- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le manovre all’interno del Partito Repubblicano per impedire a Donald Trump di conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti si stanno intensificando in previsione delle ultime primarie e della convention nazionale del mese di luglio. La sfida sembra però essersi ormai spostata in buona parte dagli appuntamenti con le urne delle prossime settimane alle iniziative in atto per il controllo dei delegati del partito che, vista la natura della sfida tra i Repubblicani in questo 2016, potrebbero essere chiamati a decidere in prima persona il nome del candidato alla Casa Bianca.
Lo scontro si è aggravato dopo che Trump ha mostrato evidenti segni di vulnerabilità di fronte agli attacchi dei rivali interni, ovvero praticamente tutti i vertici Repubblicani e i grandi finanziatori del partito. La netta sconfitta nelle primarie del Wisconsin della settimana scorsa, in particolare, è stata assieme la dimostrazione dell’efficacia della campagna anti-Trump e il catalizzatore dei nuovi sforzi messi in atto per fermare lo slancio del miliardario di New York.
Se Trump continua ad avere ottime possibilità di vincere il 19 aprile nel suo Stato e nelle successive primarie in vari stati del nord-est, la maggior parte degli osservatori ritiene che l’esito più probabile, una volta esaurito il calendario elettorale, sarà l’assenza di un candidato in grado di presentarsi alla convention di Cleveland con la maggioranza assoluta dei delegati, cioè la soglia necessaria per incassare automaticamente la nomination del partito.
Le primarie e i “caucuses” dei due principali partiti politici americani prevedono che gli elettori scelgano in ogni singolo stato non direttamente il candidato alla presidenza, bensì un certo numero di delegati da inviare alla convention del partito, dove saranno loro a votare per l’assegnazione della nomination.
Le regole del Partito Repubblicano, così come in larga misura quelle del Partito Democratico, prevedono che, durante la prima votazione alla convention, il 95% dei delegati provenienti da tutto il paese sia tenuto a dare la propria preferenza in base al risultato delle primarie o dei “caucuses” nei rispettivi stati. La prima votazione riflette così fedelmente l’esito delle elezioni dei mesi precedenti o, meglio, la distribuzione dei delegati che esse hanno decretato.
Se, però, nessun candidato si è assicurato durante primarie e “caucuses” il 50% più uno dei delegati in palio, la prima votazione si risolverà quasi certamente senza l’assegnazione della nomination. In tal caso, alla seconda tornata il 60% dei delegati alla convention può votare per il candidato preferito senza alcun vincolo. Alla terza, poi, la quota di delegati svincolati dal voto delle primarie sale all’80% e così via.
Su questo scenario puntano dunque i leader Repubblicani e i candidati che inseguono Trump – il senatore del Texas, Ted Cruz, e il governatore dell’Ohio, John Kasich – e a tale fine hanno creato strategie relativamente insolite che stanno diventando sempre più chiare in queste settimane.
Il Washington Post ha scritto mercoledì che Cruz e il suo staff sono ormai praticamente certi dell’impossibilità per Trump di ottenere la nomination in un’eventuale seconda votazione alla convention, obbligandolo quindi a raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati al termine di primarie e “caucuses”.Se ciò dovesse corrispondere al vero, questo risultato sarebbe determinato dall’opera, ancora in corso, degli uomini di Cruz nelle più o meno oscure assemblee locali e statali, nelle quali si è iniziato a scegliere i delegati da inviare alla convention di Cleveland.
In tornate elettorali nelle quali emerge precocemente il favorito alla nomination, queste procedure richiamano ben poca attenzione, ma risultano importanti quando prevale l’equilibrio o, come quest’anno, si prevede che nessun candidato possa ottenere la maggioranza dei delegati in palio.
Le sezioni statali del Partito Repubblicano selezionano in vari stadi i delegati che voteranno alla convention nazionale e se, come già spiegato, essi sono vincolati all’esito di primarie o “caucuses” nella prima votazione, in seguito potranno votare secondo le loro preferenze. Per questa ragione, i candidati alla nomination hanno deciso di intervenire per cercare di influenzare i meccanismi delle assemblee locali, così da cercare di fare eleggere delegati che votino per loro a partire dalla seconda elezione alla convention.
Trump, in realtà, ha mostrato una grave impreparazione in questo ambito, mentre Cruz sta avendo un successo decisamente maggiore. Il senatore ultra-conservatore del Texas ha infatti da tempo costruito una struttura organizzativa capillare ed efficiente in molti stati che sta tornando utile in questo frangente. Trump, al contrario, ha puntato fin dall’inizio sulla sua immagine e sul web, tralasciando i dettagli di una campagna che potrebbe giocarsi proprio su meccanismi di selezione enigmatici e quasi sempre trascurati.
In definitiva, i delegati di parecchi stati potrebbero essere sostenitori di Ted Cruz anche se alla prima votazione alla convention saranno tenuti a votare Trump. Cruz, ad esempio, si è assicurato l’appoggio della maggioranza dei delegati eletti recentemente in Colorado, North Dakota e Iowa. A suo favore dovrebbero impegnarsi, in caso di mancato successo di Trump alla prima votazione, anche un nutrito numero di delegati che verranno selezionati a breve in stati come Indiana, Wyoming e Arkansas.
A sostenere questa campagna anti-Trump è anche l’organizzazione “Our Principles”, una “Super PAC” (“Political Action Committee”) che ha come unico obiettivo quello di far naufragare la corsa del favorito Repubblicano. Le “Super PAC” sono organi previsti dalla legge elettorale USA che hanno la facoltà di raccogliere e spendere cifre illimitate a sostegno di una causa particolare o di un determinato candidato, a patto che non coordinino direttamente con quest’ultimo le loro attività.
La maggior parte dei dollari spesi finora da “Our Principles” è andata a finanziare campagne pubblicitarie per screditare Trump, ma recentemente un certo flusso di denaro è stato destinato anche alle operazioni descritte in precedenza per evitare la selezione di delegati intenzionati a sostenere l’uomo d’affari newyorchese. Per quest’ultimo scopo sono stati spesi finora meno di 100 mila dollari, contro svariati milioni in spot televisivi e su internet. Una simile voce di spesa è però decisamente insolita, o addirittura inedita, per una “Super PAC”.
Trump, da parte sua, non è rimasto a guardare il coalizzarsi di forze a lui ostili nel proprio partito. In alcune apparizioni pubbliche, questa settimana ha sparato a zero contro l’establishment Repubblicano. Il sistema di regole che Cruz sta sfruttando è stato ad esempio definito “truccato” e fatto apposta per “escludere” determinati candidati. Su FoxNews è invece tornato a prospettare possibili disordini nel caso la nomination dovesse essergli sottratta alla convention, ovvero assegnata a un candidato che non ha ottenuto la maggioranza delle preferenze e dei delegati durante primarie e “caucuses”.
Al di là dell’esito finale della sfida Repubblicana, i toni dello scontro, le manovre in atto per ostacolare Donald Trump e lo stesso emergere di quest’ultimo come serio contendente alla Casa Bianca testimoniano dello stato di profonda crisi che sta attraversando il partito.L’emergenza Trump a cui l’apparato di potere Repubblicano sta cercando di far fronte è d’altra parte il risultato di decenni di costante spostamento a destra del partito, assieme all’intero panorama politico americano, e della promozione di forze reazionarie. A tutto ciò vanno aggiunti il persistere degli effetti della crisi economica e il crescente discredito della classe politica di Washington; fattori che hanno finito per lanciare forse per la prima volta negli Stati Uniti un candidato per molti versi dalle caratteristiche di stampo apertamente fascista.
Se anche Trump verrà fermato prima della conquista della nomination, ad ogni modo, la battaglia tra i Repubblicani non potrà che lasciare strascichi pesantissimi in vista del voto di novembre, col rischio forse di spaccare il partito e, quasi certamente, di consegnare la Casa Bianca nuovamente ai Democratici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Goldman Sachs e il Dipartimento di Giustizia di Washington hanno annunciato questa settimana il raggiungimento di un accordo per il pagamento di una sanzione di circa 5,1 miliardi di dollari a causa del comportamento fraudolento tenuto dal colosso bancario americano alla vigilia dell’esplosione della crisi finanziaria del 2008. Più che una punizione, tuttavia, si tratta appunto di un “accordo” tra le due parti che, nel concreto, risulterà decisamente meno gravoso di quanto appaia per una delle banche più coinvolte nella truffa dei cosiddetti mutui “subprime” negli Stati Uniti.
Goldman Sachs, secondo i termini dell’accordo, ha dovuto ammettere le proprie responsabilità nella vendita ai propri clienti - tra il 2005 e il 2007 - di prodotti finanziari legati a mutui non solvibili, per i quali la banca aveva proposto una “immagine falsa e fuorviante”.
Emblematico della condotta di Goldman Sachs è stato un episodio riportato da vari giornali negli USA e non solo. Un rapporto del 2006 che raccomandava agli investitori di acquistare titoli della banca Countrywide, i cui mutui problematici erano finiti nei prodotti finanziari di Goldman Sachs, era stato commentato in questo modo da un dipendente di quest’ultima: “se solo sapessero”.
Una speciale commissione era stata inoltre creata dalla stessa banca per valutare l’affidabilità dei titoli legati ai mutui da proporre ai clienti, ma tra il 2005 e il 2007 essa non ne aveva bocciato nemmeno uno. I vertici di Goldman Sachs sostengono ora che alla commissione erano state fornite solo informazioni parziali sui prodotti che avrebbero poi contribuito ad affondare l’intero sistema finanziario americano.
L’ammissione di colpa, prevedibilmente, non ha comunque portato né a misure punitive adeguate né, tantomeno, all’incriminazione di un solo dirigente di Goldman Sachs. I termini del patteggiamento rendono dunque risibili le dichiarazioni sull’esemplarità della sanzione rilasciate da vari esponenti del Dipartimento di Giustizia americano, come quelle del numero uno della divisione che si occupa delle cause civili, Benjamin Mizer. Secondo quest’ultimo, “l’accordo odierno è un altro esempio della determinazione del Dipartimento [di Giustizia] di mettere di fronte alle proprie responsabilità quanti, a causa della loro condotta illegale, hanno provocato la crisi finanziaria del 2008”.
Sulla carta, la sanzione “esemplare” imposta o, meglio, concordata e approvata da Goldman Sachs prevede il pagamento di 2,4 miliardi di dollari in sede civile, a cui vanno aggiunti 1,8 miliardi sotto forma di iniziative destinate a investitori e sottoscrittori di mutui penalizzati dalle pratiche della banca, ma anche a comunità negli Stati Uniti gravemente colpite dalla crisi immobiliare. 875 milioni, infine, dovrebbero coprire le richieste di danni avanzate da altre agenzie federali e statali.
Di per sé, le cifre in questione andrebbero a pesare solo in maniera relativamente minima sui profitti di Goldman Sachs. Per il Financial Times, i 5,1 miliardi di dollari totali sarebbero coperti dalla maggior parte degli utili registrati dalla banca solo nel terzo trimestre del 2015.
In realtà, solo una parte di questo importo verrà effettivamente pagato da Goldman Sachs. Come ha spiegato il fondatore dell’organizzazione Better Markets, che si batte per una più severa regolamentazione dell’industria finanziaria, le parti hanno “gonfiato enormemente l’importo della sanzione per scopi di propaganda”. Cioè, sostanzialmente, per “ingannare l’opinione pubblica, mentre i dettagli dell’accordo permetteranno a Goldman Sachs di risparmiare tra il 50% e il 75%” della cifra annunciata.Il New York Times ha scritto martedì che la banca “godrà di considerevoli concessioni” in particolare nell’adottare le iniziative destinate ai consumatori ingannati. Infatti, “in linea di massima, il denaro che Goldman spenderà [a questo scopo] potrà essere detratto dal proprio carico fiscale”. Se la banca dovesse ad esempio sborsare 2,5 miliardi per far fronte ai problemi provocati da essa stessa agli investitori e l’aliquota teorica a cui è soggetta sarà del 35%, vale a dire quella nominalmente prevista per le corporation negli USA, potrà ottenere un credito fiscale pari a 875 milioni di dollari.
In definitiva, Goldman Sachs avrà di fatto la possibilità di pagare una cifra molto inferiore rispetto a quella che sembrerebbe essere stata fissata dall’accordo, a detta del Times non più di 4 miliardi. Tutte le condizioni che consentono un simile risparmio sono descritte in vari allegati che di solito accompagnano i patteggiamenti tra il Dipartimento di Giustizia e i grandi istituti finanziari.
Le stesse banche che negli anni scorsi sono state colpite da sanzioni hanno beneficiato di “sconti” vari, prevalentemente sotto forma di crediti d’imposta. Goldman Sachs, però, sembra essere riuscita a spuntare condizioni migliori rispetto ad altre, con ogni probabilità grazie a legali più capaci o con legami più importanti all’interno del governo.
Goldman Sachs, ad esempio, ha ottenuto un credito d’imposta di 1,5 dollari per ogni dollaro di debito cancellato entro i primi sei mesi dalla firma dell’accordo, mentre JPMorgan Chase nel 2013 dovette accontentarsi di 1,15 dollari.
Un anonimo esponente del Dipartimento di Giustizia ha spiegato sempre al New York Times che Goldman Sachs ha avuto questo trattamento di favore per avere accettato di impegnarsi in “attività incoraggiate dal governo, come il finanziamento di abitazioni destinate ai redditi più bassi o il sostegno ad aree colpite da calamità naturali”. La stessa fonte ha però anche ammesso che i termini dell’accordo sono stati in larga misura il risultato delle trattative tra la banca e il governo, ovvero della capacità della prima di convincere quest’ultimo a non imporre misure eccessivamente gravose.
Quello con Goldman Sachs è il quinto patteggiamento raggiunto dal Dipartimento di Giustizia dal 2012, quando il presidente Obama creò una commissione (“Residential Mortgage-Backed Securities Working Group”) incaricata precisamente di far luce sulla condotta delle grandi banche di Wall Street responsabili del disastro finanziario scoppiato nel 2008.
L’amministrazione Obama ha in realtà fatto di tutto da allora per salvare gli istituti e i loro vertici dalle conseguenze legali di pratiche criminali descritte qualche anno fa nel dettaglio e con toni molto duri anche da una commissione di indagine del Senato. Le iniziative prese dal governo di Washington servono e sono servite più che altro a placare l’avversione popolare nei confronti degli istituti finanziari.
Oltre a Goldman Sachs, hanno già patteggiato sanzioni con il Dipartimento di Giustizia per gli abusi legati ai “subprime” anche JPMorgan Chase (13 miliardi di dollari), Bank of America (16,6 miliardi), Citibank (7 miliardi) e Morgan Stanley (3,2 miliardi). In questi e altri casi, relativi a crimini finanziari di diversa natura, le ammende sono state concordate con i colpevoli e gli importi dichiarati sono sempre risultati di molto superiori a quelli effettivamente pagati o da pagare.Quella finanziaria è d’altra parte una delle industrie che ha la maggiore influenza sulla politica americana e, di conseguenza, sulle agenzie di regolamentazione del settore in cui operano. Le dimensioni raggiunte dalle principali banche, come ammise qualche anno fa l’allora ministro della Giustizia, Eric Holder, le rende inoltre agli occhi del governo e del Congresso “too big to fail” - troppo grandi per fallire - così che i provvedimenti nei loro confronti non possono in nessun modo comprometterne la stabilità.
Le sanzioni modeste - in relazione ai loro profitti - che sono chiamate a pagare, per lo meno quando viene scongiurata la totale impunità, cioè nella maggior parte dei casi, corrispondono così sostanzialmente a una sorta di tassa da corrispondere di quando in quando per poter continuare a fare affari (enormi) senza preoccuparsi delle regole o della sorte di decine di milioni di persone.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La visita a sorpresa nel fine settimana in Afghanistan del segretario di Stato americano, John Kerry, è giunta nel pieno della grave crisi politica che sta attraversando il fragile governo di “unità nazionale” del paese sotto occupazione USA dal 2001. Il capo della diplomazia statunitense ha cercato di invitare tutte le parti coinvolte a collaborare per il bene del paese, ribadendo la fiducia in un esecutivo che egli stesso aveva contribuito in maniera decisiva a far nascere nel 2014 dopo le ennesime elezioni contestate.
L’accordo che Kerry aveva mediato quasi due anni fa prevedeva l’affiancamento al presidente, Ashraf Ghani, della figura di un “chief executive” nella persona di Abdullah Abdullah, cioè il principale sfidante di Ghani nelle elezioni. I due avrebbero dovuto costituire una sorta di super-governo per superare le divisioni etniche e gli interessi di parte che minacciavano di far scivolare il paese nuovamente nella guerra civile.
Il ruolo assegnato a Abdullah non era previsto dalla costituzione afgana, così che alcune modifiche a quest’ultima avrebbero dovuto creare la posizione di primo ministro per legittimare l’intesa tra i due contendenti alla presidenza. Quello che era stato salutato nel 2014 come un successo della diplomazia USA è diventato però l’ennesimo incubo, soprattutto per la popolazione afgana, costretta a far fronte alle conseguenze della paralisi politica che ne è derivata, ma anche della consueta corruzione dilagante, dell’aggravamento della sicurezza interna e del persistere dello sfacelo dell’economia.
Sabato a Kabul, Kerry ha provato comunque a ostentare un qualche ottimismo o, per lo meno, ad assicurare i vertici politici afgani della fiducia dell’amministrazione Obama in un processo che, come hanno ammesso molti diplomatici occidentali alla stampa internazionale, non ha al momento alternative percorribili. Così, anche se la scadenza del governo di “unità nazionale” era stata fissata per il prossimo mese di ottobre, data in cui dovrebbero tenersi le elezioni parlamentari, già si parla di un quasi certo rinvio almeno alla primavera del 2017, vista l’assenza di progressi sulla riforma elettorale promessa.
Lo stesso Kerry ha affermato che il patto tra Ghani e Abdullah ha validità per tutto il mandato elettorale – cinque anni – e il governo in carica ha legittimità per proseguire con l’attuale formula, quindi anche senza modifiche alla Costituzione. La benedizione americana al gabinetto di Kabul non è necessariamente di buon auspicio per la stabilità afgana, anzi, il permanere dello stallo che ha caratterizzato questi mesi rischia di aggravare i già enormi problemi del paese ma, ancora una volta, per le forze di occupazione l’alternativa potrebbe risultare anche peggiore.
Qualche progresso o, meglio, la sopravvivenza di una struttura di governo a livello centrale con un livello minimo di legittimità agli occhi della comunità internazionale è d’altra parte condizione indispensabile per convincere i paesi occidentali già scettici a non interrompere il flusso di denaro che tiene in piedi l’economia dell’Afghanistan e le sue forze di sicurezza.
A Varsavia nel mese di luglio si terrà un importante summit della NATO nel quale dovrebbero essere discusse le modalità per finanziare il rafforzamento delle forze armate afgane, mentre a ottobre a Bruxelles sarà l’entità degli aiuti finanziari civili a essere al centro dell’attenzione. A sottolineare quanto siano cruciali questi appuntamenti per il futuro del governo-fantoccio di Kabul è stato Kerry nel fine settimana, quando nella conferenza stampa con il presidente Ghani ha inviato quest’ultimo ad “assicurarsi che tra oggi e i vertici di Varsavia e Bruxelles, l’Afghanistan si mantenga nella giusta direzione”.Intanto, forse anche grazie alla presenza di Kerry a Kabul, sabato il parlamento afgano ha finalmente approvato la nomina di due membri del governo, il ministro dell’Interno e il Procuratore Generale, i quali, assieme al ministro della Difesa e al capo dell’intelligence, hanno ricoperto finora i loro incarichi in via provvisoria. Il nuovo ministro dell’Interno – generale Taj Mohammad Jahid – è un fedelissimo di Abdullah ed era stato nominato nel mese di febbraio in seguito alle dimissioni del suo predecessore.
Proprio una serie di dimissioni nelle ultime settimane ha ulteriormente indebolito il governo, contribuendo a intensificare le richieste di dimissioni rivolte a Ghani da parte di svariati leader dell’opposizione e di membri del precedente governo dell’ex presidente, Hamid Karzai.
La stabilità del governo di Kabul e la situazione relativa alla sicurezza interna influenzeranno poi la decisione di Washington di mantenere o ridurre il contingente di occupazione in Afghanistan, peraltro legata anche alle dinamiche strategiche in Asia centrale che appaiono in fase di riallineamento soprattutto riguardo la Cina e il Pakistan.
Obama aveva già congelato il numero di truppe USA a 9.800 per l’intero 2016, ma a partire dal 2017 gli uomini dovrebbero scendere a 5.500. I leader militari americani mettono però in guardia da mosse affrettate, se di fretta si può parlare dopo quasi 15 anni di occupazione, facendo notare come nell’ultimo periodo la situazione interna in Afghanistan sia nuovamente peggiorata. Kerry, da parte sua, ha affermato che la riduzione nel numero dei propri soldati non è in discussione, salvo poi vincolare ogni iniziativa al “parere” dei generali.
I Talebani sono tornati d’altronde a condurre operazioni con un certo successo, in taluni casi anche in maniera clamorosa, e controllano oggi circa un terzo del territorio afgano. I colloqui di pace con gli studenti del Corano appaiono inoltre in alto mare, nonostante Kerry abbia rinnovato una vaga offerta di sedersi al tavolo delle trattative con gli “insorti” nel corso della sua visita.
La precarietà degli scenari afgani e le prospettive ben poco rosee per il futuro di questo paese sono apparse evidenti proprio subito dopo la partenza di Kerry da Kabul, quando un paio di esplosioni hanno colpito il quartiere diplomatico della capitale.
Al di là delle dichiarazioni ottimistiche e degli inviti, seguiti da immancabili promesse, alla costruzione di istituzioni democratiche in Afghanistan, il bilancio della più lunga guerra della storia americana continua a essere rovinoso. Gli stessi giornali ufficiali negli USA faticano a nascondere una realtà che, nelle parole ad esempio del Washington Post, è fatta prevalentemente di “illegalità, corruzione” ed “espansione dell’influenza dei Talebani”.
Il caso della provincia meridionale di Helmand è emblematico del fallimento del progetto americano di stabilizzazione dell’Afghanistan a oltre 14 anni dall’invasione seguita agli attentati dell’11 settembre 2001. Un’indagine pubblicata settimana scorsa dal New York Times ha messo in luce come Helmand continui a fornire i due terzi dell’eroina prodotta in Afghanistan, paese da cui a sua volta proviene il 90% del totale consumato nel pianeta.In questa provincia, per quest’anno non è in programma nessuna operazione per sradicare le coltivazioni della materia prima destinata alla produzione di eroina, il papavero da oppio, a causa dell’avanzata dei Talebani ma anche della corruzione “fuori controllo”.
La marcia indietro rispetto agli sforzi del 2014 e del 2015 è dovuta infatti principalmente proprio agli interessi economici che sostengono la coltivazione del papavero da oppio, la quale consente a molti uomini di potere, sia a livello locale che a Kabul, sia tra i Talebani che gli esponenti del governo, di intascare centinaia di migliaia, se non milioni, di dollari.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le primarie di martedì in Wisconsin per le presidenziali USA hanno segnato una prevista battuta d’arresto per i due candidati favoriti nella corsa alla Casa Bianca. Per quanto riguarda gli equilibri numerici in chiave nomination, la sconfitta di Donald Trump appare nettamente più pesante rispetto a quella incassata da Hillary Clinton, la quale continua però a mostrare evidenti punti deboli che vengono sfruttati in maniera sempre più frequente dal suo lanciatissimo rivale, Bernie Sanders.
Il senatore del Vermont ha ottenuto il 56,5% dei consensi nelle primarie dell’unico stato chiamato a votare martedì, lasciando all’ex segretario di Stato il 43,1%. Il margine di vantaggio di Sanders è stato ancora una volta superiore rispetto a quello previsto da molti sondaggi, la maggior parte dei quali lo stimava non troppo al di sopra dei 5 punti percentuali.
Se pure con un elettorato Democratico dalle caratteristiche che sembrano adattarsi perfettamente a Sanders, il Wisconsin non è uno stato marginale nella mappa politica degli Stati Uniti e la portata del suo successo può essere difficilmente sottostimata se si pensa allo status di super-favorita attribuito a Hillary da tutti i principali media americani e dai vertici del partito.
Sanders ha prevalso in 69 delle 72 contee in cui è suddiviso lo stato, così come nella città culturalmente più vivace - Madison - e in svariati centri industriali. Le rilevazioni fuori dai seggi hanno evidenziato come il veterano senatore abbia di nuovo stravinto tra gli elettori più giovani, tra i bianchi e quelli che considerano come temi elettorali più importanti le disuguaglianze di reddito e la crisi economica.
Forse per la prima volta dall’inizio delle primarie, poi, Sanders ha fatto registrare un chiaro vantaggio su Hillary tra gli afro-americani e gli appartenenti ad altre minoranze etniche, anche se limitatamente alle fasce di età più basse.
Il fattore che ha proiettato Sanders alla vittoria in Wisconsin e, più in generale, che gli ha permesso da tempo di scrollarsi di dosso l’etichetta di candidato marginale sembra essere in primo luogo lo spostamento a sinistra dell’elettorato americano, soprattutto quello tendenzialmente orientato a votare per il Partito Democratico.
A dimostrare questa evoluzione sono stati molti sondaggi negli ultimi mesi. Alcuni di essi hanno ad esempio rivelato la crescita consistente in questi anni del numero di elettori Democratici che si autodefiniscono “progressisti” o “molto progressisti”, se non addirittura “socialisti” o meglio disposti verso il socialismo rispetto al capitalismo.
Quello Democratico rimane e rimarrà peraltro un partito fortemente ancorato a determinate sezioni delle élite economico-finanziarie americane e contraddistinto da una drammatica deriva verso destra, sia che il “ticket” presidenziale presenti alla fine Hillary o Sanders. La mobilitazione popolare attorno a quest’ultimo e alla sua piattaforma elettorale di “sinistra” - sia pure non su tutte le questioni - indica però il diffusissimo desiderio di cambiamento in senso progressista tra le classi medio-basse che non possono trovare altre alternative nell’attuale sistema politico americano.
Il quasi totale sostegno per Hillary Clinton dell’establishment Democratico e della stampa che conta è la diretta conseguenza di questi fattori, soprattutto del timore non tanto dell’affidabile Sanders, per decenni sostanzialmente allineato all’ala “liberal” del partito, quanto per i chiarissimi segnali del radicalizzarsi dell’opposizione popolare contro il sistema.
Hillary e il suo staff, dunque, cominciano a mostrare le apprensioni che nutrono per la possibile rimonta di Sanders, ben conoscendo la vulnerabilità di una candidata guerrafondaia e legata a doppio filo a Wall Street e ai poteri forti negli USA. La ex first lady non è ad esempio apparsa in pubblico martedì sera dopo la chiusura delle urne in Wisconsin e mercoledì il sito di informazione Politico.com ha pubblicato un’intervista nella quale è apparsa a tratti spazientita dalla permanenza del rivale nella corsa, tanto da mettere in discussione la fedeltà di Sanders al Partito Democratico.In termini numerici, comunque, Sanders ha ancora moltissima strada da fare per chiudere il divario di delegati da Hillary. Il successo di martedì gli ha infatti permesso di recuperarne appena una decina e di ridurre il margine a circa 230. Sanders ha però vinto sette delle ultime otto primarie (o “caucuses”) e già sabato si prospetta un nuovo successo in Wyoming che potrebbe dare al senatore un’altra spinta in vista delle sfide decisive dopo la metà di aprile, nonostante il numero totale dei delegati in palio in questo stato non arrivi a 20.
Cruciale sembra essere il voto del 19 aprile nello stato che mette a disposizione il numero maggiore di delegati dopo la California, quello di New York, per il quale Hillary ha servito al Senato di Washington. La Clinton è data attualmente in vantaggio e può contare come al solito sull’appoggio di tutto il potente apparato Democratico dello stato. Sanders, nativo di Brooklyn, spera però in un clamoroso sorpasso grazie all’entusiasmo generato dalle recenti vittorie e dal denaro che esse hanno fatto entrare nelle casse della sua campagna elettorale.
Nelle primarie per il Partito Repubblicano, Donald Trump ha dovuto incassare la sconfitta più pesante dal primo appuntamento a inizio febbraio in Iowa. Come in quel caso, anche in Wisconsin a batterlo è stato il senatore ultra-conservatore cristiano fondamentalista del Texas, Ted Cruz. L’esito del voto è stato piuttosto netto (48% a 35%, con il governatore dell’Ohio, John Kasich, fermo al 14%) e potrebbe avere frustrato in maniera definitiva le speranze di Trump di conquistare la maggioranza assoluta dei delegati e, quindi, la nomination al termine delle primarie.
Per i giornali americani, l’imprenditore miliardario dovrebbe infatti conquistare quasi il 70% dei delegati ancora da assegnare per evitare una battaglia alla convention Repubblicana di luglio, in programma a Cleveland, nell’Ohio. Se si dovesse arrivare senza un candidato in grado di giungere alla soglia dei 1.237 delegati necessari per ottenere automaticamente la nomination, tutti i votanti alla convention potranno in sostanza scegliere liberamente a chi assegnarla.
In uno scenario simile, al momento Trump sembra avere poche chances di prevalere, viste le manovre che i vertici del Partito Repubblicano e i suoi finanziatori stanno mettendo in atto per far naufragare la candidatura del favorito. Una campagna sostenuta da milioni di dollari in donazioni, assieme a una lunga serie di gaffes e controversie in cui si è venuto a trovare lo stesso Trump, hanno avuto un certo effetto nel rallentare la corsa di quest’ultimo.
L’apparato di potere Repubblicano, o quanto meno una buona parte di esso, è insomma disposto a rischiare una spaccatura nel partito e la diserzione dei sostenitori di Trump nelle presidenziali pur di impedire la sua presenza sulle schede elettorali a novembre. Allo stesso tempo, il partito sembra avere digerito l’ipotesi di candidare Cruz alla Casa Bianca, nonostante anch’egli non risulti particolarmente ben visto dai leader Repubblicani e sia attestato su posizioni decisamente estreme.
La profonda opposizione che Trump sta incontrando all’interno del suo stesso partito si spiega in parte con il suo atteggiamento più adatto a un uomo di spettacolo che a un politico e alle posizioni in odore di fascismo evidenziate durante la campagna elettorale. Un simile candidato, insomma, risulterebbe ineleggibile, col rischio di consegnare nuovamente la presidenza ai Democratici.
Questa spiegazione non esaurisce però le ragioni dello scontro sulla candidatura di Trump, tanto più che di candidati al limite del presentabile i Repubblicani ne hanno avuti molti, basti pensare a George W. Bush, o che talune sue “proposte” di estrema destra differiscono da quelle normalmente accettate dal resto del partito solo nelle modalità e nei toni con cui vengono esposte.
Trump, probabilmente, suscita preoccupazione tra l’establishment Repubblicano anche per la sua relativa indipendenza dai grandi centri economici e finanziari e, soprattutto, per avere ipotizzato alcune iniziative che contrasterebbero con le mire strategiche ben consolidate a Washington, come il ridimensionamento della NATO o la convivenza pacifica degli USA con Russia e Cina.Che Trump riesca o sia intenzionato a seguire questa strada una volta alla Casa Bianca è comunque in fortissimo dubbio, come dimostra anche la scelta del suo team di consiglieri in materia di politica estera, fatto prevalentemente di “neo-con” e “falchi” dell’interventismo a stelle e strisce.
Anche Trump ha in ogni caso accusato il colpo martedì, visto che insolitamente non ha tenuto discorsi pubblici dopo il voto in Wisconsin, lasciando il commento sulle primarie a un breve comunicato che ha descritto Cruz come “peggio di un burattino” e “un cavallo di Troia usato dai capi del partito” per cercare di derubarlo della nomination.
Se l’obiettivo di chiudere il discorso nomination prima della convention sembra dunque allontanarsi, per Trump si tratta ora di accumulare il maggior numero di delegati in modo da scoraggiare clamorosi ribaltoni a Cleveland. Anche per lui l’appuntamento chiave nel breve periodo è rappresentato dalle primarie di New York, cioè il suo stato, dove continua a rimanere favorito.
Qui, però, Trump avrà tutto da perdere, dal momento che i nuovi scenari in casa Repubblicana lo costringeranno non solo a vincere ma addirittura a stravincere per cercare di arginare l’ondata di opposizione interna che rischia di travolgere la sua campagna.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
I preparativi per un nuovo intervento militare dell’Occidente in Libia, dopo le conseguenze disastrose dell’operazione di cambio di regime progettata e portata termine nel 2011, sembrano continuare senza sosta nonostante le difficoltà del cosiddetto “processo di pace” promosso dalle Nazioni Unite. Le operazioni nel paese nordafricano dovrebbero infatti iniziare solo dopo l’insediamento del governo di “unità nazionale”, nato con l’appoggio della comunità internazionale ma che fatica a raccogliere il consenso delle due entità che controllano la Libia e le milizie su cui esse poggiano il loro potere.
Il nuovo governo, o Consiglio Presidenziale, è stato creato a tavolino dai governi occidentali lo scorso dicembre ed è guidato dal “tecnico” Fayez al-Sarraj. I suoi membri sono giunti a Tripoli via mare dalla Tunisia settimana scorsa e hanno potuto installarsi nella capitale solo grazie al seguito di una massiccia scorta armata.
Come ha scritto lunedì la Reuters, il governo sostenuto dall’ONU ha subito cercato di “imporre la propria autorità ordinando il congelamento dei budget dei ministeri” e, soprattutto, assicurandosi la protezione di “una potente milizia armata”. Lo stesso governo aveva ottenuto anche l’appoggio formale dell’Autorità libica per gli Investimenti, della Corporazione Nazionale per il Petrolio e della Banca Centrale.
In segno di sostegno alla nuova compagine, martedì il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, ha fatto sapere che Parigi intende riaprire la propria rappresentanza diplomatica a Tripoli. Sempre martedì, l’inviato speciale dell’ONU per la Libia, Martin Kobler, ha incontrato a Tripoli i membri del Consiglio Presidenziale, dopo che solo alcune settimane fa gli era stato impedito di recarsi nel paese.
Se poi al momento “non si registrano reazioni violente da parte delle altre milizie”, la sorte del governo non appare comunque rosea. Il governo filo-occidentale che opera da Tobruk, nella parte orientale del paese, ha ad esempio detto di opporsi all’assunzione dei pieni poteri da parte del gabinetto di “unità nazionale” prima di un voto formale del proprio parlamento, come peraltro previsto dall’accordo mediato dalle Nazioni Unite.
Nel caso, però, il governo di Sarraj dovesse stabilire rapporti troppo stretti con le milizie attive a Tripoli e nella Libia occidentale, verrebbe visto da Tobruk come uno strumento di queste ultime, tanto da far saltare l’intero accordo voluto dall’ONU.
La situazione confusa e la fragilità del nuovo governo da poco giunto in Libia riflettono le manovre e gli interessi dei paesi che in Occidente lo hanno voluto. Questo organismo, finora senza praticamente alcun potere, ha cioè come unico scopo quello di ottenere almeno una parvenza di legittimità così da richiedere in maniera formale l’assistenza militare della NATO, ufficialmente per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) e gli altri gruppi fondamentalisti che operano in Libia.
In altre parole, di fronte alla disgregazione di questo paese, dovuta precisamente al precedente intervento del 2011, i governi e le compagnie occidentali ritengono che i propri interessi in Libia possano essere difesi solo con una nuova presenza militare. Per fare ciò è indispensabile passare attraverso un processo apparentemente legale e motivato dalla necessità di garantire la sicurezza e la stabilità del paese.Le milizie fondamentaliste che forniscono oggi la giustificazione - almeno a livello ufficiale - per un nuovo intervento militare esterno in Libia sono nate da quegli stessi gruppi sostenuti dai paesi NATO nel 2011 per abbattere il regime di Gheddafi e che, dopo avere contribuito con migliaia di combattenti alla guerra in Siria contro le forze di Assad, hanno rivolto in varie occasioni le armi verso i loro (ex) benefattori occidentali.
I preparativi per la guerra sono stati annunciati dal presidente americano Obama dopo un incontro avvenuto lunedì alla Casa Bianca con il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. Obama ha detto di essere certo che gli USA e i loro alleati possano “fornire un aiuto enorme per stabilizzare” la Libia, mentre Stoltenberg ha assicurato che la NATO “è pronta ad appoggiare il nuovo governo” di Tripoli.
Sempre lunedì, poi, il Washington Post ha spiegato come il Comando militare Africano degli Stati Uniti (AFRICOM) stia studiando “decine di obiettivi in Libia” che potrebbero essere colpiti dagli aerei da guerra americani ed europei, dalla città costiera di Sirte a Derna, entrambe roccaforti di gruppi estremisti e già colpite da aerei USA lo scorso autunno.
Il Pentagono, inoltre, “sta cercando di rafforzare il coordinamento tra le Forze Speciali americane e le loro controparti francesi e britanniche, le quali hanno stabilito piccole cellule sul campo” in Libia per mettere assieme “milizie amiche in grado di affrontare i combattenti estremisti”.
In questo contesto, sarebbe l’Italia a dover giocare un ruolo di primo piano, possibilmente con l’invio di un massimo di seimila uomini da impiegare sul territorio della ex colonia, anche se, aggiunge il Post, al momento non vi è ancora nessun impegno militare concreto né da parte americana né tra i paesi europei.
Se la propaganda di governi e parecchi media occidentali a favore di un nuovo intervento “umanitario” in Libia è creduta ormai da pochi, anche l’efficacia di un’eventuale invasione per stabilizzare il paese che fu di Gheddafi è in fortissimo dubbio. A conferma di ciò vi è, tra l’altro, la contrarietà o, quanto meno lo scetticismo, verso l’intervento NATO dei paesi vicini – Algeria, Egitto, Tunisia – teoricamente i più interessati a un miglioramento della situazione in Libia attraverso la presenza di soldati occidentali e una nuova campagna di bombardamenti aerei.
L’esempio del 2011 è d’altra parte ben impresso nella memoria di quanti hanno fatto le spese del disastroso intervento “umanitario” occidentale in Libia dopo la pianificazione della “rivoluzione” popolare anti-Gheddafi. Svariati analisti, infine, mettono in guardia dalla strategia preparata in Occidente e basata sulla creazione di legami e collaborazioni con determinate milizie armate, visto che rischierebbe di aggravare le divisioni interne al paese e alimentare ulteriori violenze.Stati Uniti ed Europa, peraltro, vedono come una possibile soluzione al caos proprio la frammentazione della Libia, come ha spiegato il già ricordato articolo del Washington Post, da suddividere “in una rete di forze regionali o tribali” appoggiate da un governo centrale che eserciti un minimo di controllo sull’intero paese e che, soprattutto, un certo controllo sulle proprie risorse energetiche lo assicuri ai suoi sponsor occidentali.