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di Mario Lombardo
Il giorno successivo al doppio attentato di Bruxelles, con inattesa tempestività le autorità belghe hanno reso nota l’identità dei tre terroristi sospettati di essersi fatti esplodere all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek. Due degli attentatori sarebbero i fratelli El Bakraoui, già ricercati dalle autorità in connessione con le stragi di Parigi dello scorso novembre. Vista la manifesta incompetenza della polizia e dei servizi di sicurezza belgi, è molto probabile che in questi mesi fossero entrambi nascosti più o meno tranquillamente a Bruxelles o nei dintorni della città.
Secondo la stampa belga, infatti, Khalid El Bakraoui aveva affittato sotto falso nome un appartamento di Forest, comune alle porte della capitale, perquisito dalla polizia il 15 marzo scorso durante la caccia all’unico membro ancora in vita del commando responsabile degli attentati di Parigi, Salah Abdeslam.
Prevedibilmente, come è sempre accaduto in occasione degli attentati di questi anni attribuiti al fondamentalismo islamista in Europa e altrove, i fratelli El Bakraoui erano ben noti alle forze dell’ordine, anche se prevalentemente per avere commesso crimini comuni. Khalid era stato condannato a cinque anni di carcere nel 2011 per furto, mentre il fratello maggiore, Ibrahim, a nove anni per avere sparato sugli agenti che lo stavano inseguendo dopo una rapina.
Le sorti del terzo uomo che avrebbe partecipato agli attentati di martedì sono sembrate chiarirsi solo nel tardo pomeriggio di mercoledì. In mattinata due testate belghe avevano dato la notizia del suo arresto a Anderlecht per poi fare marcia indietro. Più tardi, invece, le autorità di Bruxelles hanno spiegato che si trattava del terzo kamikaze, ovvero il secondo a colpire all’aeroporto.
L’uomo sarebbe Najim Laachraoui, alias Soufiane Kayal, 24enne, anch’egli coinvolto nell’organizzazione degli attentati di Parigi. Tracce del suo DNA erano state ritrovate sul materiale esplosivo utilizzato dai terroristi al teatro Bataclan e allo stadio Saint- Denis. Secondo il sito web del settimane francese Le Nouvel Observateur, nel febbraio 2013 Laachraoui era stato “uno dei primi belgi di origine araba a unirsi alla jihad siriana” e il 18 marzo 2014 le polizie europee avevano emesso nei suoi confronti un mandato di arresto internazionale.
Laachraoui era stato inoltre identificato alla frontiera autro-ungarica nel settembre 2015 assieme a Salah e a un altro organizzatore della strage di Parigi, Mohamed Belkaïd, ucciso nel già ricordato blitz nei pressi di Bruxelles la scorsa settimana.
Come già i movimenti di Salah Abdeslam e l’organizzazione degli stessi attentati di Parigi, anche le prime informazioni su quanto accaduto questa settimana a Bruxelles sollevano moltissimi dubbi e interrogativi. Per cominciare, se i responsabili sono da ricercare nell’entourage di Salah e quindi legati ai fatti di Parigi di novembre, com’è stato possibile che gli attentatori abbiano potuto organizzare una nuova operazione dal territorio belga ?
Gli oltre 100 morti di Parigi, oltre ad avere fatto scattare uno stato d’emergenza ancora in vigore in Francia con l’implementazione di misure da stato di polizia, avevano portato sul Belgio l’attenzione della comunità internazionale e, soprattutto, sulle forze di sicurezza di questo paese. La gravità degli attentati aveva o avrebbe dovuto perciò far salire al massimo il livello di allarme, almeno fino alla cattura dei responsabili ancora in vita.
Questi ultimi, invece, non solo sono rimasti pressoché indisturbati probabilmente in Belgio per più di quattro mesi, ma si sono sentiti talmente al sicuro da organizzare una nuova strage di massa in una città dove i controlli avrebbero dovuto essere eccezionali.Ancora, la cattura di Salah avrebbe dovuto fare innalzare ulteriormente il livello di guardia, come avevano suggerito le stesse dichiarazioni delle autorità circa il pericolo di attentati nei giorni successivi. Ciononostante, un gruppo di super ricercati è riuscito a colpire in maniera multipla proprio in luoghi dove la sorveglianza è solitamente maggiore, come un aeroporto e la rete metropolitana.
Le circostanze insolite sono state poi numerose riguardo sia la ricostruzione dei fatti di martedì sia le fasi iniziali dell’indagine. Con un’altra analogia agli attentati di Parigi, ad esempio, le forze di polizia belghe avrebbero rinvenuto un computer portatile in un cestino della spazzatura nel quartiere Schaerbeek contenente il “testamento” di Ibrahim El Bakraoui.
Nello stesso quartiere di Bruxelles, gli investigatori hanno inoltre trovato in un appartamento del materiale esplosivo e un’immancabile bandiera dello Stato Islamico (ISIS). Questi ritrovamenti lasciano com’è ovvio molti dubbi sul comportamento dei terroristi, in grado da un lato di portare a termine operazioni sofisticate nonostante la sorveglianza di forze di sicurezza dotate di poteri enormi e, dall’altro, talmente sprovveduti da lasciare maldestramente indizi e tracce della loro presenza.
Anche dando per certo che le falle nei sistemi di sicurezza resi evidenti dagli attentati in Belgio, così come almeno parzialmente in quelli dei mesi scorsi in altri paesi, siano da attribuire esclusivamente all’incompetenza delle forze di polizia e dei servizi segreti, a livello generale è inevitabile constatare come questi fatti di sangue alimentino un clima di paura e isteria di cui è fin troppo facile individuarne i beneficiari.
Le stragi deliberate che fanno vittime innocenti hanno una natura profondamente reazionaria proprio perché finiscono col confondere e disorientare l’opinione pubblica, permettendo ai governi dei paesi colpiti di giustificare interventi legislativi che comprimono i diritti democratici e di intensificare l’impegno militare all’estero per difendere o promuovere i propri interessi strategici.
A riprova di ciò, già nelle ore successive agli attentati, politici, capi di stato e di governo in Europa e dall’altra parte dell’Atlantico hanno minacciato misure e interventi più duri per combattere la minaccia terroristica. Le iniziative promesse, va ricordato, dovrebbero così aggiungersi a quelle messe in atto in oltre un decennio di “guerra al terrore” e che hanno eroso drammaticamente diritti democratici e la privacy di tutti i cittadini in Occidente e non solo.
Per quanto odiosa e condannabile, la violenza a cui l’Europa ha nuovamente assistito con la strage di Bruxelles non nasce però dal nulla né, tantomeno, da un presunto odio senza fondamento di una minoranza di fondamentalisti islamici per la libertà o la civiltà occidentale, peraltro intaccata da un processo di grave deterioramento per ben precise ragioni di natura economica e sociale.
Al contrario, il terrore di matrice jihadista è indissolubilmente legato alle manovre e agli interventi militari nel mondo arabo promossi dagli Stati Uniti e dai loro alleati, responsabili della destabilizzazione se non la completa distruzione di interi paesi. L’invasione illegale dell’Iraq del 2003, l’intervento “umanitario” in Libia del 2011 e, ancor più, la guerra scatenata in Siria per il rovesciamento del regime di Assad sono gli esempi più macroscopici di queste politiche dissennate condotte da Washington, Parigi e Londra.
Utilizzando un modello inaugurato oltre tre decenni fa in Afghanistan, gli USA e il loro alleati hanno favorito e apertamente appoggiato l’attività di gruppi fondamentalisti per fare il lavoro sporco contro regimi sgraditi. L’ISIS, assieme ad altre milizie integraliste violente, è la diretta emanazione di queste politiche, tanto che nei primi anni di guerra in Siria le formazioni jihadiste furono responsabili di attentati sanguinosi a Damasco e altrove con le stesse modalità osservate a Parigi o a Bruxelles, spesso senza suscitare nemmeno la condanna formale dei governi occidentali.
La stessa guerra avviata dall’amministrazione Obama contro l’ISIS in Iraq e in Siria è apparsa ben presto come una farsa, vista l’inefficacia di mesi di bombardamenti laddove l’intervento della Russia in tempi relativamente brevi ha ridotto considerevolmente le capacità dei gruppi più estremi.
Una reale strategia di contrasto al terrorismo dovrebbe perciò scaturire, ancor prima che dal rafforzamento dei controlli e dei poteri delle forze di sicurezza o dal coordinamento di queste ultime a livello europeo, da una profonda auto-critica da parte dei governi occidentali.Una simile prospettiva è però virtualmente impossibile all’interno del quadro politico attuale, sia perché significherebbe ammettere l’utilizzo e la collaborazione di questi governi con la stessa galassia fondamentalista che oggi colpisce nel cuore dell’Europa, sia perché la stampa ufficiale è essa stessa responsabile in larga misura della promozione delle guerre e degli interventi “umanitari” che hanno alimentato il mostro jihadista.
Se, dunque, pur essendo quella del terrorismo islamista una minaccia concreta per l’Europa, che richiede iniziative di contrasto ferme, seppure nel rispetto dei diritti democratici universali, qualsiasi strategia che escluda l’assunzione di responsabilità nella creazione del clima tossico attuale da parte dell’Occidente è destinata non solo a fallire ma, ancora peggio, ad aggravare la minaccia stessa e a compromettere ulteriormente quel modello di società che tutti i governi assicurano di voler difendere dalla “barbarie” fondamentalista.
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di Michele Paris
Lo scontro interno al Partito Conservatore in Gran Bretagna attorno al referendum sull’uscita del paese dall’Unione Europea si è aggravato in questi giorni a seguito delle polemiche che hanno accompagnato la proposta per il prossimo bilancio statale presentata dal Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne. Sui nuovi tagli alla spesa sociale previsti nei prossimi anni si è scatenata una guerra aperta che è confluita in quella già in atto sulla cosiddetta “Brexit” e ha costretto il primo ministro, David Cameron, a intervenire personalmente per limitare il danno politico sofferto dal suo governo.
La decisione di Osborne di tagliare i fondi destinati al sostegno delle persone con disabilità per altri 4,4 miliardi di sterline ha fornito l’occasione al ministro per il Lavoro e le Pensioni, Iain Duncan Smith, per dare le proprie dimissioni dall’esecutivo. L’uscita di scena di quest’ultimo, aperto sostenitore dell’abbandono dell’UE, è stata pianificata per nuocere il più possibile alla leadership Conservatrice e, allo stesso tempo, per favorire il coagulo degli anti-europeisti britannici attorno a una campagna populista e anti-elitaria, peraltro del tutto retorica, in grado di attrarre il maggior numero di elettori in vista del voto di giugno.
Duncan Smith ha così accusato Cameron e Osborne di avere abbandonato la promessa di governare non soltanto per i ricchi, tradizionale base di sostegno dei “Tories”, denunciando come “profondamente ingiusti” i tagli e mettendo in guardia dal pericolo di “dividere invece che unire la società” britannica.
Secondo molti osservatori, la strategia di Duncan Smith, degli altri cinque ministri del governo Cameron e del centinaio di parlamentari Conservatori che appoggiano l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sarebbe quella di forzare un cambio alla guida del partito dopo il referendum, se non addirittura provocare una scissione, così da mettere da parte non solo il primo ministro ma anche il suo successore designato, vale a dire lo stesso Osborne.
Quest’ultimo ha poi peggiorato la situazione dopo che lunedì non si è presentato alla Camera dei Comuni per dare chiarimenti sulla proposta di bilancio in seguito all’annuncio della cancellazione dei tagli ai fondi per la disabilità. Per il Tesoro è rimasto il vice di Osborne a fronteggiare l’aula, anche se il Cancelliere ha fatto alla fine la sua apparizione nella giornata di martedì.
Cameron ha dovuto così difendere il suo protetto, assicurando nel contempo che il governo non intende abbandonare la linea della “compassione”. Il successore di Duncan Smith, da parte sua, ha inoltre escluso altri tagli al welfare, almeno per il momento, mentre lo stato di agitazione interno al partito sembra avere convinto il Tesoro anche a rimandare di alcuni mesi la decisione sulle misure da adottare per chiudere il buco di bilancio provocato dal reintegro dei fondi a favore dei disabili.Questa marcia indietro, se nulla ha fatto per far tornare sui suoi passi Duncan Smith o per alleviare il danno provocato dalle sue dimissioni, ha invece messo seriamente nei guai Osborne, quanto meno agli occhi dei sostenitori dell’austerity a oltranza. Le modifiche al “budget” aggraveranno infatti il già previsto sforamento del tetto di spesa per il welfare e, allo stesso tempo, potrebbero mettere a rischio anche l’obiettivo di annullare il deficit di bilancio entro il 2020, data in cui si terranno le prossime elezioni.
Gli scrupoli di Duncan Smith e degli altri Conservatori che hanno criticato il Cancelliere per i tagli troppo pesanti alla spesa pubblica sono comunque tutt’altro che sinceri. Il ministro dimissionario, ad esempio, come ha lasciato intendere Cameron lunedì, è stato uno dei principali artefici del processo di smantellamento del welfare britannico in questi anni, assieme proprio a Osborne. Gli stessi aiuti ai disabili sono già stati privati di oltre 28 miliardi di sterline negli ultimi cinque anni.
Come già anticipato, gli attacchi al governo sui tagli da parte dei Conservatori favorevoli alla “Brexit” servono perciò più che altro a facilitare la creazione di una sorta di piattaforma attorno alla quale possano convergere la destra populista - anche estrema, come il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) - e la “sinistra”, visto che anche tra i Laburisti vi è una minoranza considerevole che chiede di votare per l’addio a Bruxelles.
Esemplari in questo senso sono state le dichiarazioni di questi giorni di svariati politici britannici, tra cui il leader dell’UKIP, Nigel Farage, o l’ex ministro Conservatore nei governi Thatcher e Major, Peter Lilley, i quali hanno sostanzialmente definito assurdi i tagli agli aiuti e ai servizi pubblici destinati ai poveri del Regno Unito mentre Londra continua a contribuire al finanziamento dell’Unione Europea.
Cameron, d’altra parte, ha egli stesso favorito involontariamente l’esplosione delle tensioni nel suo partito con la decisione, presa a causa delle crescenti pressioni interne, di consentire ai membri Conservatori del Parlamento e, addirittura, ai suoi ministri anti-europeisti di fare campagna elettorale a favore della “Brexit”.A sua volta, la spaccatura nel Partito Conservatore su quest’ultima questione è il riflesso della crisi economica globale e delle divisioni tra le classi dirigenti domestiche circa le modalità più efficaci per proteggere i loro interessi. In definitiva, europeisti e anti-europeisti basano le proprie posizioni non sui vantaggi che possono derivare per la popolazione, bensì per le aziende e gli istituti finanziari a seconda dell’importanza attribuita da essi ai legami più o meno stretti con il mercato europeo.
Che i fautori della “Brexit” possano presentarsi come i difensori delle classi più disagiate e dello stato sociale in fase di smantellamento è dovuto poi alla natura stessa dell’UE, resa ancor più evidente dalla presenza nel campo degli europeisti di leader politici come Cameron e Osborne.
L’Unione Europea e il suo apparato burocratico, cioè, in questi anni di crisi sono apparsi agli occhi di centinaia di milioni di persone come nient’altro che lo strumento dei mercati finanziari e dei grandi interessi economici per implementare, a fronte della fortissima resistenza popolare, misure senza precedenti di devastazione sociale e impoverimento di massa in tutti i paesi membri.
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di Carlo Musilli
Bombe in aeroporto, bombe nella metro, 31 morti e circa 250 feriti. E il mirino puntato su Bruxelles, la città che ospita il Parlamento europeo e il comando centrale della Nato. Come a dire che il bersaglio non era un Paese in particolare, ma la sede della struttura politica europea e di quella armata dell'Occidente. Di fronte ad avvenimenti come questi, la reazione emotiva è inevitabile: viene voglia di seguire i suggerimenti che arrivano dalla pancia, lasciando in sottofondo quelli del cervello.
La pancia, però, è impulsiva. Davanti al pericolo di morire consiglia di non perdere tempo in ragionamenti e di allontanare la minaccia al più presto. Per riuscirci, mette a disposizione almeno due scorciatoie. La prima, difensiva, afferma la necessità di sbarrare la strada ai migranti e magari di rinnegare il principio della libera circolazione, seppellendo quel che resta di Schengen (che rimangano a casa loro, sono pericolosi, non facciamoli entrare). La seconda, offensiva, sostiene le ragioni del contrattacco (vendichiamoci, schiacciamoli a casa loro, non facciamoli tornare).
Entrambe le strade portano allo stesso vicolo cieco. Nel primo caso perché i migranti - che siano spinti dalla guerra o da motivi economici - non hanno nulla a che vedere con il terrorismo dell’Isis. I fatti del 13 novembre a Parigi e del 22 marzo a Bruxelles dimostrano che lo Stato Islamico non recluta gli attentatori sui barconi o nei campi profughi, ma all’interno del nostro stesso corpo sociale. Sono persone nate e cresciute in Europa, hanno documenti europei e quando vogliono spostarsi usano una normale compagnia aerea. Salah Abdeslam, l'ideatore degli attentati parigini arrestato la settimana scorsa, è nato a Bruxelles nel 1989 da genitori immigrati entrambi in possesso di nazionalità francese.
Quanto alla seconda scorciatoia, quella di chi vorrebbe autorizzare domani una missione militare, è ancora più miope della prima, perché non tiene conto del fatto che la guerra non avrebbe un campo di battaglia circoscritto alla Siria, all’Iraq o alla Libia. Quello che i nostri eserciti farebbero in quei Paesi tornerebbe indietro sotto forma di rappresaglia. Il proselitismo dell’Isis ne uscirebbe rafforzato e a quel punto gli attentati in Europa potrebbero aumentare. E poi invieremmo le nostre truppe allo sbaraglio, senza una missione precisa, senza un obiettivo da raggiungere e perciò senza una durata prestabilita per la missione. Quando potremo considerare finita la guerra, visto che chi ci colpisce non è nemmeno laggiù, ma in mezzo a noi?
Le scorciatoie hanno il pregio di essere comode, ma cedere alla tentazione di percorrerle significa concedere un punto ai carnefici. Chi si fa esplodere non vuole solo cancellare le vite che ha intorno, ma soprattutto condizionare quelle di chi rimane. Non lo capiscono, o fingono di non capirlo, tutti i fascistoidi che usano l'onda emotiva prodotta dalla strage per chiedere l'instaurazione di un nuovo stato di polizia orwelliano, in cui le libertà dei cittadini diventano orpelli trascurabili.Questo non significa che l'attuale strategia europea anti-terrorismo sia adeguata, anzi: gli attentati di Bruxelles hanno messo in luce tutte le carenze del coordinamento fra le intelligence dei vari Paesi a scopo preventivo. In teoria, i servizi segreti dovrebbero fornire dettagli utili alle forze di polizia, ma in questo caso non sono riusciti ad andare oltre un generico annuncio dell'azione imminente. Chi doveva essere messo sotto sorveglianza? Dove e quando poteva agire? Nessuno sapeva nulla.
Da parte loro, i responsabili della sicurezza hanno dato prova di grande ingenuità quando hanno fatto sapere che Salah Abdeslam si era detto pronto a collaborare, un'informazione che verosimilmente ha indotto il resto del commando a entrare rapidamente in azione. La prevenzione ha perciò fallito e a quel punto garantire la sicurezza in un territorio vasto come un'intera città è diventata un'operazione improba. Bisognava controllare giornalmente migliaia di cittadini europei. Perché questa jihad non arriva da lontano, ma dalla porta accanto.
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di Michele Paris
Nonostante la ferma opposizione della maggioranza Repubblicana al Senato, qualche giorno fa il presidente americano Obama ha nominato ufficialmente il proprio candidato per la sostituzione alla Corte Suprema del giudice ultra-conservatore Antonin Scalia, morto improvvisamente il 13 febbraio scorso. La scelta del giudice capo della Corte d’Appello del District of Columbia, Merrick Garland, è stata dettata in larga misura da un calcolo politico ben studiato, il quale potrebbe però non essere sufficiente a superare le manovre che cercano di modellare gli equilibri del più alto tribunale degli Stati Uniti.
Secondo la Costituzione americana, il Senato deve confermare i giudici della Corte Suprema nominati dal presidente. Le tradizionali audizioni dei candidati di fronte ai senatori dovrebbero assodare le loro competenze oppure eventuali motivi di gravità tale da impedirne l’insediamento. Il voto al Senato dovrebbe essere perciò influenzato soltanto da questi fattori, essendo la scelta dell’orientamento ideologico dei giudici a discrezione del presidente in carica.
L’imminenza delle elezioni presidenziali, lo scontro in atto tra Repubblicani e Democratici, ma soprattutto la natura e la rilevanza politica del ruolo dei giudici della Corte Suprema hanno però avvelenato il clima dopo la morte di Scalia, tanto che le probabilità che il suo successore riesca ad assumere l’incarico entro il 2016 sono ad oggi pochissime.
I leader del Partito Repubblicano avevano fatto sapere da subito che il nono giudice della Corte scelto da Obama non sarebbe stato nemmeno preso in considerazione. Sul sostituto di Scalia, a loro dire, dovrebbe piuttosto esprimere il proprio parere il popolo americano. Per questa ragione, malgrado la Costituzione assegni unicamente al Presidente la facoltà di nomina e in passato ci siano stati esempi di giudici insediati alla vigilia di un’elezione, per i Repubblicani sarà necessario attendere la scelta di un candidato da parte del prossimo inquilino della Casa Bianca a partire dal gennaio 2017.
Di fronte a questa resistenza, Obama e il suo entourage hanno deciso di procedere ugualmente con la nomina, optando prevedibilmente per un giudice con un curriculum pressoché inattaccabile, dalle posizioni generalmente moderate e ampiamente gradito ai membri Repubblicani del Congresso.
La scelta è finita così sul giudice Garland, secondo la stampa USA già preso seriamente in considerazione nel 2009 e nel 2010, quando Obama fu chiamato a scegliere due nuovi membri della Corte Suprema. In entrambe le occasioni, a Garland erano stati preferiti altri candidati, rispettivamente Sonya Sotomayor ed Elena Kagan, le quali, in quanto donne e, la prima, ispanica, garantivano quel rispetto della “diversità” di genere e di razza che non poteva offrire un giudice maschio e bianco.
La posta in palio con il seggio vacante alla Corte Suprema è dunque enorme, non soltanto per i poteri di questo tribunale e la delicatezza delle cause su cui dovrà esprimersi nel prossimo futuro. Soprattutto, con la morte di Scalia, Obama e i Democratici si ritrovano a portata di mano l’occasione di alterare l’equilibrio tra giudici conservatori e “liberal” che è stato per anni sostanzialmente favorevole ai primi.
Il percorso verso la conferma di Merrick Garland, come già spiegato, appare però molto complicato. Secondo la maggior parte dei commentatori d’oltreoceano, quella di Obama sarebbe allora una mossa prevalentemente politica volta a favorire i Democratici nelle elezioni presidenziali e, soprattutto, per il Senato, mettendo in risalto l’ostruzionismo Repubblicano.Il mero calcolo politico di Obama è apparso chiaro nel corso della presentazione pubblica di Garland alla Casa Bianca la settimana scorsa. Il presidente non ha fatto alcun riferimento alla possibilità che la nomina del suo candidato possa mettere in minoranza la maggioranza conservatrice alla Corte Suprema e quindi favorire la difesa dei diritti democratici, esposti a un processo di erosione in questi anni proprio per mano di questo stesso tribunale. Al contrario, Obama ha insistito nel ricordare come svariati membri del Congresso Repubblicani avessero in passato espresso pareri molto lusinghieri per Garland, facendo apparire perciò la loro opposizione di natura esclusivamente politica.
Merrick Garland era stato ad esempio confermato giudice della Corte d’Appello di Washington a larga maggioranza dal Senato nel 1997 e con gli elogi di alcuni Repubblicani che siedono oggi nella commissione Giustizia, di fronte alla quale devono testimoniare i candidati alla Corte Suprema.
Uno di questi ultimi è il veterano senatore dello Utah, Orrin Hatch, tra i pochi Repubblicani disposti finora ad appoggiare l’idea che Garland sia almeno preso in considerazione dalla commissione. I senatori Repubblicani possibilisti risultano essere più che altro quelli che a novembre saranno impegnati in un voto molto competitivo per la loro rielezione. Alcuni di essi settimana scorsa avevano ipotizzato anche un possibile voto sulla nomina di Garland dopo le elezioni di novembre in caso di vittoria del Partito Democratico.
Quest’ultima proposta è stata avanzata per evitare che il prossimo eventuale presidente Democratico possa finire col nominare un nuovo giudice di orientamento più “liberal” rispetto a quello scelto da Obama. Il leader di maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha però escluso un voto su Garland, prima o dopo le elezioni, ribadendo che il nono giudice della Corte Suprema dovrà essere scelto dal 45esimo presidente degli Stati Uniti, ovvero il successore di Obama.
In maniera significativa, McConnell ha anche denunciato apertamente le presunte posizioni ideologiche del giudice Garland, ritenuto a suo giudizio troppo “di sinistra”. Questo parere conferma ancora una volta il drastico spostamento a destra del baricentro politico americano negli ultimi anni, tanto da far apparire, almeno agli occhi del Partito Repubblicano, un giudice del tutto moderato e con alcuni precedenti di sentenze poco meno che reazionarie come una sorta di attivista “liberal”.
In effetti, la carriera giudiziaria di Merrick Garland, a detta di molti, sembra riflettere precisamente la sua ambizione di ascendere alla Corte Suprema, visto che quasi mai il giudice 63enne ha assunto posizioni che potessero far riconoscere un suo netto posizionamento ideologico e, di conseguenza, favorire critiche e accuse da parte della parte politica opposta nel corso di un possibile processo di conferma.
Pur tenendo un atteggiamento cauto per decenni, il passato di Garland è ben noto e include alcuni anni di praticantato prima al fianco di un noto giudice della Corte d’Appello di New York e del giudice della Corte Suprema, William Brennan, poi come assistente dell’ultimo ministro della Giustizia del presidente Carter, Benjamin Civiletti.
Con l’arrivo di Reagan alla Casa Bianca nel 1981, Garland si dedicò alla pratica privata, entrando in uno studio legale di Washington che rappresentava gli interessi di varie grandi aziende, tra cui Philip Morris. In seguito, durante l’amministrazione Clinton, diventò pubblico ministero, occupandosi di casi di grande impatto mediatico, come quello di “Unabomber” e l’attentato contro un edificio federale di Oklahoma City per mano di Timothy McVeigh che nel 1995 fece 168 vittime.Da 19 anni, infine, Garland siede nell’influente Corte d’Appello del District of Columbia, tradizionalmente chiamata a valutare numerose cause che coinvolgono il governo e le sue agenzie. Gli esperti legali americani citati dai media riconoscono una sua tendenza a favorire queste ultime, mentre vi sarebbero poche tracce di servilismo nei confronti del mondo degli affari.
Garland viene anche talvolta elogiato per avere emesso sentenze favorevoli alle regolamentazioni relative al rispetto dell’ambiente. Allo stesso tempo, però, ha mostrato maggiore simpatia per l’accusa nei casi in cui sono in gioco i diritti degli accusati di un qualche crimine. Una delle cause di maggiore rilievo che ha presieduto si era conclusa inoltre con un verdetto favorevole all’amministrazione Bush in merito alla legittimità della detenzione di alcuni prigionieri del lager di Guantánamo.
Le vicende attorno alla nomina di Merrick Garland alla Corte Suprema, in ogni caso, accompagneranno tutta la stagione elettorale 2016 negli Stati Uniti. A riprova degli interessi in gioco e del livello di politicizzazione del tribunale costituzionale americano, i favorevoli e i contrari alla conferma del nuovo giudice stanno già affilando le armi e organizzando campagne pubbliche, durante le quali – come in un’elezione a una carica di spicco – saranno raccolti e spesi parecchi milioni di dollari.
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di Fabrizio Casari
Ottantotto anni dopo l’ultima visita di un Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama arriva a Cuba. Un viaggio il cui svolgimento in sé rappresenta un evento storico che in qualche modo ne relativizza la stessa agenda, per quanto importante. La visita di Obama prevede infatti incontri con Raul Castro ed attività di varia natura, compresi un intervento pubblico che la Tv cubana manderà in onda integralmente e anche un breve incontro con i cosiddetti “dissidenti”. Ma nulla a che vedere con la forza delle immagini che illustreranno l’omaggio del Presidente degli Stati Uniti al mausoleo di Josè Martì, padre della Cuba ribelle e simbolo della lotta per l’indipendenza dell’isola e dell’intera America Latina.
Cuba si appresta a ricevere l’illustre ospite con serenità e disponibilità al dialogo, il suo arrivo segna comunque una tappa importante nel processo di normalizzazione delle relazioni tra i due paesi. Tappa che, da parte di Cuba, ci si aspetta possa determinare una spallata importante al blocco economico e commerciale che gli Stati Uniti hanno deciso unilateralmente dal 1961. Ma, nei desiderata di Obama, il suo viaggio dovrebbe rappresentare anche una scossa robusta all’impianto del sistema politico cubano, ipotetica medaglietta con la quale lasciare la Casa Bianca passando direttamente alla storia.
E’ però facile pronosticare come entrambi gli auspici siano destinati a rimanere tali, sebbene nel caso del blocco è evidente che l’arrivo di Obama potrà comportare un ulteriore impulso verso la sua revisione totale. Revisione e non cancellazione, dal momento che lo strumento legislativo è per ora inibito, non godendo Obama di maggioranza né al Congresso né al Senato e non avendo dimostrato, fino ad ora, l’intenzione di aprire un vero e proprio confronto con il partito repubblicano (e anche buona parte del partito democratico) alla ricerca di una soluzione politica all’obbrobrio giuridico che compone il blocco più inutile ed anacronistico mai visto nella storia del consesso delle nazioni.
Un blocco che agli Stati Uniti è costato sì la condanna dell’intero pianeta, ma a Cuba il prezzo pagato é stato di migliaia di vittime e centinaia di miliardi di dollari in danni diretti ed indiretti. Tanti da ipotecarne il modello di sviluppo, costringendo il paese a drenare risorse importantissime per destinarle ad arginare gli effetti del blocco.
In attesa di conoscere quali saranno le conseguenze politiche della visita di Obama, si può intanto notare l’intensificarsi degli sbarchi di imprenditori e uomini d’affari, accompagnati dal consueto stuolo di avvocati, maneggioni e squali d’ogni genere che fiutano il business che verrà. C’é da dire che la vista e l’olfatto cubano non sono da meno e dunque, in assenza di normalizzazione delle procedure finanziarie, dello sblocco del sistema bancario cubano e della riammissione delle transazioni internazionali in divisa, fino ad ora oggetto di pesanti multe extraterritoriali inflitte da Washington ai paesi terzi, cocktail e interpreti saranno gli unici ad agitarsi.
Molti degli osservatori si domandano cosa dirà Obama avendo l’occasione di parlare al popolo cubano e sembrano nutrire illusioni mal riposte circa l’impatto che le sue parole potranno avere sulla popolazione dell’isola. Sognano catarsi improbabili e s’immaginano scenari fantascientifici. Sarebbe ingenuo, da parte di Obama, pensare di riuscire dove nemmeno Woytila poté, ovvero fornire una spalla ideale per utilizzare le difficoltà e le contraddizioni di un paese alle prese con il suo rinnovamento per trasformarle in dissenso politico di massa.
Non a caso il governo ha deciso di lasciare microfoni e telecamere aperte; segno evidente di quanto sia ampio il sostegno politico di cui gode. Ovviamente Obama ribadirà i suoi concetti, la sua idea di democrazia, ma gli argomenti di cui dispone sono fiacchi e ampiamente collaudati nel loro fallimentare realismo. E del resto, che cosa potrebbe dire Obama ai cubani? Qual lezione di democrazia potrebbe impartire?
Rivendicare le elezioni multipartitiche come segno di democrazia? Difficile, visto che negli USA è illegale la presenza politica per comunisti, socialisti e anarchici. Potrà spacciare il suo modello elettorale come migliore, quando votano a malapena il 35% degli aventi diritto contro il 96% dei cubani che esercitano il voto con regolarità? Eviterà accenni sull’indipendenza del potere politico dal potere finanziario?
Difficile possa convincere qualcuno, visto che i poteri forti e Wall Street decidono chi e come governa, mentre a Cuba lo decidono i cittadini. Potrà raccontare di un modello sociale migliore? Improbabile, visto che le percentuali di disoccupati, homeless, malati psichiatrici, tossicodipendenti e carcerati negli USA sono le più alte del mondo e quelle di Cuba sono al punto più basso delle statistiche internazionali.
Potrà identificare il suo modello di protezione sociale come rispondente all’universalità dei diritti? Farebbe comicità involontaria, mentre a Cuba l’inclusione sociale è l’essenza pura del modello politico. O potrebbe parlare di diritti umani, quando Cuba rappresenta uno dei pochi paesi a rispettare l’indice GINI? Meno che mai di repressione, quando lo normalità per le forze dell’ordine statunitensi è uccidere i neri, la tortura è denunciata da molti organismi indipendenti e Guantanamo rappresenta l’essenza del modello. O magari potrebbe lanciarsi in discorsi sulla libertà di espressione, quando gli Stati Uniti con il Patrioct Act hanno raggiunto il punto più alto del controllo di massa della loro popolazione?
E potrà rivendicare il contributo alla pace del mondo di un paese come gli Stati Uniti che hanno promosso e sostenuto 63 guerre negli ultimi trent’anni, e che nella loro storia poco più che bicentenaria hanno lanciato le loro truppe in operazioni all’estero per 221 volte?
Cuba, invece, può vantare le missioni internazionaliste che hanno contribuito in maniera determinante alla decolonizzazione dell’Africa dal colonialismo europeo. Di quale ruolo nel mondo potrebbe parlare Obama a Cuba, con i suoi droni che scaricano bombe, quando L’Avana può ricordare l’opera gratuita dei medici cubani che si recano nei luoghi più sperduti della terra e che sono oggi numericamente più numerosi che tutti quelli inviati dall’OMS?
O potrebbe parlare del sistema sanitario? A Cuba è tra i primi del mondo, per antonomasia il più includente, mentre in un ospedale statunitense si può morire se sprovvisti di assicurazione medica. E potrà invece Obama sottolineare il rispetto per la sovranità nazionale dei paesi terzi con l’NSA che spia tutti i governi, amici compresi, di fronte alla Cuba che altro non ha fatto se non difendersi dall’attività di spionaggio statunitense? O disserterà sul rispetto della volontà popolare quando da 61 anni gli USA destinano una parte del bilancio statale alla promozione della sovversione interna a Cuba?I colloqui tra Obama e Raul si fonderanno su quello che i rispettivi staff discutono da ormai un anno, ovvero dei modi e dei tempi con i quali favorire progressivamente il processo di normalizzazione. D’altra parte, paradossalmente, Cuba ha fretta, ma Obama ancor di più. Il Presidente degli Stati Uniti ha poco più di sette mesi di mandato innanzi a sé e se non vuole annoverare un'altra incompiuta dei suoi otto anni, deve per forza chiudere le questioni salienti con Cuba entro la prossima estate.
Cuba, dal canto suo, ritiene di dover concludere un accordo generale prima del voto di Novembre, dal momento che se una eventuale vittoria di Hillary vedrebbe Washington sulla stessa scia di Obama per quanto attiene al dossier Cuba, diversissimo sarebbe lo scenario di fronte ad una ipotetica vittoria di Trump.
E dunque lo sforzo dovrà essere reciproco, ma non va dimenticato che lo scenario di questa normalizzazione si è dato perché gli Stati Uniti hanno cambiato la loro politica verso Cuba prendendo atto del suo fallimento, mentre L’Avana non ha cambiato nemmeno una virgola della sua posizione. Dunque toccherà a Obama fare un ulteriore passo verso l’apertura: suo é il problema, non cubano.
Se per Obama questa visita rappresenta direttamente ed indirettamente l’ammissione di una politica cieca ed inconcludente, discorso opposto vale per Raul Castro. In questo senso, anche la scelta di aprire i voli statunitensi per Cuba ma impedire ancora i voli cubani per gli USA, non aiuta, perché rappresenta una idea cialtrona e mercantile di quello che gli USA intendono per reciprocità. E’ solo un esempio di una mentalità coloniale che difficilmente il viaggio di Obama riuscirà ad estirpare. Un annuncio in direzione di un ulteriore cambio di atteggiamento sarebbe però auspicabile e segnerebbe con decisione una impronta politica realista e sostenibile anche negli stessi USA.
Cuba dal canto suo ha le idee chiare su quali debbano essere i passaggi per arrivare alla normalizzazione completa delle relazioni diplomatiche e pone alcune precondizioni affinché di possa procedere speditamente verso la strada della collaborazione. In premessa va garantito il principio di reciprocità tra i due paesi e il rispetto delle diversità e specificità di ordine politico e culturale, ovvero il reciproco rispetto di due sistemi che sono per natura opposti ma che possono riconoscersi e rispettarsi.
Nel concreto Cuba chiede la fine delle politiche destinate a produrre sovversione nell’isola; la restituzione di Guantanamo, l’abolizione progressiva delle misure finanziarie che impediscono lo sviluppo delle attività commerciali import/export dell’isola sono passi che, nella loro concretezza, segnerebbero davvero la svolta attesa.
Cuba vive da qualche anno un processo profondo di cambiamento. L’applicazione delle riforme economiche fa dell’isola un laboratorio aperto nella sperimentazione di un percorso di rinnovamento pur nella conservazione del sistema. I processi produttivi, l’organizzazione del mercato del lavoro, l’ampliamento significativo dei settori destinati all’economia privata, si sposa però indissolubilmente con il carattere pubblico ed universale della sfera dei diritti sociali e questo conferisce autorevolezza e credibilità ad un processo che in molti si ostinano a leggere come un progressivo cedimento.
Difficile poter definire in base alle teorie economiche classiche il modello in corso di sperimentazione; per la prima volta, sembra che possa delinearsi un modello tutto cubano, calibrato sulle necessità e possibilità del paese e non importato dalle dottrine altrove pensate ed applicate. Una forma di sperimentazione suscettibile di cambiamenti continui, ma con una bussola che orienta bene. Che mostra con chiarezza senza renderli incompatibili il Nord e il Sud nel disegno di un futuro possibile.
L’isola del resto non fa mistero, anzi lo ripete quotidianamente, di essere la Cuba che ha resistito con la forza delle sue idee a 61 anni di guerra non dichiarati, non mancando mai al suo dovere storico in patria e fuori da essa. Qualunque ipotesi esterna che prevedesse lo scambio tra normalizzazione con gli USA al costo della messa in disparte del sistema di valori che dal 1959 l’ha formata e determinata, sarebbe una pura illusione.
Per Cuba la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti rappresenta di per sé un ulteriore conferma di come 55 anni di resistenza non sono stati vani; le aperture già determinatesi con l’evoluzione del socialismo cubano troveranno ulteriore rafforzamento da questo passaggio. Il cui significato sarà soprattutto politico, fino a quando non si accompagnerà alla fine formale del blocco economico, ma il cui valore simbolico rappresenta la fine di un’era e l’inizio di un nuovo corso della storia.