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di Michele Paris
La tornata di martedì delle elezioni primarie per le presidenziali americane si è risolta con risultati parzialmente a sorpresa per i due principali partiti, almeno a giudicare dalle previsioni proposte alla vigilia dai media ufficiali. Nonostante i favori dei sondaggi, tra i Democratici Hillary Clinton ha incassato una sconfitta a sorpresa in uno degli stati chiave in vista di novembre. Per i Repubblicani, invece, i ripetuti assalti provenienti da più parti fuori e dentro al partito sono riusciti soltanto a scalfire lo status di favorito di Donald Trump.
La vittoria di misura in Michigan del senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha salvato una candidatura che, senza un’affermazione in uno stato di peso prima degli importanti appuntamenti delle prossime settimane, non avrebbe probabilmente più avuto molto senso.
La sua affermazione non ha portato alcun guadagno in termini di delegati, anzi, grazie al largo successo in Mississippi, Hillary ha chiuso la giornata con un saldo positivo. Tuttavia, il primo posto di Sanders in Michigan contribuisce come minimo a mantenere aperta la corsa alla nomination nel Partito Democratico. Secondo lo stesso team di Sanders e alcuni commentatori “liberal”, addirittura, i risultati di martedì lascerebbero aperta la speranza, comunque remota, di invertire le sorti della sfida.
Hillary Clinton ha finora messo assieme la maggior parte dei successi nelle primarie e il suo vantaggio nel numero di delegati, i quali dovranno decidere ufficialmente il candidato alla Casa Bianca durante la convention della prossima estate, negli stati americani del sud. Qui, l’ex segretario di Stato ha potuto beneficiare del voto favorevole della grande maggioranza degli afro-americani, i quali compongono però una parte minoritaria dell’elettorato Democratico nei grandi stati settentrionali e del Midwest che voteranno a breve.
In Michigan, Sanders sembra essere riuscito a capitalizzare gli attacchi portati contro la rivale in una serie di comizi e in alcuni spot elettorali, così come nel dibattito di domenica scorsa trasmesso in diretta TV. I temi più caldi su cui Sanders è andato all’offensiva sono stati quelli economici e in particolare l’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero.
L’insistenza sulla deindustrializzazione e la crisi economica, assieme a tutte le conseguenze che ne sono derivate per i lavoratori americani, ha fatto presa su buona parte degli elettori di uno stato pesantemente colpito come il Michigan. Sanders ha potuto poi accusare efficacemente Hillary di avere sostenuto i trattati di libero scambio che nel passato hanno favorito la delocalizzazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro dagli Stati Uniti verso altri paesi dove il costo della manodopera è decisamente più basso.
La sconfitta di Hillary in Michigan ha comunque sbalordito i suoi sostenitori, inclusi quelli nei media, visto che i più recenti sondaggi, pubblicati un paio di giorni prima del voto, erano giunti ad assegnarle un vantaggio non lontano dai 20 punti percentuali. La Clinton, poi, aveva puntato molto su questo stato proprio per chiudere definitivamente il già complicato percorso verso la nomination di Sanders, mostrando, tra l’altro, sentimenti per lei molto rari di umanità e compassione riguardo il caso della città di Flint, dove altissimi livelli di piombo sono stati riscontrati nell’acqua potabile.Il vantaggio di Hillary nel numero dei delegati conquistati finora resta ad ogni modo consistente ed è anzi aumentato dopo martedì, ma i dati del voto in Michigan indicano persistenti debolezze che, se anche non la priveranno della nomination, potrebbero esserle fatali nel voto di novembre. Sanders continua ad esempio a fare meglio della sua rivale tra i lavoratori bianchi e gli indipendenti, cioè gli elettori che non sono affiliati ufficialmente a nessun partito.
Proprio queste due categorie dell’elettorato americano stanno proiettando Donald Trump verso la nomination Repubblicana e, in un’elezione presidenziale, risultano spesso decisive nello stabilire le sorti di alcuni stati tradizionalmente in bilico tra i due partiti. Non a caso, a tutt’oggi molti sondaggi su scala nazionale assegnano un certo vantaggio a Trump su Hillary in proiezione di una sfida tra i due attuali favoriti nel mese di novembre.
Alla luce di quanto accaduto in Michigan, le competizioni di martedì prossimo in stati dalla composizione dell’elettorato e dai problemi economici più o meno simili, come Ohio, Illinois e Missouri, saranno con ogni probabilità decisive per capire se Bernie Sanders potrà conservare qualche speranza di recuperare terreno e ambire seriamente alla nomination.
I problemi per Sanders non sarebbero comunque risolti nemmeno da eventuali successi in tutti e tre questi stati. La prossima settimana voteranno anche Florida e North Carolina, dove Hillary è nettamente favorita, e una sua vittoria qui le permetterebbe di compensare le sconfitte subite altrove, dove l’assegnazione dei delegati col metodo proporzionale le garantirebbe comunque una quota significativa di quelli in palio.
Nella giornata di martedì si sono tenute anche le primarie Repubblicane in Michigan e in Mississippi, ma gli elettori di questo partito hanno votato anche in Idaho e nei caucuses alle Hawaii. Trump ha portato a casa i primi due stati, che offrivano il maggior numero di delegati, e le Hawaii, mentre in Idaho a prevalere è stato il senatore ultra-conservatore del Texas, Ted Cruz.
Trump veniva dalle sconfitte di sabato scorso, sempre per mano di Cruz, in Kansas e in Maine e, soprattutto, erano emersi segnali che la campagna orchestrata per fermare la sua corsa dagli stessi leader e sostenitori del Partito Repubblicano stava iniziando a dare i primi frutti.
Come spesso è accaduto in questa stagione elettorale, inoltre, Trump anche nei giorni scorsi era stato protagonista di nuovi episodi controversi, questa volta riguardanti, tra l’altro, le sue inclinazioni fasciste, i flop collezionati nel mondo del business e addirittura i suoi attributi sessuali.
Le paure e gli avvertimenti contro una possibile nomination di Trump non hanno però avuto particolare efficacia alla prova delle urne, anche perché la campagna che mira a screditarlo è condotta da quello stesso establishment Repubblicano che gli elettori intendono punire votando proprio il miliardario newyorchese.Inoltre, la permanenza nella corsa di altri tre candidati che continuano a fare campagna elettorale attiva non fa che dividere il voto anti-Trump. L’unico in grado di battere ripetutamente il favorito Repubblicano sembra essere sempre più Ted Cruz, il quale però a sua volta non è particolarmente gradito ai vertici del partito e ha un modesto appeal negli stati dove la componente di estrema destra ed evangelica risulta meno numerosa.
Il cavallo su cui puntava l’apparato Repubblicano e i suoi finanziatori è d’altronde in caduta libera. Il senatore della Florida, Marco Rubio, ha infatti dovuto patire un’altra umiliazione dopo il voto di martedì, non essendo riuscito a raggiungere la soglia minima per ottenere qualche delegato distribuito proporzionalmente.
In Michigan e Mississippi, poi, Rubio ha chiuso al di sotto del 10%, suggellando una prestazione disastrosa che non promette nulla di buono in vista delle primarie di martedì prossimo nel suo stato, dove il senatore cubano-americano potrebbe tristemente vedere la fine definitiva della sua corsa alla Casa Bianca.
Secondo alcune indiscrezioni apparse sulla stampa USA mercoledì, Rubio e il suo staff potrebbero annunciare a breve il ritiro dalla competizione proprio per evitare una clamorosa batosta in Florida.
Martedì, Rubio è stato battuto ovunque da Trump e Cruz, mentre in Michigan e in Mississippi lo ha superato anche il governatore dell’Ohio, John Kasich, la cui campagna elettorale è stata finora poco più che marginale. Il sorpasso di Kasich è ancora più preoccupante per Rubio, poiché entrambi dovrebbero teoricamente fare riferimento alla stessa fetta di elettorato “moderato” del Partito Repubblicano.
Gli equilibri visti finora in casa Repubblicana e il persistere di un voto spalmato su quattro candidati rendono molto difficile il compito di coloro che vorrebbero impedire che la nomination vada a Donald Trump. Nonostante i giornali americani abbiano parlato in questi giorni di una sorta di coalizione tra i leader del partito e alcuni ricchi donatori per portare una raffica di attacchi al favorito, l’ipotesi più discussa resta quella della cosiddetta convention divisa.
Questa strategia consisterebbe nel fare in modo che Trump non possa raggiungere il numero di delegati necessari ad assicurarsi la nomination al termine delle primarie, così che alla convention dopo la prima votazione - evidentemente da risolversi in un nulla di fatto - tutti i delegati presenti sarebbero liberi di scegliere un altro candidato. Questa eventualità non si verifica però da decenni in uno dei principali partiti americani e rappresenta un forte rischio politico, visto che finirebbe col privare della nomination il candidato che ha ottenuto il maggior numero di consensi tra gli elettori.
Se i tentativi di fermare Trump proseguiranno e, forse, si intensificheranno nelle prossime settimane, vi è in molti la sensazione che tra il businessman e il partito o, per lo meno, una parte di esso, potrebbe scoppiare la pace se sarà lui ad avere in mano la nomination una volta esaurito il calendario delle primarie.Una guerra civile tra i Repubblicani alienerebbe ancor più gli elettori, col rischio di consegnare la presidenza al candidato Democratico. La prospettiva di un appianamento delle tensioni interne appare tanto più probabile quanto Trump sembra avere più di una possibilità di battere Hillary Clinton, se dovesse effettivamente sfidarsi con la ex first lady.
I segnali di una futura pacificazione sono infatti già visibili, sia pure nel pieno di uno scontro che sta rivelando la gravissima crisi in cui si dibatte il Partito Repubblicano. Nelle scorse settimane alcuni esponenti Repubblicani di spicco hanno dato il proprio appoggio ufficiale a Trump, mentre quest’ultimo, proprio martedì dopo le primarie, ha lanciato segnali distensivi all’establishment, elogiando lo speaker della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan, e facendo appello all’unità del partito in previsione delle elezioni di novembre.
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di Michele Paris
La notizia del blitz condotto dai droni americani in territorio somalo lo scorso fine settimana ha segnato una notevole escalation dell’impegno militare di Washington in questo paese in parallelo all’espansione delle operazioni “anti-terrorismo” in Africa e in Medio Oriente. Solo alcuni giorni dopo il bombardamento, il Pentagono ha fatto sapere di avere ucciso con una singola incursione 150 presunti militanti dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda, al-Shabaab, in un campo di addestramento situato duecento chilometri a nord della capitale della Somalia, Mogadiscio.
L’attacco sarebbe giunto dopo settimane di sorveglianza da parte statunitense e, secondo la versione ufficiale - impossibile da verificare in maniera indipendente - le vittime stavano partecipando a una cerimonia per la fine del loro addestramento. I nuovi militanti fondamentalisti, sempre secondo il dipartimento della Difesa americano, avrebbero dovuto essere impiegati in attentati terroristici contro gli Stati Uniti o i paesi loro alleati in Africa orientale.
Per il Pentagono, infine, il raid dei droni USA non avrebbe fatto nessuna vittima civile. Quest’ultima affermazione è da prendere particolarmente con le molle, visti i criteri tutt’altro che rigorosi con cui gli Stati Uniti identificano le vittime degli assassini extra-giudiziari mirati in paesi sovrani.
Tutte le informazioni sulla maggiore operazione portata a termine dai militari americani in Somalia dall’inizio dell’impegno contro il “terrorismo” in questo paese sono state riportate dai principali media internazionali come fatti assodati. Soprattutto, la natura dell’impegno di Washington in Somalia quasi mai è stata analizzata in maniera critica, collegandola cioè ai disegni perseguiti dagli USA in paesi dall’eccezionale importanza strategica e al ruolo svolto in questo ambito dalla cosiddetta “guerra al terrore”.
Da qualche tempo, comunque, al-Shabaab stava mostrando segnali di ripresa dopo una serie di sconfitte inflitte dal contingente militare dell’Unione Africana, appoggiato dagli Stati Uniti, in grado di strappare buona parte del territorio somalo controllato dall’organizzazione qaedista. Svariati attentati compiuti nei mesi scorsi hanno dato così l’opportunità agli USA di giustificare un attacco consistente come quello del fine settimane.
In precedenza, le incursioni con i droni americani in Somalia erano prevalentemente indirizzate contro singoli leader di al-Shabaab, come quelle del settembre 2014 e del marzo successivo che uccisero, rispettivamente, Ahmed Abdi Godane e Adan Garar. Questi assassini mirati furono seguiti dalle prevedibili rassicurazioni circa l’inevitabile indebolimento di al-Shabaab, anche se il gruppo fondamentalista si è ben presto ristabilito per tornare a essere uno degli obiettivi primari dell’impegno militare americano in Africa.
I militanti somali, da parte loro, tramite un portavoce hanno confermato martedì la notizia dell’incursione USA, sia pure definendo “esagerato” il bilancio delle vittime. Al-Shabaab, infatti, eviterebbe raduni di centinaia di uomini in un solo punto proprio per il timore dei droni, la cui presenza nei cieli del paese del Corno d’Africa è ovviamente ben nota.I velivoli armati senza pilota del Pentagono prendono dunque di mira da anni i militanti di al-Shabaab in Somalia, la cui nascita e ascesa sono però direttamente collegate alle manovre americane e occidentali in genere in questo paese martoriato. L’origine del gruppo jihadista risale alla sconfitta un decennio fa dell’Unione delle Corti Islamiche, da cui esso deriva, per mano del cosiddetto Governo Federale di Transizione e dell’esercito etiope, entrambi appoggiati dall’Occidente.
In seguito, al-Shabaab avrebbe sfruttato la debolezza del governo e l’ostilità diffusa verso le truppe etiopi in Somalia per conquistare terreno e stabilire il proprio controllo sulla stessa capitale. Solo nel 2011 il Governo di Transizione e la missione militare dell’Unione Africana (AMISOM), con l’appoggio americano, riuscirono a liberare Mogadiscio e, da allora, la campagna USA con i droni ha assunto carattere di regolarità anche nel paese dell’Africa orientale.
L’impegno delle potenze regionali e internazionali per esercitare il proprio controllo sulla Somalia ha innescato e alimentato conflitti interni rovinosi che hanno a loro volta devastato il paese, la cui popolazione vive oggi quasi interamente in stato di estrema povertà.
Anche se inquadrato nella “guerra al terrore”, lo sforzo americano in Somalia è motivato principalmente dalla posizione strategica che essa può vantare nel continente africano. Come lo Yemen immediatamente a nord, e non a caso anch’esso teatro di una lunga e sanguinosa campagna con i droni e, da qualche mese, di una brutale guerra condotta dall’Arabia Saudita, la Somalia si affaccia sul Golfo di Aden che collega il Mar Rosso all’Oceano Indiano.
Da questa via d’acqua transitano ingenti traffici commerciali, inclusi quelli petroliferi diretti verso i paesi occidentali. Non solo, il Golfo di Aden e il delicatissimo stretto di Bab el-Mandeb che divide lo Yemen e il vicino Gibuti - dove sorge l’unica base militare americana permanente in Africa - rappresentano il punto di connessione con l’Oceano Indiano e l’Asia orientale, considerati sempre più come i centri nevralgici degli scambi commerciali planetari.
In questo scenario, la Cina svolge un ruolo decisivo nei calcoli strategici di Washington, visto che i traffici che percorrono queste rotte riguardano in buona parte proprio il principale rivale degli Stati Uniti su scala globale. Inoltre, l’impegno militare americano in Africa è di fatto il tentativo di contrastare l’influenza economica cinese nel continente, cresciuta esponenzialmente nell’ultimo decennio nonostante il rallentamento dell’ultimo periodo.
Non potendo competere sul fronte economico con Pechino, Washington intende espandere la propria presenza militare e le partnership con i paesi africani in questo ambito, utilizzando il pretesto della guerra al terrorismo internazionale che, per molti versi, è l’emanazione stessa della politica estera degli Stati Uniti.Proprio l’Africa è infatti al centro di un’accelerazione dell’impegno americano in questo frangente. Come ha diligentemente scritto lunedì il New York Times, “l’arrivo dello Stato Islamico [ISIS] in Libia ha alimentato il timore che il gruppo fondamentalista possa espandere la propria presenza in altri paesi nordafricani”.
La distruzione della Libia grazie alle manovre occidentali ha finito d’altra parte per destabilizzare tutta l’Africa settentrionale, offrendo all’Occidente nuove possibilità di intervenire militarmente per imporre o salvaguardare i propri interessi strategici. Le forze americane, come spiega sempre il Times, stanno così “aiutando [le forze locali] nella guerra contro al-Qaeda in Mali, Niger e Burkina Faso; contro Boko Haram in Nigeria, Camerun e Ciad; contro al-Shabaab in Somalia e Kenya”.
Proprio un paio di settimane fa, un’incursione dei droni americani aveva colpito un campo di addestramento dell’ISIS a Sabratha, in Libia, uccidendo una quarantina di “militanti”. L’operazione, secondo i vertici militari USA, rientrava nei piani in fase di studio per ampliare anche nel paese che fu di Gheddafi la campagna fatta di bombardamenti mirati contro le forze del terrorismo jihadista.
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di Mario Lombardo
La vigilia dell’annuale sessione dell’Assemblea del Popolo cinese è stata segnata questa settimana da un inquietante annuncio da parte del governo. Nei prossimi anni, cioè, le “riforme” economiche richieste dai mercati e dalle istituzioni finanziarie internazionali saranno accelerate e, in particolare, un certo numero di aziende statali verrà chiuso o ristrutturato, con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro.
La leadership del Partito Comunista Cinese (PCC) sta studiando da tempo l’ipotesi di ridimensionare le compagnie di proprietà dello stato, soprattutto quelle dell’industria pesante che in molti casi restano in vita solo grazie al supporto pubblico per il timore delle conseguenze sociali di eventuali licenziamenti di massa.
In un contesto segnato dal rallentamento dell’economia e dalle crescenti apprensioni per i livelli di indebitamento, il regime sembra essere ora intenzionato a non rinviare ulteriormente questa delicata decisione. Qualche giorno fa, il ministro per l’Occupazione e il Welfare, Yin Weimin, ha così comunicato che le riduzioni previste nei settori del carbone e dell’acciaio avranno effetti devastanti, con almeno 1,8 milioni di lavoratori che perderanno il loro impiego.
Questi numeri potrebbero essere addirittura sottostimati, verosimilmente per evitare agitazioni che già stanno riguardando l’industria cinese. Un articolo della Reuters ha infatti citato anonime fonti governative per rivelare che i tagli e le ristrutturazioni riguarderanno sette settori produttivi e comporteranno complessivamente la distruzione di circa sei milioni di posti di lavoro nei prossimi tre anni.
Il governo si è affrettato a rassicurare che queste perdite saranno “temporanee” e i disoccupati dell’industria pesante saranno assorbiti da altri settori, anche se, visto il numero di licenziamenti e gli stenti dell’economia, una simile prospettiva appare poco probabile.
Inoltre, Pechino ha stanziato 100 miliardi di yuan, pari a oltre 15 miliardi di dollari, per assistere i lavoratori licenziati. Anche in questo caso, come ritengono molti osservatori, l’elevato numero di industrie non competitive potrebbero rendere insufficiente l’impegno del governo.Il moltiplicarsi di aziende “zombi” in Cina è legato in parte alla bolla speculativa seguita alla crisi globale del 2008 e prodotta dall’intervento governativo per stimolare l’economia del paese. In particolare, prestiti a bassissimo costo avevano alimentato un’ondata di nuove costruzioni di abitazioni e infrastrutture con riflessi inizialmente positivi sull’industria pesante.
Il persistere della stagnazione ha però alla fine determinato un rallentamento di queste attività, assieme a una preoccupante impennata dei livelli di indebitamento, ripercuotendosi non solo sull’industria domestica ma anche sulle economie di paesi esportatori di materie prime, come Brasile o Australia.
La situazione di molte aziende di stato cinesi è documentata ad esempio da alcuni dati proposti dal Financial Times, secondo il quale il 42% di queste ultime era in perdita nel 2013, mentre i profitti complessivi di tutto il settore pubblico l’anno scorso sono calati in termini assoluti per la prima volta dal 2001.
Le acciaierie, poi, hanno fatto registrare un eccesso di capacità produttiva pari a 327 milioni di tonnellate nel 2014 contro i 132 milioni del 2008. Dati simili contraddistinguono anche altri settori dell’industria pesante, come quello del cemento e della raffinazione.
Oltre alle conseguenze sui livelli occupazionali e sulla pace sociale, l’intervento del governo per ridimensionare le aziende di stato potrebbe farsi sentire negativamente anche sul settore bancario e finanziario, visto il massiccio indebitamento delle compagnie pubbliche cinesi e i timori già ampiamente diffusi per l’incremento dei cosiddetti “prestiti non performanti”.
Le iniziative che si prospettano in Cina si inseriscono nei piani di “riforma” in senso liberista dell’intero sistema economico che la leadership Comunista sta progressivamente implementando. Il prezzo che verrà pagato dai lavoratori cinesi, come conferma il recente annuncio dei licenziamenti di massa, sarà ancora una volta altissimo.
La stampa internazionale ha dato ampio spazio in questi giorni agli effetti già prodotti dalla transizione verso il capitalismo della Cina negli anni Novanta. In quell’occasione, una raffica di privatizzazioni e ristrutturazioni di compagnie pubbliche causò la perdita di qualcosa come 40 milioni di posti di lavoro, in gran parte nei settori manifatturiero e dell’industria pesante. L’impulso al settore privato permise il riassorbimento di una parte di questi lavoratori ma l’impatto fu traumatico per molti, anche per via del restringimento della rete di assistenza sociale garantita a tutti i cittadini.
Se i numeri appaiono oggi più contenuti, è altrettanto vero che il boom cinese sembra appartenere ormai al passato, mettendo in serio dubbio le capacità dell’economia di questo paese di produrre nuove opportunità di impiego per tutti o quasi i lavoratori che verranno licenziati nei prossimi anni, nonché per i 15 milioni di giovani cinesi che entreranno nel mercato del lavoro solo nel 2016.
Lo stesso governo, d’altra parte, potrebbe annunciare durante l’imminente sessione dell’Assemblea del Popolo un ulteriore abbassamento del target di crescita, il quale per i prossimi anni oscillerà tra il 6,5 e il 7%.Ai vertici del regime vi è la piena consapevolezza delle tensioni sociali che covano dietro l’apparenza di un’immagine di stabilità e controllo. Gli scioperi registrati in Cina sono infatti raddoppiati tra il 2014 e il 2015 e nel solo mese di gennaio del 2016 sono stati più di 500, cioè quasi un quinto del totale dello scorso anno, senza contare quelli non riportati dalla stampa o dai social media.
In questo quadro, è comprensibile la relativa prudenza con cui la leadership Comunista intende procedere sul percorso delle “riforme”, nonostante le pressioni e gli inviti provenienti da più parti, dentro e fuori la Cina, ad accelerare le liberalizzazioni economiche.
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di Michele Paris
Il tradizionale appuntamento del Supermartedì nelle elezioni primarie per le presidenziali negli Stati Uniti ha dato probabilmente l’impronta decisiva alle competizioni per la nomination di entrambi i principali partiti. Se però in casa Democratica il consolidamento della leadership di Hillary Clinton ha confortato i vertici e i ricchi sostenitori del partito, il quasi trionfo di Donald Trump ha fatto salire esponenzialmente le ansie dell’establishment Repubblicano, ormai a corto di opzioni per provare a fermare la corsa di un candidato che appare sempre meno presentabile agli elettori in vista del voto di novembre.
L’aspetto forse più preoccupante, anche se non nuovo, per l’ampio fronte anti-Trump all’interno del Partito Repubblicano è stato il risultato convincente ottenuto dal miliardario newyorchese nella maggior parte degli stati che hanno votato martedì dopo una settimana segnata da pesanti attacchi nei suoi confronti e dalle nuove controversie in cui si è trovato coinvolto.
Trump ha vinto ben sette delle undici competizioni in calendario martedì, facendo registrare successi in stati molto diversi tra loro per composizione demografica e orientamenti dell’elettorato. Trump ha cioè prevalso, spesso in maniera netta, in stati del sud come Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee e Virginia, ma anche in due stati del nord-est, dove la sensibilità degli elettori è considerata quasi opposta a quella prevalente in questi ultimi, come Massachusetts e Vermont.
Il numero di delegati conquistati martedì resta ben lontano da quello necessario a garantirsi la nomination Repubblicana ma il vantaggio di Trump sui suoi rivali comincia a essere importante. Non solo, man mano che la competizione avanzerà, sarà sempre più difficile chiudere il divario, soprattutto perché nelle prossime settimane voteranno alcuni grandi stati dove la quota di delegati in palio sarà assegnata con il metodo maggioritario e, quindi, interamente al primo classificato.
Assieme al passo avanti forse decisivo di Trump, l’altro dato più importante della serata è stato il flop del candidato che avrebbe dovuto emergere come l’alternativa più valida dell’establishment e dei finanziatori Repubblicani, il senatore della Florida Marco Rubio. Il 44enne cubano-americano ha vinto soltanto in Minnesota, il terzo stato più piccolo in termini di delegati al voto martedì, mentre è andato molto vicino a Trump in Virginia, dove è stato oggettivamente penalizzato dalla permanenza di altri candidati alla nomination sulle schede elettorali. La maggiore speranza dei Repubblicani che rappresentano gli organi del partito può dunque vantare un bilancio misero a questo punto della corsa, avendo vinto soltanto in uno dei 14 stati che hanno votato finora.
Il fallimento di Marco Rubio, il quale aveva duramente attaccato Trump nei giorni precedenti il Supermartedì, è in parte il risultato del voto diviso tra i Repubblicani, dove restano in corsa cinque candidati. Soprattutto, però, i magri risultati raccolti nonostante il sostegno del partito e dei finanziatori sono dovuti al fatto che Rubio è politicamente poco più di una nullità e deve la sua carriera politica a una manciata di miliardari che lo appoggiano in cambio dei suoi servizi.
Anche l’illusione di poter recuperare su Trump potrebbe crollare definitivamente per Rubio il prossimo 15 marzo nel caso dovesse perdere il suo stato, la Florida, dove peraltro i sondaggi lo danno in ritardo rispetto al rivale. Nel suo stato non ha invece fallito l’altro senatore cubano-americano in corsa per la nomination, Ted Cruz. In Texas, Cruz ha staccato nettamente Trump e Rubio e si è imposto anche in Alaska e Oklahoma.
Il senatore di estrema destra ha chiesto ai suoi rivali - il governatore dell’Ohio, John Kasich, il neuro-chirurgo di colore in pensione, Ben Carson, e appunto Rubio - di abbandonare la corsa in modo da favorire la formazione di un fronte compatto contro Trump. Questa prospettiva è però improbabile al momento, visto che Rubio sembra godere ancora dell’appoggio di un Partito che, allo stesso tempo, vede lo stesso Cruz con estremo sospetto. Solo Carson si è mosso per ora in questo senso, anticipando mercoledì l’imminente ritiro dalla competizione.
Il tempo per mettere assieme una strategia efficace per contrastare l’avanzata di Trump da parte dei vertici del Partito Repubblicano è comunque poco, se non già esaurito. L’imprenditore e showman continua a infiammare una parte dell’elettorato Repubblicano, di dimensioni relativamente ridotte se proiettata su scala nazionale ma significativa se rapportata all’affluenza registrata nelle primarie, con una retorica populista e anti-sistema che fa leva sugli impulsi più retrogradi e che trova terreno fertile in una realtà politica e sociale segnata da oltre un decennio di inesorabile spostamento a destra del baricentro politico americano.Estremamente significativi della natura del candidato Trump sono due episodi che hanno caratterizzato la vigilia del Supermartedì. Nel corso di un comizio, un agente del Servizio Segreto, che assicura la sicurezza di Trump e degli altri candidati alla Casa Bianca, ha aggredito un noto fotoreporter mentre era in corso una manifestazione di protesta contro il favorito Repubblicano, il quale a sua volta ha mostrato di gradire l’episodio. Trump, inoltre, era finito al centro di nuove polemiche per non avere respinto esplicitamente l’appoggio espressogli dall’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, e da alcuni gruppi che promuovono il suprematismo bianco.
Al di là delle dichiarazioni di molti che tra i Repubblicani sostengono di essere intenzionati a voltare le spalle a Trump nel caso fosse lui a conquistare la nomination, è probabile che le divisioni verranno in gran parte sanate nei prossimi mesi e il partito finirà per assicurargli il proprio appoggio. Le ipotesi di una convention spaccata o di una coalizione anti-Trump che impedisca al “frontrunner” di ottenere la maggioranza dei delegati che si riuniranno a Cleveland a luglio si dissolveranno verosimilmente nei prossimi mesi.
Alcune indicazioni del fatto che almeno una parte dei membri del partito abbia accettato o sia disposta ad accettare la vittoria di Trump sono già emerse, come ad esempio il sostegno ufficiale dichiarato per quest’ultimo da personalità Repubblicane di spicco, come il governatore del New Jersey e fino a qualche settimana fa candidato alla Casa Bianca, Chris Christie, e il senatore dell’Alabama, Jeff Sessions, beniamino dell’ala conservatrice.
Le prese di posizione in odore di fascismo di Trump non sono d’altronde troppo lontane da quelle che contraddistinguono i “moderati” o i “conservatori” del Partito Repubblicano. La differenza, tutt’al più, consiste nelle modalità con cui esse vengono espresse o nel fatto stesso che vengano espresse pubblicamente. Trump, da parte sua, una volta incassata la nomination, attenuerà in qualche modo i toni, così da rassicurare i vertici del suo partito, per poi scegliere magari come candidato alla vice-presidenza una figura a loro gradita.
Anche tra i Democratici il destino della competizione sembra essere quasi segnato dopo il Supermartedì, anche se il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha confermato la serietà della sua candidatura e l’incisività di un messaggio politico basato sulla lotta alle disuguaglianze sociali e di reddito dilaganti negli Stati Uniti.
Hillary Clinton ha comunque conquistato tutti gli stati in cui era largamente favorita (Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia), più il Massachusetts, dove è stato decisivo un margine di appena 20 mila voti. Davanti a un fronte compatto favorevole all’ex segretario di Stato, fatto di leader Democratici, media e ricchi finanziatori, Sanders ha fatto suoi Colorado, Minnesota, Oklahoma e Vermont.
Gli equilibri attuali e la storia delle primarie Democratiche suggeriscono che i margini per recuperare su Hillary sono molto ristretti, anche se il team di Sanders si è detto fiducioso sia per le risorse finanziarie a disposizione sia per un calendario che potrebbe essere più favorevole nelle prossime settimane, quando voteranno, tra gli altri, alcuni stati industriali del Midwest.
La Clinton ha saputo mettere a frutto il vantaggio scaturito dal presunto legame tra la sua famiglia e l’elettorato di colore e ispanico che costituisce una fetta importante dei votanti Democratici nelle primarie negli stati del sud. La sua candidatura continua però a mostrare segnali di evidente debolezza, peraltro inevitabile visto il discredito di una famiglia che ha costruito fortune politiche e ricchezze al servizio di Wall Street e dell’imperialismo americano. Soprattutto tra gli elettori più giovani, i bianchi e i redditi più bassi, Hillary ha ceduto quasi sempre il passo a Sanders in queste primarie, mostrando difficoltà che potrebbero rendere meno facile del previsto un’eventuale sfida contro Trump nel mese di novembre.
Nonostante i dubbi e i risultati molto meno entusiasmanti di quanto i suoi sostenitori si attendevano solo pochi mesi fa, la candidatura di Hillary Clinton sembra essere sul punto di diventare inevitabile, come conferma il fatto che il suo vantaggio in termini di delegati è oggi maggiore rispetto a quello di Obama nel 2008 allo stesso punto della competizione.Il probabile fallimento di Bernie Sanders, anche se molto relativo viste le condizioni da cui partiva, è dovuto invece anche alla portata decisamente troppo ridotta della “rivoluzione” da lui auspicata, in primo luogo perché promossa all’interno di un partito, come quello Democratico, che è uno dei due principali strumenti della conservazione di un sistema che opera a favore di una piccolissima percentuale della popolazione americana.
Se le sue apparizioni pubbliche hanno spesso registrato la presenza di un numero record di sostenitori, l’entusiasmo non si è tradotto in un movimento sufficiente - se non in alcuni stati – a travolgere la sua rivale, simbolo stesso della deriva reazionaria del Partito Democratico e della sclerotizzazione del sistema politico USA.
Sanders, in definitiva, essendo sostanzialmente egli stesso un affidabile esponente della classe dirigente d’oltreoceano, è mancato nell’obiettivo più importante e allo stesso tempo più complicato, alla luce delle premesse della sua campagna elettorale, vale a dire nel mobilitare quella parte (maggioritaria) di potenziali elettori più colpiti dalle contraddizioni della società americana e che, non votando, continuano a esprimere indifferenza e disprezzo verso un sistema che, a loro, non ha nulla da offrire.
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di Michele Paris
La crisi economico-finanziaria esplosa tra il 2007 e il 2008 e la medicina somministrata da molti governi in Europa per salvare i rispettivi sistemi bancari responsabili del tracollo hanno fatto un’altra vittima nel fine settimana, quando le elezioni per il rinnovo del parlamento (Dáil) della Repubblica d’Irlanda hanno registrato pesanti perdite per i due partiti di governo, il Fine Gael (“Famiglia degli Irlandesi”) di centro-destra e il Partito Laburista.
I risultati del voto di venerdì in Irlanda hanno riproposto scenari molto simili a quelli già emersi nei mesi scorsi in altri paesi europei devastati da anni di austerity, in particolare in Spagna. Anche in Irlanda, infatti, i due partiti che hanno dominato il panorama politico per decenni - Fianna Fáil (“Soldati del destino”) e, appunto, Fine Gael - non sono stati in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei consensi né dei seggi parlamentari, nemmeno, nel caso di quest’ultimo, con il supporto del proprio partner di coalizione.
I nuovi equilibri osservabili anche a Dublino sono il sintomo di una grave crisi del sistema rappresentativo consolidato in tutta Europa, spesso manifestatosi in un sostanziale bipartitismo, sulla spinta delle politiche distruttive messe in atto dalle classi dirigenti di qualsiasi colore dopo il tracollo economico del 2008.
Il Fine Gael ha visto così precipitare la propria fetta di elettori dal 36% del 2011 al 25,5% odierno. Ancora peggio ha fatto prevedibilmente il Labour, passato dal 19,4% al 6,6% dopo cinque anni nel ruolo di partner di minoranza dedito all’implementazione di un programma fatto di tagli e nuove tasse dettato da Bruxelles.
Significativamente, nel 2011 era stato il Fine Gael ad approfittare della rabbia degli elettori nei confronti del governo guidato dal Fianna Fáil, responsabile a sua volta delle prime devastanti misure di austerity adottate nell’ambito delle trattative con l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale per l’ottenimento di un maxi-prestito da 85 miliardi di euro.
Proprio il Fianna Fáil si è ripreso ora una parte di voti che cinque anni fa erano andati al suo storico rivale, così da salire dal 17,4% del 2011, ovvero la peggiore prestazione dalla sua fondazione nel 1926, al 24,3% odierno.
In un parlamento di 158 seggi, per garantirsi il diritto di formare il prossimo governo, il Fine Gael, che rimane comunque il primo partito irlandese, o il Fianna Fáil dovranno assicurarsi il sostegno di diverse forze politiche. La soluzione più gradita ai mercati e verosimilmente anche a Bruxelles è invece quella di una grande coalizione tra i due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di voti.
Anche se Fine Gael e Fianna Fáil sono entrambe formazioni di centro-destra senza particolari differenze ideologiche o di programma, le divisioni tra i due partiti sono radicate nella storia della Repubblica d’Irlanda e nelle vicende legate alla sua nascita, rendendo quanto meno complicato un gabinetto che veda i loro leader lavorare fianco a fianco.
Un precedente in cui i due partiti di centro-destra hanno collaborato tuttavia esiste e risale al 1987, quando il Fine Gael per poco più di due anni garantì il proprio appoggio esterno a un esecutivo di minoranza guidato dal Fianna Fáil.In ogni caso, anche in Irlanda le frustrazioni degli elettori hanno determinato la crescita di vari partiti e movimenti di sinistra o centro-sinistra. Il Sinn Fein, tradizionalmente considerato il braccio politico dell’IRA in Irlanda del Nord, ha sfiorato il 14% e si è aggiudicato 22 seggi nel Dáil di Dublino.
Il partito di Gerry Adams aveva impostato la propria campagna elettorale sulle questioni economiche, promettendo iniziative a favore delle classi più colpite dall’austerity di questi anni. In molti, a cominciare dalle forze di centro-destra nella Repubblica, hanno però più volte fatto notare come il Sinn Fein abbia dato il proprio appoggio senza eccessivi scrupoli alle politiche di rigore implementate in Irlanda del Nord.
Risultati relativamente buoni li hanno ottenuti anche i Social Democratici (SD), con il 3% e 3 seggi, e la neonata Alleanza Anti Austerity- Persone Prima del Profitto (AAA-PBF), con quasi il 4% e 5 seggi. Circa 19 saranno invece i seggi assegnati ai candidati indipendenti, tra i quali i partiti principali andranno a pescare per cercare di mettere assieme i numeri necessari a governare.
I nuovi scenari così delineati indicano dunque uno stravolgimento degli equilibri basati sulle formazioni tradizionalmente protagoniste assolute della politica irlandese. Alcuni dati riportati lunedì dal quotidiano Irish Times hanno ricordato come Fine Gael, Fianna Fáil e Partito Laburista fino alla prima metà degli anni Ottanta vantassero complessivamente più del 90% dei consensi espressi durante le elezioni. Questa quota sarebbe rimasta a livelli considerevoli ancora nel 1997 (78%) e nel 2011 (73%), mentre dopo il voto di venerdì è crollata al 56%.
Questa crisi di legittimità, esplosa in parallelo alla crisi del capitalismo internazionale e alle iniziative impopolari che ne sono seguite, è comune a molti partiti europei che hanno dominato il panorama politico nei rispettivi paesi negli ultimi decenni, a cominciare dalla Spagna, dove da più di due mesi sono in corso difficili trattative per dare vita a un nuovo governo.
A giudicare dalle ricostruzioni della storia recentissima dell’Irlanda fatta dalla stampa internazionale, la batosta patita dalla coalizione Fine Gael-Labour sarebbe virtualmente inspiegabile. Dopo il collasso del 2007-2008, infatti, Dublino ha ripagato il prestito UE-FMI e negli ultimi due anni l’economia irlandese ha fatto segnare i tassi di crescita più sostenuti in Europa.
Per il Wall Street Journal, poi, il quadro sarebbe ancora più roseo, visto che il governo uscente del “Taoiseach” (primo ministro) Enda Kenny aveva iniziato a “tagliare le tasse” e ad “aumentare leggermente la spesa pubblica”, mentre “il livello di disoccupazione è sceso costantemente negli ultimi anni”.
Questi stessi giornali hanno però dovuto ammettere che, quanto meno, della ripresa economica irlandese non hanno beneficiato tutte le classe sociali. Per lo stesso Wall Street Journal, “le retribuzioni restano ancora basse e in molti sono in affanno nel pagare i loro mutui”. La testata on-line International Business Times ha invece ricordato le difficoltà nel trovare un impiego, il numero record dei senzatetto a Dublino e le proteste di decine di migliaia di irlandesi contro una tassa sull’acqua potabile introdotta dal governo la primavera scorsa.
Se ripresa c’è stata in Irlanda, in effetti, essa ha riguardato in larga misura un numero molto ridotto di persone, com’è ovvio tra le fasce più agiate della popolazione. Una recente ricerca sulle disuguaglianze in questo paese ha messo in luce come gli irlandesi più benestanti abbiano incrementato sensibilmente le loro ricchezze negli anni seguiti al “bailout” e ai sacrifici imposti al resto della popolazione. Questa realtà è sintetizzata nel dato che descrive come 250 persone detengano oggi beni pari a circa il 30% dell’intero PIL irlandese.A pochi giorni dalla chiusura delle urne, il dibattito politico a Dublino ruota già attorno alla possibilità che Fine Gael e Fianna Fáil diano vita a un inedito governo di coalizione, così da evitare altre elezioni nei prossimi mesi. Prevedibilmente, all’interno di entrambi i partiti ci sono profonde divisioni sull’opportunità di una mossa di questo genere, alla luce sia delle pressioni dei mercati e dell’Europa sia delle probabili conseguenze politiche che ne deriverebbero.
La paura dell’incertezza e per il rallentamento nell’applicazione delle misure di “ristrutturazione” dell’economia e del mercato del lavoro irlandese sembrano convincere alcuni della necessità di mettere da parte la rivalità tra i due partiti. Altri, al contrario, avvertono circa i pericoli nell’intraprendere un percorso mai battuto prima d’ora e che, per quello che può valere, soprattutto per il Fianna Fáil significherebbe anche infrangere la promessa elettorale di non entrare a far parte di un governo con il Fine Gael.
Un esecutivo formato dai due partiti di centro-destra promuoverebbe infine per la prima volta a formazione principale dell’opposizione il Sinn Fein, assicurando a quest’ultimo, viste le politiche impopolari che ancora una volta si prospettano, un ulteriore passo avanti in termini di consensi in vista del prossimo appuntamento con le urne.