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di Michele Paris
I primi atti ufficiali da presidente di Donald Trump hanno subito messo in chiaro gli orientamenti ultra-reazionari della nuova amministrazione Repubblicana, ben decisa a perseguire la promessa deregolamentazione del business assieme a misure anti-democratiche a cui si oppongono decine di milioni di americani. Alla promessa fatta a inizio settimana di facilitare gli affari delle grandi aziende e ai decreti presidenziali per sbloccare la costruzione di due discussi oleodotti, si sono aggiunti mercoledì i primi passi nell’ambito della lotta all’immigrazione e per la costruzione del famigerato muro di confine con il Messico.
Le ultime iniziative erano state anticipate attraverso i soliti “tweet” di Trump che annunciavano mercoledì come un “grande giorno” per la sicurezza nazionale. Oltre al muro, tra le misure per cui il neo-presidente ha dato indicazione c’è il taglio dei fondi federali alle amministrazioni delle cosiddette “città santuario”, quelle cioè che garantiscono protezione ai migranti che non hanno i requisiti legali previsti per vivere sul territorio americano
Nei prossimi giorni sono previste poi misure per limitare il numero di immigrati e rifugiati a cui sarà consentito l’ingresso negli Stati Uniti. La Casa Bianca avrebbe intenzione di congelare per alcuni mesi l’emissione di visti di ingresso per cittadini siriani e di altri paesi mediorientali e africani, in attesa della definizione di un meccanismo più stringente per la valutazione dei requisiti e dei precedenti di coloro che chiedono ospitalità. Questa misura dovrebbe sostituire, almeno per il momento, il divieto d’ingresso a tutti gli stranieri di fede musulmana che era stato propagandato da Trump durante la campagna elettorale per la Casa Bianca.
Trump potrebbe chiedere poi alle agenzie governative preposte di rafforzare il controllo della frontiera meridionale e avviare una campagna sul territorio nazionale per stanare e rimandare nei loro paesi di origine il maggior numero possibile di immigrati “illegali”.
Il Washington Post ha scritto mercoledì che dietro a queste prime decisioni relative ai fenomeni migratori ci sono con ogni probabilità i membri della nuova amministrazione con le inclinazioni più populiste, per non dire fasciste. Tra di essi figurano il “capo stratega” della Casa Bianca ed ex direttore del sito web di estrema destra Breitbart News, Stephen Bannon, il candidato alla carica di ministro della Giustizia, senatore Jeff Sessions, e il consigliere politico del presidente, Stephen Miller.
Tutte le iniziative prese e da prendere rappresentano un attacco ai diritti degli immigrati e confermano come Trump intenda fare di questa sezione più debole della popolazione un capro espiatorio e assieme un diversivo dei problemi economici e sociali degli Stati Uniti.
È necessario ricordare, comunque, che l’accanimento anti-migratorio di Trump non è che la prosecuzione dei metodi impiegati negli ultimi otto anni dall’amministrazione Obama, responsabile, tra l’altro, del maggior numero in assoluto di deportazioni della storia americana.
La firma sui decreti presidenziali citati è avvenuta significativamente nel corso di una visita del presidente Repubblicano presso la sede di Washington del dipartimento della Sicurezza Interna, deputato al controllo delle frontiere e alla cui guida il Senato ha confermato qualche giorno fa l’ex generale dei Marines, John Kelly.
Per quanto riguarda il muro con il Messico, sono in molti a credere che la sua costruzione risulterà problematica, sia per ragioni logistiche che economiche, visto anche che il presidente messicano, Enrique Peña Nieto, ha escluso che il suo governo lo finanzi, come chiede invece Trump. Il solo annuncio di mercoledì rappresenta però un messaggio difficilmente equivocabile circa gli orientamenti del nuovo inquilino della Casa Bianca.
Le misure che dovrebbero accelerare invece la costruzione di due oleodotti negli USA rischiano di scatenare nuove manifestazioni di protesta dopo che già negli ultimi mesi e anni entrambi i progetti erano stati contestati duramente da ambientalisti e nativi americani.
Uno dei due oleodotti è il Dakota Access (DAPL) e nei mesi invernali del 2016 i lavori per il completamento dell’opera erano stati di fatto bloccati da un accampamento di tribù indiane e ambientalisti. I manifestanti erano stati spesso fermati con metodi violenti dalle forze di polizia locali e dalle guardie private delle compagnie impegnate nella costruzione dell’infrastruttura.
Alla fine, l’amministrazione Obama aveva sospeso le operazioni, ordinando una revisione del progetto di un’opera che dovrebbe attraversare falde acquifere cruciali e terre considerate sacre per alcune tribù di indiani d’America.
L’intervento di Obama era stato in realtà un modo per passare la risoluzione della vicenda nelle mani del nuovo presidente, il quale non ha mai nascosto la sua intenzione di far ripartire i lavori. La sua amministrazione è d’altra parte composta da negazionisti del cambiamento climatico, fermi sostenitori delle fonti di energia inquinanti e, soprattutto, politici e imprenditori legati alle compagnie petrolifere.
Sul DAPL, inoltre, nell’amministrazione Trump abbondano i conflitti di interesse. Lo stesso presidente possiede azioni della compagnia costruttrice, la Energy Transfer Partners, mentre il prossimo segretario all’Energia, l’ex governatore del Texas Rick Perry, sedeva nel suo consiglio di amministrazione. Ancora, uno dei beneficiari dell’oleodotto sarà il petroliere Harold Hamm, cioè uno dei principali finanziatori della campagna elettorale di Trump.L’altro oleodotto è il Keystone XL, il quale dovrebbe portare il petrolio estratto dalle super-inquinanti sabbie bituminose dell’Alberta, in Canada, alle raffinerie americane nel Golfo del Messico. Anche questo progetto era stato al centro di infinite proteste per il potenziale inquinante di eventuali incidenti, fino a che l’amministrazione Obama aveva deciso di bloccarne la costruzione nel 2015.
Questi provvedimenti di Trump fanno parte di una strategia deliberata per smantellare le regolamentazioni ambientali e relative alla sicurezza dell’industria energetica e non solo. Con il pretesto di facilitare le attività del business privato e la creazione di posti di lavoro, la nuova amministrazione intende favorire i profitti delle grandi aziende facendone pagare i costi e le conseguenze ai lavoratori e alle comunità americane.
Questa agenda classista mascherata da propaganda populista e nazionalista è apparsa chiara anche in seguito agli incontri di inizio settimana del presidente Repubblicano, prima con i vertici delle più importanti compagnie manifatturiere americane e successivamente con gli amministratori delegati di General Motors, Ford e Fiat Chrysler.
In entrambi i casi, Trump ha promesso uno snellimento di quelli che vengono definiti impedimenti burocratici al business, assieme a un drastico taglio delle tasse che gravano su corporation che, peraltro, con manovre più o meno legali pagano già una parte irrisoria del loro teorico carico fiscale.
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di Michele Paris
La decisione presa da Donald Trump di fare uscire gli Stati Uniti dalla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP) appena tre giorni dopo il suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca è il primo previsto atto volto a implementare un’agenda all’insegna del nazionalismo economico che dovrebbe teoricamente rilanciare il sistema America nei prossimi quattro anni.
Come la sua stessa elezione, la firma di Trump sul decreto che ha cancellato la presenza di Washington nell’accordo di libero scambio tra 12 paesi del continente asiatico e di quello americano ha gettato nel panico i governi che avrebbero dovuto farne parte, tutti costretti con ogni probabilità a fare i conti con l’aggravarsi delle tendenze protezioniste che la nuova amministrazione Repubblicana sembra prospettare per l’immediato futuro.
L’abbandono del TPP da parte di Washington era stato promesso da Trump già durante la campagna elettorale e, dopo l’inaugurazione di venerdì scorso, il neo-presidente ha messo in moto le procedure anche per rinegoziare il Trattato di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), ovvero lo strumento che da oltre due decenni regola i traffici commerciali tra USA, Canada e Messico.
Queste iniziative di Trump confermano l’intenzione del nuovo presidente, e di quella parte della classe dirigente americana che lo appoggia, di stravolgere le regole e i meccanismi che hanno disciplinato l’ordine capitalista internazionale dopo il secondo conflitto mondiale con il preciso scopo di evitare i conflitti, anche e soprattutto relativi all’ambito commerciale, esplosi negli anni Trenta.
Più che un trattato di libero scambio vero e proprio, il TPP avrebbe dovuto essere un mezzo per regolamentare i rapporti economici e commerciali tra un blocco di paesi che produce oltre il 40% del PIL globale secondo gli interessi del business americano. Esso avrebbe anche rappresentato un esempio per altri accordi con al centro gli Stati Uniti, primo fra tutti il Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP) con l’Unione Europea.
La priorità degli interessi delle corporation americane, il prevalere di queste ultime sulla stessa sovranità dei singoli paesi, le trattative condotte in segreto, l’allentamento delle regolamentazioni imposte al capitale privato e l’erosione dei diritti dei cittadini sono tutti elementi che non possono che fare accogliere positivamente la probabile morte del TTP e, forse, anche del TTIP.
Tuttavia, le motivazioni della decisione di Trump non hanno nulla di progressista e il rimescolamento degli equilibri economici e commerciali che lascia intravedere la sua amministrazione, nel tentativo di rinvigorire il capitalismo americano, ha implicazioni preoccupanti. Da un lato, ciò rischia di peggiorare ulteriormente le differenze sociali in patria, visto che i presunti benefici per i lavoratori americani sono fumo negli occhi, mentre dall’altro conduce allo scontro diretto non solo con potenze rivali, come la Cina, ma virtualmente anche con alleati i cui interessi potrebbero finire per divergere in maniera drammatica da quelli degli USA, come ad esempio il Giappone.
D’altra parte, gli obiettivi principali dell’amministrazione Obama nella promozione del TPP non erano tanto di natura economica, bensì strategica, visto che esso serviva principalmente a consolidare la presenza americana in un’area esposta all’influenza di Pechino e a cercare quanto meno di limitare l’integrazione degli altri 11 paesi membri nel progetto di espansione cinese.
Il TPP doveva essere insomma lo strumento economico e commerciale della più ampia strategia di contenimento della Cina messa in atto dagli USA e che ha preso il nome corrente di “svolta” asiatica. A esso si sono accompagnate iniziative di natura diplomatica e militare rivolte ai tradizionali alleati americani in Estremo Oriente e agli altri paesi disposti ad approfondire i legami con Washington.
Questi obiettivi e, soprattutto, il confronto con la Cina, rimangono in cima all’agenda di Trump e verranno perciò perseguiti con metodi diversi, basati non tanto sul multilateralismo o sulle alleanze collettive per fare pressioni su Pechino, quanto piuttosto sull’unilateralismo e il nazionalismo spinto, tradotti negli slogan “America First” e “Make America Great Again” dello stesso neo-presidente.
Trump e i membri della sua amministrazione hanno dichiarato che i trattati come il TPP lasceranno spazio ad accordi da negoziare in sede bilaterale e che il principio che guiderà il nuovo governo sarà quello dell’equità degli scambi commerciali. In realtà, la natura della visione di Trump comporta l’imposizione di condizioni favorevoli soprattutto, se non esclusivamente, agli interessi degli Stati Uniti, sotto la minaccia nemmeno troppo velata di misure ritorsive, come l’imposizione di pesanti dazi doganali.Proprio questa prospettiva ha determinato la risposta piuttosto cauta delle autorità cinese e dei media ufficiali della Repubblica Popolare al boicottaggio del TPP da parte di Trump. Se è vero che Pechino vede chiaramente la possibilità di penetrare nello spazio lasciato dagli USA, rilanciando i negoziati per accordi alternativi come l’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) o l’FTAAP (Free Trade Area of the Asia Pacific), le incognite sulla gestione dell’agenda commerciale americana sono parecchie, così come i timori per l’imposizione di misure protezionistiche.
Le preoccupazioni cinesi erano state espresse settimana scorsa dal presidente, Xi Jinping, nel suo intervento al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, dove aveva celebrato la globalizzazione e, riferendosi indirettamente all’amministrazione entrante a Washington, messo in guardia da possibili involuzioni di stampo protezionista, da cui nessun paese uscirebbe vincitore.
Le reazioni più allarmate sono giunte invece dalla fazione anti-Trump del Partito Repubblicano negli Stati Uniti e dai governi dei paesi che hanno negoziato il TPP. A Washington, il senatore dell’Arizona, John McCain, ha definito un “grave errore” la decisione di Trump di uscire dall’accordo, poiché “permette alla Cina di riscrivere le regole economiche” a spese degli USA e “manda un segnale preoccupante del disimpegno americano nell’area Asia-Pacifico”.
Martedì, poi, i primi ministri di Australia e Nuova Zelanda hanno manifestato l’intenzione di adoperarsi per salvare il TPP, non solo cercando di convincere l’amministrazione Trump a tornare sui suoi passi ma, addirittura, coinvolgendo nel trattato altri paesi, come la Cina o l’Indonesia.
L’allargamento ad altre potenze economiche o la sostituzione di Washington con Pechino rappresenterebbe un’evoluzione clamorosa del TPP, vista la natura sostanzialmente anti-cinese dell’intesa promossa dall’amministrazione Obama. Le dichiarazioni dei capi dei governi australiano e neozelandese - Malcolm Turnbull e Bill English - dimostrano perciò il potenziale destabilizzante dell’azione di Donald Trump nei rapporti consolidati tra alleati.
Ancor più, ciò è osservabile nel caso del Giappone, il cui primo ministro, Shinzo Abe, non a caso subito dopo l’elezione di Trump lo scorso novembre aveva fatto di tutto per fissare un faccia a faccia a New York col presidente eletto allo scopo di essere rassicurato sui rapporti bilaterali.
Infatti, quello giapponese è forse il governo che più ha investito politicamente sul TPP, faticando oltretutto a farlo digerire a buona parte della base elettorale del partito di maggioranza con la promessa di un rilancio dell’economia da troppo tempo in fase di stagnazione.
Il colpo assestato ora da Trump all’accordo è stato accolto con costernazione e un certo risentimento a Tokyo, aggravato dai commenti critici del neo-presidente americano sulle presunte disparità nell’accesso ai rispettivi mercati delle merci prodotte dai due paesi.
Sempre martedì, il ministro dell’Economia nipponico, Nobuteru Ishihara, ha anch’egli ipotizzato il perseguimento di soluzioni alternative da parte di Tokyo per fare in modo che “il libero scambio rimanga il perno della crescita economica del paese”. Allo stesso tempo, ai giornalisti che gli hanno chiesto della possibilità di discutere un tratto di libero scambio bilaterale con Washington, il ministro del gabinetto Abe ha risposto dicendosi “tutt’altro che certo” della disponibilità americana ad avviare negoziati in questo senso.L’indisponibilità, peraltro, potrebbe essere anche di Tokyo, visto che, come fanno notare molti osservatori, le condizioni che Trump potrebbe chiedere al Giappone rischiano di essere difficilmente accettabili e ancora più svantaggiose di quelle previste dal TPP.
La situazione, ad ogni modo, a una manciata di giorni dall’insediamento di Trump rimane molto fluida, nonostante i messaggi molto chiari provenienti da Washington. Sul fronte cruciale del commercio internazionale, oltre alle prossime mosse della nuova amministrazione americana, sarà da guardare con attenzione il vertice organizzato in fretta e furia per la metà di marzo in Cile tra i paesi inclusi nel TPP e rimasti orfani degli Stati Uniti.
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di Michele Paris
L’inattesa sconfitta nel primo turno delle primarie presidenziali in Francia dell’ex primo ministro, Manuel Valls, rischia di aggravare la profonda crisi in cui versa il Partito Socialista d’oltralpe (PS) dopo cinque anni sotto la guida del super-screditato François Hollande e dei governi da lui nominati. Valls ha chiuso al secondo posto dietro al “frondista” e suo ex ministro Benoît Hamon, in grado di intercettare la maggior parte dei consensi di un elettorato Socialista che continua a chiedere politiche progressiste e a respingere la deriva liberista accentuatasi in questi ultimi anni.
La destra del PS francese è apparsa essere in netta minoranza nella consultazione di domenica. Valls, emblema stesso dell’involuzione reazionaria del suo partito, si è fermato a poco più del 31%, mentre Hamon ha superato quota 36%.
Se ai voti del 49enne ex ministro dell’Educazione e deputato del dipartimento di Yvelines si aggiunge il 17,6% ottenuto da un altro ex membro di “sinistra” del primo governo Valls, Arnaud Montebourg, si comprende agevolmente come la maggioranza dei votanti auspichi una svolta in senso progressista del Partito Socialista. Sia Hamon che Montebourg erano stati di fatto allontanati dal governo Valls nel 2014 per avere criticato le politiche economiche liberiste dell’allora primo ministro.
Al di là dei risultati, le primarie di domenica si sono tenute prevedibilmente in un’atmosfera di relativa indifferenza. L’ostilità dei francesi nei confronti dei governi Socialisti e del presidente Hollande si è manifestata con un’affluenza che è stata meno della metà rispetto a quella registrata qualche settimana fa nelle primarie della destra gollista, vinte anch’esse a sorpresa da François Fillon.
Hollande sta facendo segnare il minimo storico nei livelli di approvazione per un presidente in carica dopo che il suo mandato è stato caratterizzato dall’implementazione e dal tentativo di implementazione di misure di austerity e dallo smantellamento dei diritti dei lavoratori. Ancora, Hollande e lo stesso Valls sono identificati con l’adozione di misure anti-democratiche, come lo scavalcamento delle prerogative del Parlamento e lo stato di emergenza tuttora in vigore, quest’ultimo destinato teoricamente a combattere la minaccia di attentati terroristici.
Hamon ha in ogni caso incassato già nella serata di domenica l’appoggio di Montebourg, anche se il conforto della matematica potrebbe non essere sufficiente a garantirgli il successo nel secondo turno delle primarie di domenica prossima. Per i media francesi, a influire sulle scelte degli elettori del PS potrebbe essere il dibattito televisivo previsto a metà settimana tra Hamon e Valls.Chiunque esca vittorioso dalle primarie, il candidato Socialista alla successione di Hollande, il quale ha da tempo ha annunciato di non volersi ripresentare alle elezioni per evitare una clamorosa batosta, sembra essere comunque destinato a una sonora sconfitta nel primo turno delle presidenziali nel mese di aprile.
I più recenti sondaggi danno addirittura l’aspirante presidente del PS in quinta posizione nel primo turno delle presidenziali, dietro a Fillon e a Marine Le Pen del Fronte Nazionale (FN) di estrema destra, ma anche all’indipendente ex ministro Socialista, Emannuel Macron, e a Jean-Luc Mélenchon del Partito di Sinistra (PG).
Dietro a Hamon si sono coalizzate quelle forze che cercano di conservare una qualche credibilità del PS, impostando una campagna elettorale basata sulle critiche all’impopolare presidenza Hollande e proponendo l’illusione di un partito che, dietro le pressioni popolari, possa mettere in atto misure come l’istituzione di un reddito minimo universale garantito per tutti.
Quest’ultima è una delle due proposte cardine di Hamon, da finanziare con una ancora più improbabile tassa sulla ricchezza in un clima nel quale le classi dirigenti di qualsiasi schieramento, in Francia come altrove, appaiono sempre più ostili anche a un minimo aumento della spesa sociale. L’altra iniziativa propagandata da Hamon è l’ulteriore riduzione dell’orario lavorativo settimanale da 35 e 32 ore.
La fragilità del PS rischia di aggravarsi dopo il secondo turno di domenica prossima. Un’eventuale vittoria di Hamon acuirebbe le divisioni interne, nascoste a malapena negli ultimi cinque anni dal timore di riconsegnare il governo alla destra. Sotto la spinta dell’estrema destra e con la prospettiva sia di vedere all’Eliseo un presidente gollista critico dell’Unione Europea sia di sparire virtualmente dalla mappa elettorale francese, la maggioranza del PS e le forze borghesi europeiste che a esso fanno riferimento potrebbero optare per una soluzione clamorosa.
Invece di appoggiare Hamon per la presidenza, questi ultimi potrebbero cioè dare il proprio sostegno a Emmanuel Macron, lasciando il candidato Socialista ufficiale a poter contare solo sui “frondisti” della “sinistra” del partito. Già alla vigilia delle primarie, decine di membri del PS che ricoprono cariche elettive a livello regionale avevano annunciato il loro appoggio a Macron, mentre fonti vicine a Hollande avevano affermato, prima di smentire le loro stesse dichiarazioni, che lo stesso presidente era pronto ad appoggiare l’ex banchiere ed ex ministro dell’Industria diventato indipendente.
Quali che siano le scelte di Hollande, è innegabile che Macron trovi ampi consensi nelle stanze del potere in Francia, soprattutto tra coloro che, ormai sicuri dell’inevitabile rovescio elettorale che attende i Socialisti, intendono puntare su un candidato che rappresenti un punto di riferimento per il business all’interno di un quadro europeista.Macron, in altre parole, potrebbe essere l’unica residua speranza per installare all’Eliseo un presidente che, presentandosi con un’apparenza di modernità e un finto appeal da giovane imprenditore vincente, prosegua con le distruttive politiche di austerity di Hollande e si adoperi per evitare l’implosione dell’UE.
Se Valls dovesse quindi fallire, buona parte dei vertici del PS e dei poteri che a questa fazione fanno riferimento potrebbe essere pronta a scommettere su un candidato dal chiaro profilo ultra-liberista, chiudendo così definitivamente il cerchio di un percorso verso destra che ha portato sull’orlo del collasso quello che era il principale partito della sinistra francese.
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di Fabrizio Casari
Alla fine, com’era prevedibile, Joaquìn Guzmàn Loera, al secolo “il Chapo” Guzman, fondatore e rais del Cartello di Sinaloa, uno dei più importanti gruppi di narcos messicani, è stato estradato dal Messico verso gli Stati Uniti. Arrestato e fuggito dalle carceri di massima sicurezza messicana, “el Chapo” ha probabilmente visto per l’ultima volta il cielo del suo paese, dato che dal carcere di sicurezza statunitense dove andrà potrà vedere solo quello statunitense.
Dal carcere in Texas il boss del narcotraffico non potrà fuggire, il destino che lo attende è quello di passare dietro le sbarre tutto il tempo che gli resta da vivere.
I tribunali statunitensi, dal Distretto Occidentale del Texas al distretto Nord dell’Illinois, da San Diego al Distretto Ovest di Brooklyn, fino al Distretto Sud della Florida, lo imputano di numerosi delitti di diversa natura: omicidio, traffico di stupefacenti, cospirazione, riciclaggio di denaro, sequestro di persona, tortura.
Le pene previste viaggiano complessivamente intorno ai 30 anni di carcere, ma ove le imputazioni specifiche dello stato del Texas fossero riconosciute senza attenuanti, la pena di morte potrebbe essere sentenziata, visto che l’iniezione letale continua ad essere pratica riconosciuta dai texani. A tal riguardo, però, le autorità statunitensi hanno ufficialmente dichiarato che non verrà condannato a morte, visto il mandato di estradizione.
Sembra quindi concludersi con un viaggio di sola andata in elicottero e con le manette ai polsi l’avventura di un uomo che, basandosi sulla sua ferocia e abilità organizzativa, ha costituito quello che per lungo tempo è stato il più potente dei cartelli messicani. Almeno fino a quando non intervenne la rottura con la famiglia Beltran-Leyva, che lo ritenne responsabile dell’uccisione di alcuni suoi componenti e decise prima di rompere con Guzmàn e poi di muovergli guerra.
Ad amplificare la piaga del narcotraffico in Messico ci pensò il Presidente Felipe Calderon (2006-2012), che per compiacere gli Stati Uniti decise di dichiarare guerra al cartello di Sinaloa, producendo però il risultato opposto: nell’indebolimento del cartello del “Chapo” molti altri videro lo spazio per la formazione dei loro cartelli, dividendosi le diverse aree d’influenza. Se prima c’era un solo cartello a comandare, divennero numerosi, con migliaia di uomini a disposizione (tra i quali moltissimi appartenenti alle forze dell’ordine e ai militari) e qualunque possibilità di fermarli diveniva remota.
Oltre al cartello di Sinaloa e al Beltran-Leyva, si formano Los Zeta, Jalisco Nueva Generacìòn, il Cartello del Golfo, la Familia Michoacana, il Cartello di Juarez, i Cavalieri Templari, il Cartello del Pacifico e il Cartello di Tijuana, solo per citare i maggiori. I narcos non sono più bande, divengono vere e proprie armate che producono miliardi di dollari. Sono organizzazioni criminali strutturate come eserciti: dotate di armamenti ad ogni livello, intrattengono relazioni con uomini politici, forze dell’ordine e business-man, costituiscono propri servizi d’intelligence e, grazie ad una sorta di welfare sussidiario, si reggono su una rete di sostegno territoriale che ne aumenta la penetrazione e l’efficacia.
Un potere vero, finanziario, economico e sociale, oltre che militare, che ha tolto il monopolio della forza allo Stato e che si configura in maniera evidente come un autentico “stato nello stato”.
Il venir meno del “Chapo” influirà relativamente sulla operatività del Cartello di Sinaloa, visto che i suoi vice hanno preso da anni le redini degli affari e che lo stesso Guzman era ormai fortemente indebolito dai rovesci degli ultimi tempi. Restano invece in Messico e liberi i suoi complici, tutti coloro i quali sostengono, da posizioni di rilievo sociale ed istituzionale, il narcotraffico messicano che ha decisamente superato di gran lunga il volume di potere e affari di quello colombiano. A stabilire chi occuperà lo spazio che lascerà "el Chapo" provvederà l'ennesima guerra tra cartelli.
L’estradizione del “Chapo” Guzmàn rappresenta però una resa senza condizioni del Messico. Ma, soprattutto, dimostra al mondo intero che una tra le prime 10 potenze economiche del mondo, il più potente e armato esercito latinoamericano (insieme a quello del Brasile) non è in grado di custodire un prigioniero. Non si tratta dell’impossibilità di gestire un detenuto di particolare pericolosità, si ammette di non poter controllare il livello di corruzione che potrebbe permetterne la fuga.
Non è un caso, però, che l’estradizione del “Chapo” Guzmàn avvenga in contemporanea con l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Nelle intenzioni del Presidente Pena Nieto, che già lo ricevette con tutti gli onori a Città del Messico durante la campagna elettorale, riuscendo a far infuriare Hillary e a far indignare i messicani, la consegna del capo narcos è un cadeau di benvenuto.
Appare come un tentativo ridicolo di stemperare il clima polemico del neopresidente USA, una dimostrazione di amicizia verso chi da mesi offende i messicani e che chiede alle aziende statunitensi di ritirare i loro investimenti industriali dal paese Azteca.
Il Messico è una frontiera che rischia di divenire un paradigma politico dopo esser stato un dramma sociale. Proprio per questo da parte del governo azteca, di fronte a tanta arroganza ci si sarebbe aspettato un sussulto di dignità, una riaffermazione di sovranità, una rivendicazione delle responsabilità statunitensi.
Tanto in ordine al narcotraffico (gli USA sono i principali consumatori del mondo di stupefacenti) quanto all’emigrazione clandestina, favorita dall’alleanza tra coyotes messicani e statunitensi che lucrano sul traffico di esseri umani e del loro sfruttamento.
La scelta di Pena Nieto appare invece come una dichiarazione di resa di fronte allo strapotere statunitense, un voltare le spalle alla sovranità messicana, perché riconosce agli Stati Uniti e non al Messico la possibilità e la capacità di custodire, giudicare e condannare un criminale messicano.
Si chiude così un capitolo tremendo con un risultato a metà. “El Chapo” Guzmàn sarà giudicato infatti solo per i crimini ai danni dei cittadini statunitensi. Per quelli messicani è previsto un muro.
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di Michele Paris
La decisione presa questa settimana dal presidente uscente americano Obama di commutare la pena dell’ex analista dell’esercito, Chelsea (Bradley) Manning, in modo che possa essere scarcerata di qui a pochi mesi, rappresenta un tardivo, parziale e con ogni probabilità cinico ravvedimento da parte del capo di un’amministrazione che ha perseguito il numero più alto di “whistleblowers” nella storia degli Stati Uniti.
Manning tornerà in libertà il prossimo 17 maggio dopo avere scontato quasi sette anni di carcere, in gran parte in regime d’isolamento e di privazione della privacy e dei più normali diritti garantiti ai detenuti. Nell’agosto del 2013 le era stata inflitta una sentenza di 35 anni da parte di un tribunale militare dopo che, su suggerimento dei suoi legali, si era dichiarata colpevole di 20 dei 22 capi d’accusa mossigli dal governo e dalle forze armate.
Com’è noto, Manning aveva fornito a WikiLeaks una mole enorme di materiale classificato sui crimini dell’imperialismo americano, documentando tra l’altro i retroscena delle guerre in Iraq e in Afghanistan e le manovre diplomatiche su scala mondiale di un governo che agisce costantemente in violazione dei principi democratici a cui sostiene di ispirarsi nelle relazioni con gli altri paesi.
La detenzione di Manning ha rappresentato di per sé un crimine, a cominciare dal trattamento riservatole in carcere. Nel 2012 anche il relatore delle Nazioni Unite per le torture, Juan Mendez, dopo una lunga indagine aveva accusato il governo americano di avere trattato Manning in maniera “crudele e disumana”, confinandola in una cella per 23 ore al giorno per 11 mesi nonostante fosse ancora in attesa del giudizio di un tribunale.
La vicenda dell’ex militare, che compirà 30 anni il prossimo mese di dicembre, aveva avuto dei risvolti ancora più drammatici a causa dei problemi psicologici legati alla propria identità sessuale, per i quali le autorità militari si sono sempre rifiutate di garantire i trattamenti richiesti.
Nell’ultimo anno, rinchiusa presso il carcere militare di Leavenworth, in Kansas, Manning aveva messo in atto uno sciopero della fame e, secondo i suoi legali, aveva tentato il suicidio in due occasioni, nel mese di luglio e ancora in quello di ottobre. Dopo il primo tentativo era stata condannata a 14 giorni di isolamento con l’accusa di avere tenuto una condotta che rappresentava un rischio per la sua stessa persona.
Proprio i tentativi di togliersi la vita e l’aggravamento delle condizioni mentali di Manning devono avere pesato sulla decisione di Obama di accorciare la sua pena detentiva. Vista la persistente popolarità dell’ex analista dell’esercito e le continue pressioni di attivisti e organizzazioni a difesa dei diritti civili, un eventuale suicidio in carcere avrebbe provocato uno scandalo e macchiato ulteriormente una presidenza già tra le più reazionarie della storia americana.
Obama, da parte sua, ha giustificato l’indulto a Manning con il fatto che quest’ultima ha già trascorso un lungo periodo in carcere e che i 35 anni inflitti erano oggettivamente esagerati, alla luce anche delle pene di gran lunga inferiori subite in passato da condannati per reati di spionaggio o per avere trafugato materiale governativo classificato.Si deve ricordare che Manning passò a Wikileaks le immagini e le registrazioni audio che documentavano a Baghdad, nel 2007, l’assassinio di 12 civili innocenti e disarmati (fra loro due giornalisti della Reuters) e i commenti entusiasti e razzisti dei militari autori della strage.
La scelta di non cancellare la pena e la condanna che Manning aveva subito nel 2013 hanno comunque implicazioni non indifferenti, al di là del dato oggettivo più importante, ovvero la libertà riconquistata. Il solo accorciamento della pena lascia infatti intatto il precedente di una condanna durissima che voleva essere un avvertimento per quanti intendevano seguire l’esempio di Manning.
Inoltre, in questo modo Obama sperava forse di limitare le reazioni prevedibilmente ostili alla notizia dell’indulto da parte dell’apparato militare americano e dei leader del Partito Repubblicano. Sempre a questo fine, il presidente uscente nei giorni scorsi ha anche concesso la piena amnistia all’ex vice comandante di Stato Maggiore, generale James Cartwright, condannato per avere mentito ad agenti federali che indagavano su una fuga di notizie relativa a un cyber-attacco condotto dagli USA contro il programma nucleare dell’Iran.
Le polemiche non si sono comunque fatte attendere. L’amministrazione entrante di Donald Trump ha subito condannato la decisione di Obama, il cui portavoce ha peraltro fatto notare come le critiche all’indulto a Chelsea Manning contraddicano i commenti relativamente positivi del neo-presidente su WikiLeaks e Julian Assange.
I Repubblicani al Congresso si sono anch’essi scagliati contro Obama per avere garantito la libertà anticipata a quello che hanno bollato più o meno apertamente come “traditore”. Anche all’interno dell’amministrazione Democratica non deve esserci stato pieno accordo sull’indulto a Manning. I media americani hanno ad esempio scritto che il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva espresso parere negativo alla liberazione dell’ex militare.
Altri fattori possono avere influito sulla tardiva decisione di Obama, tutti riconducibili più che altro a ragioni di opportunismo. In primo luogo, la concessione della libertà anticipata a Manning serve a ridare una qualche credibilità al Partito Democratico - e allo stesso Obama - agli occhi dei suoi sostenitori “liberal”. Tanto più che il provvedimento può in qualche modo inserirsi nella strategia consolidata dei vertici Democratici di fare leva sulle questioni di genere e d’identità sessuale piuttosto che su quelle sociali, pacifiste o più generalmente legate ai diritti democratici.
Se è pratica comune che grazie, amnistie e indulti vengano concessi nelle ultime settimane dei mandati presidenziali negli Stati Uniti, è altrettanto vero che la decisione su Manning è stata presa da Obama solo dopo l’elezione di Trump al preciso scopo di ripulire l’immagine del suo partito una volta perduta la Casa Bianca. In altre parole, i Democratici non sono stati meno feroci dei Repubblicani nel condannare Manning, Wikileaks, Assange o Edward Snowden e, con ogni probabilità, se Hillary Clinton fosse stata eletta presidente molto difficilmente si sarebbe giunti al provvedimento di indulto di questa settimana.
Non solo: malgrado i distinguo proposti dall’amministrazione Obama, a rigor di logica la commutazione della pena di Manning avrebbe dovuto essere accompagnata da misure di clemenza per Snowden e Assange, la cui sorte dovrà invece confrontarsi con una nuova amministrazione che intende perseguire presunti “traditori” in maniera forse ancora più feroce.Obama e il suo entourage devono avere avvertito anche l’aumentare delle pressioni a causa del diverso trattamento riservato a personalità militari di spicco che, come Manning, hanno passato informazioni riservate alla stampa o a individui non autorizzati a riceverle. Uno di questi è l’ex direttore della CIA, generale David Petraeus, il quale è andato incontro a trascurabili conseguenze legali per avere condiviso materiale segreto con la sua amante e biografa.
Da ultimo, non è escluso che Obama abbia deciso di graziare Manning in un estremo tentativo di mettere le mani su Julian Assange dopo che il fondatore di WikiLeaks aveva fatto sapere di essere disposto a consegnarsi alla giustizia americana se il presidente uscente avesse concesso l’amnistia a Manning.
Assange, tuttavia, ha escluso che il gesto di Obama sia sufficiente a spingerlo a rinunciare alla protezione che gli sta garantendo l’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Infatti, hanno fatto sapere i suoi legali, il provvedimento a favore di Manning non prevede la libertà immediata né tantomeno l’amnistia e la conseguente estinzione totale del reato attribuitole, come appunto chiedeva più che ragionevolmente il numero uno di WikiLeaks.