I Repubblicani" che chiedono un passo indietro di Fillon iniziano ormai a farsi sentire, anche se quest’ultimo ha per ora escluso l’abbandono della corsa e ha anzi annunciato l’intenzione di rilanciare la sua campagna.

Se la vicenda in cui è invischiato Fillon è effettivamente grave, non si può evitare di far notare come essa sia emersa subito dopo una sua visita in Germania, durante la quale aveva rilasciato interviste ampiamente riportate in tutta Europa proponendo, tra l’altro, una sorta di asse tra Parigi, Berlino e Mosca in risposta alle tendenze ultra-nazionalistiche del neo presidente americano Trump.

Per quanto riguarda i candidati di “sinistra” all’Eliseo, quello del Partito Socialista, Benoît Hamon, sembra avere già perso anche la minuscola spinta del successo inaspettato nelle primarie sull’ex primo ministro, Manuel Valls. Hamon, appartenente alla “fronda” anti-Hollande del suo partito, dovrebbe contendere a Jean-Luc Mélenchon del Partito di Sinistra (PG) il quarto posto nel primo turno delle presidenziali.

Anche Mélenchon ha lanciato la sua campagna domenica scorsa apparendo in collegamento da Parigi a un evento organizzato a Lione. Pur attaccando le iniziative anti-sociali dei governi nominati dal presidente uscente, Mélenchon ha lasciato intendere di essere disponibile a un accordo elettorale con Hamon nel tentativo disperato di portare un candidato della “sinistra” francese al secondo turno.

La situazione a poche settimane dal voto resta dunque estremamente fluida, così da alimentare i timori di quanti temono un risultato che potrebbe avere conseguenze rovinose sulle già precarie istituzioni europee che hanno garantito la stabilità del capitalismo occidentale a partire dal secondo dopoguerra.

Scorrendo i giornali francesi e non solo, si ricava l’impressione che il fronte anti-Le Pen, che fino al recente passato aveva tenuto lontano dagli incarichi di potere che contano l’estrema destra neo-fascista, potrebbe non essere sufficiente in questa occasione. I sondaggi che indicano una comoda vittoria di Macron o Fillon su Marine Le Pen sembrano essere infatti poco confortanti, alla luce sia degli abbagli presi da simili rilevazioni in molte competizioni elettorali nei mesi scorsi sia della difficoltà nel prevedere la direzione che prenderà il massiccio voto di protesta.

Macron, Fillon o lo stesso Hamon, nel caso uno dei tre dovesse confrontarsi al secondo turno con la leader dell’FN, avrebbero tutti dei fortissimi handicap che potrebbero far pendere l’ago della bilancia a favore della candidata di estrema destra. Il primo, malgrado i favori della stampa e di buona parte della classe dirigente d’oltralpe, presenta grossi limiti di popolarità dovuti in primo luogo al suo passato di banchiere d’investimenti e a un’agenda economica di stampo liberista.

Fillon, da parte sua, è su posizioni simili se non ancora più estreme in ambito economico, mentre la vicenda dei compensi alla moglie continuerà a perseguitarlo, se pure dovesse riuscire a salvare la propria campagna elettorale.

Hamon, infine, anche nel caso si qualificasse miracolosamente per il secondo turno, sarà associato al super-impopolare Hollande e, ad ogni modo, molto difficilmente riuscirà a dirottare su di sé il voto degli elettori di destra e centro-destra che vedono oggi il Fronte Nazionale in una luce molto meno minacciosa rispetto a qualche anno fa.

di Michele Paris

Le proteste più massicce dalla fine del regime stalinista di Ceausescu, che animano da giorni le principali città della Romania, potrebbero proseguire anche nel prossimo futuro nonostante la decisione presa domenica dal governo Social Democratico di ritirare un decreto di emergenza che prospettava una sorta di amnistia per i politici corrotti del paese balcanico. Il provvedimento, assieme al discredito della classe politica romena, ha spinto oltre mezzo milione di persone nelle strade a partire da mercoledì scorso per manifestare contro un gabinetto formato poche settimane fa in seguito a quella che era apparsa a tutti gli effetti come una netta vittoria nelle elezioni parlamentari di dicembre del Partito Social Democratico (PSD).

Il rapido mutare delle fortune dei governi romeni non è d’altra parte cosa nuova. Sempre i Social Democratici erano stati bersaglio di proteste popolari già nel corso del 2015, quando, nel mese di novembre, l’allora primo ministro Victor Ponta era stato costretto alle dimissioni. In quel caso, le accuse di corruzione si erano saldate alla rabbia dovuta a un incendio scoppiato in una discoteca di Bucarest, nel quale erano morte 64 persone.

Se le proteste rappresentavano e rappresentano in buona parte uno sfogo genuino contro il degrado della politica in Romania e le condizioni di vita della maggior parte della popolazione, sia quelle del 2015 sia quelle attualmente in atto sono state sfruttate dall’Occidente e da determinare fazioni della classe dirigente indigena per regolare i propri conti.

In seguito alle dimissioni di Ponta, il presidente romeno filo-tedesco Klaus Iohannis, membro del Partito Nazionale Liberale (PNL) di centro-destra prima di diventare “indipendente”, aveva nominato a capo di un governo tecnico l’ex commissario europeo Dacian Ciolos. Dopo appena un anno, le dure politiche di austerity implementate da quest’ultimo avevano però riconsegnato la maggioranza al PSD.

Il nuovo esecutivo è guidato ora dal primo ministro Sorin Grindeanu, dal momento che il leader del partito, Liviu Dragnea, risulta ineleggibile a causa di una condanna per frode elettorale, mentre deve far fronte anche a ulteriori accuse per abuso di potere. Dragnea sarebbe stato perciò uno dei principali beneficiari del provvedimento presentato martedì scorso dal governo. Tra le misure da esso previste vi erano l’amnistia per sentenze inferiori ai cinque anni, anche se solo per certi crimini, e la depenalizzazione di alcune forme di corruzione nel caso le somme passate di mano fossero state inferiori a circa 44 mila euro.

I leader delle proteste hanno comunque promesso di continuare la mobilitazione. I timori riguardano la possibilità che alcune delle misure previste dal decreto, ritirato dal governo nella serata di domenica, possano rientrare in un disegno di legge da presentare al parlamento, dove la coalizione tra il PSD e l’Alleanza dei Liberali e dei Democratici (ALDE) di centro-destra detiene la maggioranza. Secondo alcuni, l’obiettivo dei manifestanti potrebbe anche essere la caduta del governo Social Democratico di Grindeanu.

Il primo ministro, per cercare di limitare i danni ha chiesto un rapporto al ministro della Giustizia, Florin Iordache, sulla gestione della vicenda relativa al decreto sull’amnistia, in previsione di un possibile allontanamento di quest’ultimo dal governo.

I casi di corruzione che coinvolgono personalità politiche, anche di spicco, sono numerosissimi in Romania e riguardano praticamente tutti i principali partiti. Fin dal 2002 è stata creata una speciale Direzione Nazionale Anti-Corruzione (DNA) che negli ultimi anni ha incrementato notevolmente la propria attività, tanto che oggi si contano procedimenti aperti a carico di oltre duemila politici.

In uno scenario simile, era inevitabile e legittimo che una legge come quella avanzata dal governo settimana scorsa venisse accolta con rabbia dalla gran parte della popolazione romena. Dietro alle proteste e allo scontro politico sul decreto in questione vi è però anche un’aspra lotta di potere, all’interno della quale la crociata anti-corruzione è stata frequentemente usata come arma politica.

Se il leader del PSD Dragnea ha prevedibilmente accusato i manifestanti di essere manipolati e “organizzati in maniera professionale” per colpire il governo guidato dal suo partito, in un’intervista alla televisione romena, riportata dall’agenzia di stampa locale Agerpres, ha anche collegato gli eventi degli ultimi giorni nel paese all’evolversi del quadro internazionale.

Dragnea ha fatto una serie di riferimenti obliqui, citando “la situazione complicata in Moldavia”, ma anche “il contesto europeo e internazionale” dopo “l’elezione del nuovo presidente americano”. In effetti, il calcolo politico immediato dell’opposizione di centro-destra ha indubbiamente influito sulle proteste, come conferma ad esempio la partecipazione del presidente Iohannis a una delle prime manifestazioni anti-governative lo scorso mese di gennaio.

In gioco ci sono però anche gli equilibri strategici in Europa orientale nella competizione tra Stati Uniti, Unione Europea – in prima linea nel condannare l’iniziativa del governo di Bucarest – e Russia in una fase di transizione tra un’amministrazione Obama ferocemente anti-russa e il nuovo governo di Donald Trump che sembra intenzionato a ristabilire rapporti più distesi con Mosca a discapito di quelli con Bruxelles.

Una parte della classe dirigente americana e di quella europea teme inoltre che anche in Romania si possa insediare un governo meglio disposto verso la Russia, come già accaduto, sia pure con gradazioni diverse da caso a caso, in Ungheria, Slovacchia o Repubblica Ceca.

I Social Democratici romeni sono stati in realtà fedeli esecutori delle direttive europee e americane dopo la caduta del regime stalinista, nonché sostenitori della NATO. Ciononostante, i partiti “post-comunisti” in Europa orientale continuano a essere visti con un qualche sospetto nelle cancellerie occidentali, perché esposti presumibilmente all’influenza di Mosca e, quindi, potenzialmente pronti a farsi carico di un’eventuale svolta strategica se le circostanze internazionali lo richiedessero.

Ciò è precisamente quanto sta accadendo nella vicina Bulgaria, dove lo scorso mese di novembre un candidato “indipendente” sostenuto dal Partito Socialista ha vinto le elezioni presidenziali promettendo un riavvicinamento alla Russia. A marzo, inoltre, si voterà anticipatamente per il rinnovo del parlamento di Sofia con i Socialisti favoriti per riconquistare la maggioranza.

L’elezione di Trump ha poi complicato il quadro, con le prime avvisaglie di un conflitto tra USA e Germania già più che evidenti. I leader del PSD romeno, da parte loro, fin dall’approdo di Trump alla Casa Bianca hanno cercato di entrare nelle grazie del nuovo presidente americano, provocando i malumori del presidente Iohannis e degli ambienti di potere legati a Berlino e a Bruxelles.

Per quanto riguarda infine la lotta alla corruzione in Romania, condotta dall’apposita Direzione Nazionale e minacciata dal decreto del governo Grindeanu, l’operato di questa agenzia è messo in discussione da molti e non solo tra i membri del partito – il PSD, appunto – che conta finora il maggior numero di indagati e condannati.

La DNA opera infatti a stretto contatto con i servizi segreti romeni (SRI), suscitando i sospetti di quanti attribuiscono a questi ultimi la manipolazione delle accuse di corruzione a fini politici. Questi timori erano stati sollevati ad esempio in un approfondimento pubblicato dalla testata online Politico.eu già nell’aprile del 2016.

L’articolo, pur elogiando gli sforzi per combattere la corruzione fatti dalla Romania, ammetteva come in molti nel paese balcanico percepivano l’esistenza di uno “stato parallelo legato alla struttura della Securitate” che muove tuttora i fili della politica dietro le quinte. Ciò appariva tanto più preoccupante alla luce dell’importanza “cruciale” dell’intelligence per il successo della DNA.

Viste le implicazioni della vicenda che sta interessando la Romania, dunque, è facile prevedere che la crisi politica non si chiuderà tanto facilmente, anche nel caso il governo Social Democratico dovesse riuscire a contenere le proteste e a evitare clamorose dimissioni ad appena un mese dal proprio insediamento.

di Fabrizio Casari

Freedom House, assai nota ma poco conosciuta organizzazione statunitense, ha diramato nei giorni scorsi un rapporto sul Nicaragua che lascia esterrefatti. Disegnato sulla base di uno schema politico precostituito, aggressivo ed antigovernativo, il rapporto si limita a copiare quanto l’ultra destra nicaraguense afferma da tempo: ovvero che in Nicaragua la democrazia starebbe indietreggiando e che il recente risultato elettorale sarebbe stato falsato dal Frente Sandinista.

Il fatto che gli organismi internazionali indipendenti di controllo e valutazione del voto abbiano certificato il regolare svolgimento delle operazioni di voto, che l’astensione certificata sia stata del 37 per cento e che lo spoglio abbia indicato la vittoria sandinista con il 72,5 per cento dei voti, risulta indifferente per Freedom House. Lo stesso riconoscimento di legittimità fornito dall’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), della quale gli stessi USA sono parte, non sembra inculcare il seme del dubbio nell’organizzazione diretta dalla destra statunitense che ama travestirsi da ONG.

Destra che, del resto, si guarda bene anche dal riconoscere quello che è palese a tutti gli osservatori nicaraguensi e internazionali: la mancata presentazione della lista del MRS non è una protesta contro il sandinismo, si spiega con le proiezioni che gli istituti demoscopici gli assegnavano, ovvero una poco gloriosa percentuale tra il 2 e il 3 per cento dei voti.

Che Freedom House corra in aiuto al MRS non deve stupire: con le vergognose processioni a Washington e Miami per ottenere il voto sul Nica Act, provvedimento di natura tardo-coloniale con il quale si vorrebbe imporre al Nicaragua l’obbedienza alla destra statunitense, l’MRS si è guadagnato sul campo l’iscrizione al club di William Walker. Contano ora sul nuovo staff del Dipartimento di Stato che si occuperà di America Latina; i nomi indicano un combinato disposto di ex terroristi (come Otto Reich) ed agenti CIA direttamente impegnati nelle strategie golpiste statunitensi nel continente.

La speranza della destra nicaraguense è che un simile staff possa spingere Trump ad una posizione bellicista contro Managua e a questo fine è destinata la strategia politica e mediatica contro il governo Ortega, della quale Feedom House è parte diligente.

Freedom House, che si spaccia come ONG a difesa della democrazia, è in realtà una branca del sistema propagandistico degli Stati Uniti. L’idea dalla quale nacque Freedom House venne a F.D. Roosevelt, nel 1941, quando vennero create diverse associazioni negli Stati Uniti il cui scopo era quello di preparare ideologicamente il Paese alla guerra. Si riunificarono poco prima dell’attacco a Pearl Harbor e trovarono una casa comune a New York: la Casa della Libertà, Freedom House, per l’appunto. Ma la casa vera era, ed è tuttora, la Casa Bianca.

Furono numerosissime le associazioni ed i premi che, grazie a Freedom House, videro la luce, ma le campagne più significative furono a sostegno del Piano Marshall, della Nato e della guerra in Viet-nam. Lo slogan preferito? “Stati Uniti, paese della libertà”.

Nel 1982, quando Reagan decise di aprire la Fondazione Nazionale per la Democrazia (FED), con lo scopo di rendere presentabili le covert action della CIA, Freedom House smise di brillare di luce propria per divenire un settore del ben più ampio dispositivo di propaganda della Casa Bianca. Da quel momento la NED (National Endowment for Democracy) assorbì e sovvenzionò Freedom House, che a sua volta cofinanziò e realizzò alcuni progetti della NED, ampliando così la sfera dell’intervento politico-mediatico a sostegno delle amministrazioni USA.

Oltre 70 anni di attività lo dimostrano: Freedom House sta alla CIA come la pelle alle ossa. Per averne conferma basta leggere i nomi di alcuni che sono stati tra i suoi esponenti più importanti, vero e proprio mix di intelligence e diplomazia, spesso parallela, statunitense.

Alcuni esempi? Presidente di Freedom House è stato per lungo tempo James Woolsey, ex capo della CIA. Il suo Consiglio d’amministrazione, nel corso della sua storia, vide tra gli altri la presenza di uomini di punta dell’intelligence a stelle e strisce: tra questi l’ex ambasciatore Thomas Foley, (che fu presidente della Commissione Trilateral ed ex presidente del Consiglio d’intelligence); Malcom Forbes (Forbes magazine); Samuel Huntington (teorico dello scontro di civiltà); Jeane Kilkpatrick (ex ambasciatrice di Reagan all’Onu) e, ciliegina sulla torta, Diana Villiers (moglie di John Negroponte, ex coordinatore di tutta l’intelligence USA).

Già solo la presenza di queste ed altre figure nel board dell’organizzazione può indicare il ruolo di Freedom House. Lungi dall’essere una ONG, è una organizzazione politica incaricata di redigere analisi e rapporti importanti per gli orientamenti di politica estera dell’amministrazione statunitense.

Fu il Presidente George W. Bush a incaricare Freedom House di presentare un rapporto annuale sulle libertà pubbliche ed i diritti politici nel mondo. A seguito di questo, gli Stati Uniti decidono se dare o negare aiuti allo sviluppo nel quadro della Millenium Challenge Corporation. Freedom House prepara insomma il terreno; è il retroterra, l’essenza di quella “ingerenza democratica” che precede le guerre preventive.

Associazioni per la libertà di stampa e per la libertà religiosa, arruolamento di dissidenti dei paesi dell’Est e di intellettuali europei a prezzi di saldo, invio di articoli già confezionati per i principali giornali in lingua inglese, uffici in mezzo mondo; Freedom House partecipò in prima linea alla nuova guerra fredda patrocinata da Reagan e da Bush padre.

In relazione al Nicaragua la storia di Freedom House trova conferma di modalità e finalità del suo agire come copertura d’immagine al lavoro della CIA. Nel 1988, infatti, Freedom House creò un gruppo di lavoro sull’America Centrale il cui obbiettivo principale era quello di diffondere la disinformazione sul governo sandinista. Per l’occasione, vennero coinvolti anche sindacalisti della Afl-Cio.

Nel 1983, di fronte all’esplodere dello scandalo Iran-Contras, Reagan decise di ristrutturare l’apparato di propaganda, definito “diplomazia pubblica”. Walter Raymond, Direttore del Consiglio Nazionale di Sicurezza, organizzò un comitato di supervisione dove inserì, per conto di Freedom House, Leonard R. Sussman e Leo Cherma, quest’ultimo specialista della guerra psicologica. A capo della segreteria delle operazioni arrivò Otto Reich. Il curriculum di quest’ultimo parla chiaro: agente CIA, legatissimo ai cubani di Miami e ispiratore del fallito colpo di stato confindustriale del 2000 in Venezuela, ai vertici del dipartimento per l’America latina dell’amministrazione Bush (ed ora, appunto, ripescato da quella Trump).

Negli anni ’90 l’attività dell’associazione si ampliò all’est europeo e ad alcuni paesi del Maghreb, tra i quali Giordania e Algeria. Nel 1999 creò il Comitato statunitense per la pace in Cecenia, diretto dall’ex Consigliere della Sicurezza Nazionale Brzezinski e da Alexander Haig, il primo segretario di Stato di Reagan. Ottenne l’appoggio dell’influente Istituto democratico per gli Affari Internazionali di Madeleine Albright, vera e propria enclave democratica nella Ned e nella CIA. Sono innumerevoli le organizzazioni e le associazioni statunitensi che Freedom House coinvolse nei suoi progetti.

Lo scopo era quello di contattare ogni possibile organizzazione dalle stesse finalità presenti nel campo socialista e di farlo attraverso sigle che apparentemente non destassero particolari sospetti. Contatti, accordi, nomi e analisi arrivavano sulle scrivanie di Langley e nei rapporti alle varie agenzie dalle quali Freedom House dipendeva e dipende e che, a loro volta, dal lavoro di Freedom House traggono enormi vantaggi per le loro operazioni.

É dagli uffici di Freedom House che nacque l’idea della jihad afghana ed è sempre la stessa associazione che chiese a Osama bin Laden, allora fervente agente CIA e capo dei Talebani, di aiutare l’esercito musulmano in Bosnia.

Nel 2002, Freedom House creò in Ungheria, con l’appoggio della Usaid, un servizio web per le Ong dell’Europa centrale. Nello stesso periodo condusse la campagna di riabilitazione del partito Arena in El Salvador, eredità politica degli squadroni della morte del maggiore Roberto D’Abuisson, assassino tra gli altri di Monsignor Romero. Arena entrò a far parte della Lega Anticomunista Mondiale con uno dei suoi uomini più fidati, Antonio Saca, Presidente di El Salvador dal 2004 al 2009 grazie ai brogli ai danni del Comandante Shafick Handal, candidato del FLMN. Un approccio stravagante alla difesa dei diritti umani.

Pur se negli ultimi anni i suoi sforzi si sono concentrati nell’organizzare proteste in Serbia e Kirzighistan e colpi si stato in Georgia e Ucraina, l’attività di Freedom House in America latina è rimasta intensa. Oltre al Nicaragua, per alcuni periodi Cuba è stata il più importante obbiettivo della sua iniziativa. Il coinvolgimento di Freedom House nel “Programma Cuba”, in ottemperanza alla sezione 109 della legge Helms-Burton del 1996, era nato con l’elargizione di un milione e mezzo di dollari provenienti dai fondi della NED.

Il lavoro di Freedom House aveva nei suoi punti fondamentali localizzare e reclutare giornalisti, esponenti politici e Ong dell’est europeo da inviare a Cuba a sostegno dei cosiddetti dissidenti. Lo riconobbe pubblicamente nel giugno del 2000 la stessa Freedom House, quando ammise di aver organizzato e finanziato il viaggio a Cuba di quattro giornalisti, due economisti e un accademico dell’est Europa con il fine di redigere articoli, relazioni ed analisi destinate a formare opinione internazionale contro l’isola caraìbica.

A capo dell’operazione, tanto per non smentirsi, fu insediato Frank Calzon, terrorista di origine cubana, ufficiale CIA legatissimo alla FNCA di Miami (la Fondazione Nazionale Cubano Americana, epicentro del terrorismo contro l’isola).

Le regole, di Freedom House come della NED, alla fine, sembrano essere due: il primo amore non si scorda mai, i vecchi amici non si dimenticano. E l’inedita sintonia con l’ultradestra degli ex-sandinisti indica che gli antichi nemici, se convertitisi alla religione annessionista, anche solo per frustrazione o per guadagno, possono diventare i nuovi amici. L’odio e i dollari, quando corrono insieme, possono far rileggere il passato e falsare il presente, allo scopo di darsi un futuro.

di Michele Paris

Il ritorno a toni minacciosi che non si registravano da tempo, nei confronti dell’Iran da parte dell’amministrazione Trump è stato inaugurato con poca sorpresa questa settimana in seguito al test missilistico condotto domenica scorsa da Teheran. La Casa Bianca ha infatti innescato un nuovo fronte di polemiche dopo che il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Michael Flynn, ha messo ufficialmente “sull’avviso” la Repubblica Islamica tramite una dichiarazione rilasciata alla stampa nella giornata di mercoledì.

L’avvertimento rivolto all’Iran rappresenta una mossa estremamente provocatoria, anche se l’ex generale non ha chiarito quali siano i provvedimenti che il governo americano starebbe prendendo in considerazione. Il New York Times ha citato un membro della nuova amministrazione, il quale, dopo le parole di Flynn, ha fatto sapere che la Casa Bianca non esclude iniziative militari. Tuttavia, a pochi giorni dall’insediamento, Trump non sembra intenzionato a precipitare da subito una crisi che avrebbe pesantissime conseguenze.

L’intervento di Flynn ha avuto i caratteri dell’invettiva a tutto campo contro l’Iran. Il motivo principale dell’attacco è apparso il test balistico dello scorso fine settimana, secondo il consigliere di Trump effettuato “in violazione della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

Tranne che per i “falchi” della politica estera americana, che continuano spingere per un confronto con l’Iran, questa risoluzione non sembra essere stata però violata dal test missilistico di domenica. La 2231, approvata nel luglio del 2015 subito dopo la firma dell’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano, chiede alla Repubblica Islamica di non condurre “attività con missili balistici realizzati per essere in grado di trasportare testate nucleari”.

Il linguaggio della risoluzione non è in ogni caso vincolante, né sono previste misure punitive in caso di violazione o meccanismi per forzarne l’implementazione. Soprattutto, però, non vi sono indicazioni o tantomeno prove che il missile testato domenica dall’Iran sia da collegare a ordigni nucleari.

I test balistici convenzionali non sono coperti né vietati dalla suddetta risoluzione ONU e, comunque, l’Iran non possiede armi nucleari, né è impegnato in progetti per la loro realizzazione. Come ha ragionevolmente spiegato l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Fars, “il divieto immaginario [previsto dalla risoluzione 2231] è di fatto obsoleto alla luce dell’accordo nucleare di Vienna, dal momento che l’Iran ha chiaramente ridotto il proprio programma nucleare civile al punto da rendere del tutto impossibile la fabbricazione di una testata nucleare”.

Non solo - ha aggiunto l’editoriale pubblicato giovedì - questo punto di vista è condiviso dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, il cui più recente rapporto afferma che “l’Iran sta rispettando l’intesa sul nucleare” e i missili di cui dispone non hanno nulla a che fare con armi atomiche.

Ugualmente basate su prove inesistenti sono state anche le accuse di Flynn all’Iran di essere dietro l’attacco di lunedì scorso da parte dei ribelli Houthi yemeniti contro una nave da guerra saudita nel Mar Rosso. Per Flynn, la responsabilità di altre azioni degli Houthi sciiti contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sarebbe da attribuire ancora all’Iran, poiché questo paese fornirebbe loro armi e addestramento.

L’offensiva dell’amministrazione Trump contro l’Iran ha preso soltanto spunto dal test missilistico di domenica scorsa. Quelli lanciati mercoledì dal consigliere di Trump sono infatti i primi segnali espliciti di un’iniziativa che il neo-presidente aveva prospettato mesi fa in campagna elettorale. L’obiettivo principale di essa rimane il possibile smantellamento dell’accordo di Vienna sul nucleare, come ha confermato lo stesso Flynn mercoledì denunciando l’arrendevolezza di Obama nei confronti della Repubblica Islamica.

A partire dall’elezione nel mese di novembre, Trump ha anche fatto capire che la sua amministrazione sarebbe stata disposta ad assecondare l’isteria anti-iraniana di Israele, di fatto unica potenza nucleare (non dichiarata) in Medio Oriente. Molti membri del suo governo sono d’altra parte accesi sostenitori della destra israeliana.

Il nuovo direttore della CIA, l’ex deputato Repubblicano Mike Pompeo, nel 2015 si era ad esempio adoperato al Congresso per bloccare l’accordo di Vienna. Il segretario alla Difesa, James Mattis, pur avendo tiepidamente sostenuto l’intesa sul nucleare durante la sua recente audizione di conferma al Senato, era stato invece rimosso da Obama dall’incarico di comandante del Comando Centrale dopo avere invocato un’azione militare in territorio iraniano come ritorsione per un presunto attacco alle forze di occupazione in Iraq da parte di una milizia sciita appoggiata da Teheran.

Lo stesso Flynn è notoriamente animato da feroci sentimenti anti-islamici che non risparmiano l’Iran. Anch’egli perse il posto di direttore dell’Intelligence Militare sotto l’amministrazione Obama a causa delle teorie cospiratorie e xenofobe che avanzava. In un suo libro, inoltre, delineava una strategia di cambio di regime e di guerra contro l’Iran che gli Stati Uniti avrebbero dovuto perseguire.

L’inversione di rotta rispetto alla relativa moderazione di Obama sulla Repubblica Islamica da parte dell’amministrazione Trump non è ad ogni modo soltanto il risultato dello stato mentale al limite del patologico di alcuni suoi componenti. L’atteggiamento di sfida risponde a una strategia ben precisa auspicata dalla sezione della classe dirigente americana che ha promosso e sostiene il nuovo presidente.

Innanzitutto, le provocazioni e le minacce anche di guerra rivolte all’Iran smentiscono le presunte tendenze isolazioniste di Trump e dimostrano come la retorica nazionalista riassunta dallo slogan “America first” implichi una politica estera ancora più aggressiva del recente passato, senza riguardo per le posizioni di alleati o partner internazionali né per le precedenti iniziative distensive.

Più precisamente, per quanto riguarda l’Iran, svariati commentatori hanno fatto notare come il comportamento dell’amministrazione Trump sia mirato a ostacolare, se non spezzare, il processo di integrazione euro-asiatica in atto e che vede come principale protagonista proprio Teheran, assieme a Mosca e a Pechino.

Questa strategia prevede un riavvicinamento alla Russia per cercare di fermare il consolidamento dei rapporti di questo paese con la Cina, mentre gli attacchi contro l’Iran sarebbero una sorta di offensiva contro l’anello (relativamente) debole della catena per colpire ulteriormente il coagularsi degli interessi di questi tre paesi.

Il tentativo alle prime battute di Trump si trova di fronte comunque ostacoli difficilmente superabili, a cominciare dalla declinante influenza degli Stati Uniti sugli scenari internazionali. All’interno della sua stessa amministrazione, per non parlare del Partito Repubblicano e dell’intero apparato di potere americano, le posizioni relative all’approccio all’Iran sono poi tutt’altro che univoche.

Molti ritengono pericoloso un eventuale affondamento dell’accordo sul nucleare di Vienna, dal momento che metterebbe a rischio il già non semplice accesso del capitale USA al mercato e alle risorse energetiche dell’Iran, laddove le aziende europee e asiatiche stanno da tempo muovendo i primi passi in questo senso.

Inoltre, il riesplodere di una crisi con Teheran ritarderebbe o metterebbe a repentaglio i piani di coloro che vedono Russia e Cina come nemici principali dell’imperialismo americano. Infine, la rinnovata ostilità di Washington nei confronti dell’Iran rischia di creare ulteriori divisioni con un’Europa che, soprattutto per ragioni di ordine economico, appare ben avviata verso la normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Islamica e, quindi, per nulla disposta a tornare al vecchio regime delle sanzioni.

La portata destabilizzante di Trump sulle relazioni bilaterali degli Stati Uniti e, a livello più ampio, sugli equilibri strategici nelle aree cruciali del globo è apparsa evidente infine dalla notizia circolata giovedì e relativa a una tesissima telefonata tra il neo-presidente e il primo ministro australiano conservatore, Malcolm Turnbull.

I due hanno discusso di un accordo, sottoscritto dall’amministrazione Obama con il governo di Canberra, che prevede l’invio negli Stati Uniti di 1.250 rifugiati di religione islamica che l’Australia “ospita”, di fatto illegalmente e in condizioni disumane, in strutture detentive sulle isole di Manus, in Papua Nuova Guinea, e di Nauru. In cambio, l’Australia riceverebbe rifugiati attualmente negli USA e provenienti dal centro America.

Secondo le ricostruzioni, quando Turbull avrebbe insistito con Trump per il rispetto dell’accordo, quest’ultimo ha finito per sbottare, minacciando di non accettare i rifugiati e interrompendo bruscamente la conversazione.

Al di là della questione relativa a poche centinaia di immigrati, la tensione esplosa tra i due alleati è sintomatica delle ansie che attraversano i leader australiani dopo l’elezione di Trump. Il dilemma strategico, ma anche economico, dell’Australia, stretta tra l’alleanza con gli Stati Uniti e i legami commerciali sempre più profondi con la Cina, non potrà infatti che aggravarsi a causa dell’atteggiamento aggressivo verso Pechino promesso dalla nuova amministrazione Repubblicana.


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