- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Secondo la stampa americana, il governo cinese nei giorni scorsi avrebbe installato su un’isola contesa nel Mar Cinese Meridionale un sistema di difesa missilistico terra-aria, verosimilmente in risposta alle recenti provocazioni di Washington nel quadro dell’offensiva strategica orchestrata ai danni di Pechino. La notizia è stata riportata da FoxNews e successivamente confermata dal governo di Taiwan. L’isola in questione sarebbe quella di Woody, conosciuta come Yongxing in lingua cinese, nell’arcipelago delle Paracel, ed è rivendicata anche da Vietnam e Taiwan.
Il network statunitense ha citato come prova delle manovre cinesi alcune immagini satellitari che mostrerebbero le batterie di missili e un sistema radar visibili a partire almeno dal 14 febbraio scorso. L’isola di Woody è situata a sud-est della provincia di Hainan e ospita la più grande base aerea di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
La rivelazione ha prevedibilmente trovato conferme anche tra i vertici delle Forze Armate USA, dove si è ipotizzato che il sistema anti-aereo installato sarebbe l’HQ-9, simile al sofisticato S-300 di produzione russa. Secondo FoxNews, questo sistema ha un raggio di oltre 200 chilometri e rappresenterebbe perciò una minaccia per qualsiasi velivolo, sia civile sia militare, che sorvoli la zona. In realtà, i timori americani sono legati alle capacità cinesi di intercettare i propri aerei da guerra dalle isole nel Mar Cinese Meridionale in caso di conflitto con Pechino.
Il governo cinese, per bocca del portavoce del ministro degli Esteri, Hong Lei, ha affermato mercoledì di non essere a conoscenza dei dettagli relativi al posizionamento di un sistema missilistico, ma ha aggiunto che qualsiasi equipaggiamento eventualmente impiegato sull’isola è di natura difensiva e non fa parte di un’escalation militare. In precedenza, il ministro degli Esteri, Wang Yi, aveva invece definito la notizia una “creazione di certi media stranieri”.
Al di là della reticenza del governo di Pechino, il dispiegamento del sistema anti-aereo sull’isola di Woody è stato di fatto confermato da vari accademici e commentatori cinesi citati dalla stampa del loro paese. Tuttavia, è innegabile che l’iniziativa sia effettivamente di natura difensiva e che, soprattutto, giunga in risposta alle manovre americane messe in atto con il preciso scopo di alimentare le tensioni in Estremo oriente.
Gli organi di stampa cinesi e internazionali sono stati pressoché concordi nell’indicare come evento scatenante la reazione cinese l’invio il mese scorso del cacciatorpediniere americano USS Curtis Wilbur all’interno delle 12 miglia nautiche dell’isola di Triton, nelle isole Paracel, situata a circa 160 chilometri da quella di Woody. Dopo questo episodio, il ministero della Difesa cinese aveva annunciato che ci sarebbero state conseguenze non meglio precisate.
Per un esperto di relazioni internazionali dell’università Renmin di Pechino, sentito dal quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, la “logica cinese” nel “costruire strutture militari… dipende dal livello di minaccia percepito”. Le pattuglie americane inviate in precedenza nei pressi delle isole Spratly, sempre nel Mar Cinese Meridionale, non erano infatti viste in maniera così provocatoria come quelle apparse al largo delle Paracel, dal momento che quest’ultimo arcipelago è più vicino alla terraferma e su di esso Pechino esercita un controllo più stretto.
Le tensioni tra USA e Cina sono aumentate da circa un anno a questa parte dopo che l’amministrazione Obama ha iniziato a rilevare e denunciare la costruzione di strutture considerate a uso militare in alcune isole contese del Mar Cinese Meridionale. La Cina, da parte sua, ritiene di avere piena sovranità su queste isole e fa notare come le stesse attività non siano mai condannate da Washington quando a eseguirle sono altri paesi che rivendicano i territori, come Vietnam o Filippine.La notizia dei missili cinesi ha comunque tutto l’aspetto di una rivelazione piazzata ad hoc dalla stampa USA per coincidere con i lavori del summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), andato in scena questa settimana per la prima volta in territorio americano. A Sunnylands, in California, l’amministrazione Obama ha messo tutto il proprio impegno per convincere i paesi membri di questo organismo a emettere un comunicato congiunto che facesse riferimento alle dispute territoriali nel Mar Cinese, condannando la crescente “aggressività” di Pechino.
Lo sforzo è però fallito ancora una volta, visto che la questione più scottante che sta interessando quest’area del continente asiatico è rimasta fuori dalla dichiarazione finale del vertice. A Washington ci deve essere stato parecchio disappunto dopo l’impegno profuso per far allineare alle proprie mire strategiche paesi recalcitranti come Cambogia e Laos.
Il segretario di Stato, John Kerry, aveva recentemente visitato proprio questi due paesi, nella speranza di evitare la ripetizione di quanto accaduto dopo il summit ASEAN del 2012 sotto la presidenza cambogiana, quando l’associazione per la prima volta nella propria storia non era stata in grado di produrre un comunicato finale a causa delle tensioni sulle rivendicazioni territoriali infiammate dagli Stati Uniti.
In California, così, l’amministrazione Obama si è dovuta accontentare della solita dichiarazione formale che ha fatto riferimento all’impegno “condiviso per una soluzione pacifica delle dispute e per il rispetto dei processi legali e diplomatici”, nonché della “sicurezza marittima, incluso il diritto alla libertà di navigazione e sorvolo”.
La necessità di assicurare la “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale viene usata costantemente dagli Stati Uniti per giustificare le proprie manovre in Asia orientale di fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Cina. Questa presa di posizione è però priva di senso e serve a malapena a nascondere i veri obiettivi strategici americani, dal momento che il paese che ha il maggiore interesse nel garantire la sicurezza dei traffici marittimi è proprio la Cina, la quale vede transitare in quest’area una parte considerevole delle proprie esportazioni e importazioni.
Al vertice ASEAN, il governo americano ha lasciato intendere che Pechino ha fatto forti pressioni sui paesi con cui ha legami politici ed economici più stretti per impedire l’approvazione di un comunicato dai toni più duri verso la Cina. Simili proteste sono tuttavia risibili, poiché proprio gli Stati Uniti incoraggiano da anni svariati paesi del sud-est asiatico ad alimentare le tensioni con la Cina su questioni territoriali che per decenni non avevano provocato conflitti di rilievo.
Gli USA, in ogni caso, non saranno scoraggiati dall’esito del summit dell’ASEAN e continueranno a utilizzare le contese nel Mar Cinese per fare pressioni sulla Cina e aumentare la propria presenza militare nell’area. Il prossimo appuntamento da tenere in considerazione a questo proposito è l’attesa sentenza del tribunale de L’Aia che a marzo, in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), dovrà esprimersi su una causa presentata dalle Filippine contro la Cina.
Il caso riguarda una disputa tra questi due paesi nel Mar Cinese Meridionale e, mentre Pechino ha da tempo affermato di non riconoscere l’autorità del tribunale, Washington ha assistito e appoggiato il governo filippino nella vicenda legale, nonostante gli Stati Uniti non abbiano mai sottoscritto la stessa Convenzione delle Nazioni Unite.
Durante l’incontro a Sunnylans, infine, il governo USA ha cercato di promuovere legami economici più stretti con i paesi ASEAN, utilizzando il mega-trattato di libero scambio denominato Partnership Trans Pacifica (TPP), recentemente firmato in Nuova Zelanda tra 12 paesi asiatici e del continente americano.Brunei, Malaysia, Singapore e Vietnam fanno già parte del TTP, ma l’amministrazione Obama ha incoraggiato altri membri dell’ASEAN a unirsi al trattato nel prossimo futuro, ben sapendo che molti di questi ultimi intrattengono relazioni commerciali molto forti con una Cina che, a sua volta, sta cercando di promuovere anche nel sud-est asiatico i propri progetti di sviluppo inquadrabili nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” e nella Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti.
Alcuni di questi paesi, dall’Indonesia alla Thailandia, da Singapore alla Cambogia, dal Laos al Myanmar, hanno finora tenuto un atteggiamento equidistante tra USA e Cina, se non decisamente prudente, per non suscitare reazioni negative da Pechino.
Gli sviluppi recenti in Estremo Oriente, a cominciare dalle continue provocazioni americane, assieme alla già citata sentenza del tribunale competente per la Convenzione sul Diritto del Mare, faranno aumentare tuttavia i livelli di instabilità nella regione, così che risulterà sempre più difficile per i paesi che hanno mostrato fin qui un atteggiamento di cautela evitare una netta scelta di campo tra Pechino e Washington.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
I bombardamenti condotti dalla Turchia contro le postazioni curde in territorio siriano hanno segnato in questi giorni un pericoloso aggravamento della guerra in corso nel paese mediorientale. L’escalation dello scontro è la diretta conseguenza dell’avanzata delle forze del regime di Damasco con l’appoggio dell’aviazione russa, il cui intervento ha capovolto gli equilibri del conflitto, smascherando nel contempo il gioco dei regimi mediorientali impegnati nella lotta contro Assad dietro il paravento di quella al terrorismo.
I sentimenti che meglio descrivono lo stato d’animo dei regimi di Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar in queste settimane sono il panico e la disperazione. Gli investimenti che questi paesi hanno fatto in Siria, con la supervisione - se non l’aperta collaborazione - di Washington, ammontano a svariati miliardi di dollari, destinati a sostenere finanziariamente e militarmente gruppi fondamentalisti nel tentativo di rovesciare il regime di Damasco.
Questi piani rischiano ora di essere completamente spazzati via dall’intervento della Russia e la prospettiva del tracollo definitivo dei “ribelli” armati, da giorni sotto “assedio” delle forze governative soprattutto ad Aleppo, ha spinto Ankara, Riyadh e i loro alleati a valutare la possibilità di giocare il tutto per tutto nella crisi siriana.
D’altra parte, la liberazione di Aleppo e delle località circostanti da parte dell’esercito siriano chiuderebbe il corridoio che collega quest’area alla Turchia e che è stato utilizzato per assicurare i rifornimenti e il transito di uomini verso le postazioni “ribelli”. Senza questa componente logistica vitale, le varie formazioni dell’opposizione armata si ritroverebbero con poche alternative oltre alla morte e alla resa.
La loro sorte sarebbe quindi segnata, visto che i gruppi che combattono contro il regime di Assad non hanno virtualmente alcun sostegno tra la popolazione siriana, tanto che la maggior parte di essi sono formati da guerriglieri provenienti da altri paesi e, appunto, hanno potuto resistere così a lungo e ottenere successi significativi solo grazie a sostenitori e finanziatori stranieri.
L’evoluzione del conflitto favorevole a Damasco ha così scatenato un’offensiva su più fronti tra i nemici del regime alauita. Quella manifestatasi in maniera più ambigua è l’iniziativa degli Stati Uniti. A Washington, secondo alcuni commentatori, in molti sarebbero ormai giunti ad accettare il successo delle operazioni russe, in grado di combattere efficacemente la minaccia dello Stato Islamico (ISIS) che, dopo essere stato più o meno direttamente coltivato e promosso, rischiava di trasformarsi in un boomerang per gli interessi e la sicurezza dell’Occidente.
Allo stesso tempo, però, la rivalità ormai a tutto campo con Mosca, nonché la speranza di ottenere il massimo ricavo strategico dal conflitto siriano dopo gli sforzi per rimuovere Assad in questi anni, si sono tradotte in un impegno per una qualche soluzione diplomatica della crisi. Il risultato è per ora l’accordo, annunciato venerdì scorso dal segretario di Stato USA, John Kerry, e dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, su un incertissimo piano per lo stop ai combattimenti, significativamente non sottoscritto né da Damasco né dal Fronte al-Nusra o dall’ISIS.La doppiezza dell’atteggiamento americano, dettata verosimilmente dalla mancanza di un piano coerente per la Siria, è evidente anche nell’approccio alle iniziative di Turchia e Arabia Saudita, i cui regimi sono sempre più vicini a un ingresso diretto nelle ostilità. L’eventuale impegno in territorio siriano di questi due paesi dipenderà infatti dall’approvazione di Washington, le cui intenzioni in proposito non appaiono per il momento chiare.
Il governo USA ha accolto favorevolmente, almeno a parole, i progetti di intervento turco e saudita, ma l’amministrazione Obama si rende conto perfettamente che un’evoluzione di questo genere rischia di innescare un conflitto di vasta scala, ovvero, secondo le parole del primo ministro russo, Dmitry Medvedev, in riferimento a una possibile invasione delle forze di terra di Riyadh in Siria, niente meno che “una nuova guerra mondiale”.
La Turchia, comunque, nei giorni scorsi ha iniziato a colpire le Unità di Protezione Popolari curde (YPG) in Siria, con la scusa che esse avrebbero fornito armi - ottenute dagli Stati Uniti - ai guerriglieri del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) attivi entro i propri confini. Le operazioni militari turche hanno il chiaro obiettivo di fermare l’offensiva contro i gruppi islamisti anti-Assad, tra cui lo stesso ISIS, combattuti dai curdi siriani.
Non solo: le bombe di Erdogan aggiungono un’ulteriore complicazione al conflitto, visto che le YPG, oltre che a collaborare con Damasco e la Russia, sono alleate degli Stati Uniti nella guerra all’ISIS. Secondo i media occidentali, Ankara avrebbe agito nonostante le pressioni americane, ma anche di Francia e Germania, ad astenersi dal colpire le formazioni curde.
Questi ultimi sviluppi indicano dunque un aggravamento anche delle tensioni tra Turchia e Stati Uniti, dovuto alle differenze tattiche nella lotta contro il regime di Assad. Da tempo, infatti, Erdogan chiede un intervento diretto degli USA o della NATO contro Damasco e per ottenere ciò ha messo in atto svariate provocazioni, come l’abbattimento deliberato di un aereo da guerra russo lo scorso novembre o la collaborazione con i “ribelli” per condurre attacchi con armi chimiche in Siria e attribuirne la responsabilità al regime.
L’Arabia Saudita, intanto, ha da parte sua confermato di avere inviato i propri jet presso la base di Incirlik, in Turchia, per intensificare l’impegno ufficialmente contro l’ISIS in Siria. Riyadh ha però attenuato i toni in relazione al possibile impiego di forze speciali in territorio siriano, affermando che una simile mossa dipenderà dalla decisione dei membri della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti.
Tanto per complicare gli scenari, infine, il numero uno del Pentagono, Ashton Carter, ha detto recentemente di aspettarsi l’invio di forze speciali saudite e degli Emirati Arabi in Siria per assistere i combattenti “ribelli” nello sforzo per riconquistare la città di Raqqa, considerata la capitale dello pseudo-califfato dell’ISIS.
In definitiva, le sconfitte subite sul campo in questi mesi dalle forze di opposizione anti-Assad, assieme alla prospettiva di essere tagliate fuori dal controllo di Aleppo e dalle importanti località al confine con la Turchia, hanno provocato reazioni isteriche tra i loro sponsor, tali da costringerli a vere e proprie acrobazie retoriche per giustificare interventi palesemente a sostegno di quelle stesse forze fondamentaliste che vorrebbero far credere di combattere.
Anche grazie a organi di stampa in larga misura compiacenti, Turchia e Arabia Saudita possono così affermare di voler fare la guerra ai terroristi dell’ISIS o del Fronte al-Nusra attraverso una campagna militare che prende di mira quelle stesse forze che li stanno combattendo in maniera efficace e che potrebbero forse garantire il ritorno a un minimo di stabilità in Siria.
L’intervento russo, prevedibilmente deciso per salvaguardare gli interessi strategici di Mosca in Medio Oriente e non solo, ha dato insomma un contributo fondamentale a chiarire senza più nessun’ombra di dubbio le posizioni degli attori impegnati sul fronte siriano.Al di là di come si valutino le operazioni militari della Russia, in ogni caso legittime dal punto di vista del diritto internazionale, a differenza di quelle condotte dalla “coalizione” guidata dagli USA, in seguito ad esse le ambiguità dei governi occidentali e dei loro alleati mediorientali hanno finito per essere smascherate.
La fine della sanguinosa guerra in Siria, perciò, non sarà risolta dal fantomatico tavolo delle trattative di Ginevra o da improbabili tregue negoziate altrove, bensì sul campo e dalle forze armate di Mosca e Damasco, con tutti i drammatici effetti collaterali del caso, come ha dimostrato il possibile bombardamento avvenuto lunedì di una scuola e di un ospedale di Medici Senza Frontiere rispettivamente nella province di Aleppo e Idlib. L’unica alternativa, la cui praticabilità risulterà evidente in tempi molto brevi, resta il coinvolgimento diretto di Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, se non degli stessi Stati Uniti.
Una prospettiva di questo genere, tuttavia, avrà conseguenze difficili da calcolare, poiché non farà che aggravare la situazione e favorire il fondamentalismo sunnita, senza contare il rischio concreto di scatenare una guerra totale dagli effetti potenzialmente catastrofici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nel pieno delle primarie per le presidenziali, il mondo politico americano è stato scosso nel fine settimana dalla notizia della morte improvvisa del giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia. Il decesso del 79enne giurista ultra-conservatore pone una serie di importanti questioni di natura politica, così come politica è stata l’impronta del più alto tribunale degli Stati Uniti negli ultimi anni dominati dalla maggioranza dei giudici che lo compongono e di cui lo stesso Scalia ha fatto parte.
Cattolico anti-abortista, favorevole alla pena di morte e all’ampliamento delle facoltà delle forze dell’ordine, promotore del diritto di possedere armi da fuoco, strenuo difensore dei poteri forti americani e spesso contraddistinto da posizioni ideologiche in odore di razzismo, Scalia ha incarnato per tre decenni l’anima più reazionaria delle élite d’oltreoceano, passando da un ruolo relativamente marginale a quello di protagonista nel quadro del drammatico spostamento a destra della classe dirigente registrato in questo inizio di nuovo secolo.
Antonin Scalia è morto nel sonno tra venerdì e sabato per cause ancora sconosciute mentre partecipava in Texas a una battuta di caccia, una delle sue passioni. Il giudice era stato nominato alla Corte Suprema da Ronald Reagan nel 1986 ed era noto per la combattività mostrata durante le udienze, soprattutto nei confronti dei legali che sostenevano cause anche vagamente “liberal”.
Le fondamenta saldamente conservatrici del suo pensiero legale derivavano da una interpretazione della Costituzione americana definita “testualismo” o “originalismo”, consistente nel rispetto del senso letterale della carta durante l’analisi dei vari casi. Scalia era guidato cioè dal riferimento costante alle intenzioni di coloro che avevano redatto la Costituzione degli Stati Uniti, respingendo assurdamente l’idea che un documento scritto più di due secoli fa possa essere adattato alle diverse condizioni storiche e sociali.
Scalia sarà ricordato, oltre che per le sue posizioni di estrema destra, per le numerose uscite, sia durante le udienze, sia nelle numerose apparizioni pubbliche, che rivelavano una disposizione retrograda e profondamente anti-democratica. Solo un paio di mesi fa, ad esempio, il giudice deceduto aveva affermato che gli studenti di colore avrebbero dovuto frequentare università di livello “inferiore”, poiché in quelle più prestigiose avrebbero potuto trovarsi in un ambiente inadatto.
Nonostante i precedenti, molti esponenti politici anche di orientamenti ufficialmente opposti a quelli di Scalia hanno avuto parole di elogio nel ricordare il giudice dopo la diffusione della notizia della morte. La reazione di Obama ha ad esempio mostrato il solito atteggiamento servile nei confronti della destra americana del presidente, il quale ha definito il defunto una “mente legale brillante” che “ha influenzato una generazione di giudici, avvocati e studenti”.
Come previsto dalla Costituzione USA, il presidente sarà chiamato ora a scegliere il sostituto di Scalia alla Corte Suprema e Obama ha già fatto sapere che la nomina, da sottoporre a ratifica del Senato, arriverà in tempi non troppo lunghi. La questione della successione a Scalia rischia però di diventare da subito molto complicata, visto che si inserisce in un clima politico del tutto particolare, caratterizzato dalle elezioni presidenziali di novembre e da un Congresso dove la maggioranza non è detenuta dal partito del presidente.
La leadership Repubblicana del Senato ha già indicato la scarsa disponibilità ad approvare qualsiasi candidato verrà proposto dalla Casa Bianca. Il calcolo Repubblicano è con ogni probabilità quello di ritardare la nomina del nono giudice della Corte Suprema fino al prossimo anno, quando sarà insediato il nuovo presidente americano, nella speranza che non sia Democratico.
Il numero uno dei Repubblicani al Senato, Mitch McConnell, sabato ha affermato apertamente che il sostituto di Scalia non siederà alla Corte Suprema prima del gennaio 2017. Questa presa di posizione è decisamente insolita, non solo perché è opinione condivisa che il presidente degli Stati Uniti abbia facoltà di scegliere – e quindi vedere approvato – il candidato che ritiene più adatto, ma anche perché le battaglie registrate in passato sulle nomine alla Corte Suprema hanno riguardato l’eventuale mancanza dei requisiti degli aspiranti giudici o episodi controversi nel loro passato.
L’avvertimento preventivo alla Casa Bianca da parte del leader di maggioranza al Senato sul probabile respingimento della nomina alla Corte Suprema è motivato dalla posta in gioco, particolarmente pesante dal punto di vista politico. Tutta politica è stata infatti l’attività dello stesso tribunale negli ultimi anni, intento - grazie alla maggioranza conservatrice, per non dire reazionaria - a smantellare molti dei diritti democratici consolidati, anche con sentenze precedenti della stessa Corte Suprema, e a promuovere gli interessi del business.Proprio di qualche giorno fa è stata ad esempio una delle ultime sentenze sottoscritte da Scalia, con la quale la Corte ha agito con un intento interamente politico. La maggioranza conservatrice dei giudici ha imposto lo stop all’applicazione di una direttiva dell’Agenzia federale per la Protezione Ambientale (EPA) indirizzata ai singoli stati americani per ridurre le emissioni di gas serra.
La decisione è apparsa singolare per varie ragioni, a cominciare dal fatto che è giunta ancora prima che la causa legale contro l’EPA esaurisse il proprio percorso giudiziario nei tribunali inferiori, ma anche perché le regolamentazioni previste sarebbero entrate in vigore solo tra alcuni anni.
La morte improvvisa di Scalia ha così aperto la strada a un possibile ribaltamento degli equilibri politici all’interno della Corte Suprema USA. Come già anticipato, il giudice di origine italiana faceva parte della maggioranza conservatrice del tribunale, assieme al presidente, John Roberts, e ai colleghi Clarence Thomas, Samuel Alito e Anthony Kennedy, sebbene quest’ultimo sia considerato relativamente più moderato.
La scelta di Obama potrebbe allora ricadere su un giurista progressista, facendo pendere per la prima volta da anni la bilancia della Corte Suprema verso sinistra. Gli altri quattro giudici in carica sono considerati di orientamento “liberal”: Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Sonya Sotomayor e Elena Kagan, queste ultime due già nominate da Obama rispettivamente nel 2009 e nel 2010.
Da sottolineare bene, in ogni caso, è che la propensione progressista di questi quattro giudici, o quanto meno di alcuni di loro, è limitata in larga misura alle questioni delle libertà individuali, mentre in molte occasioni si sono almeno in parte allineati alla maggioranza conservatrice nelle cause relative alle “libertà” di aziende e corporation.
L’ipotesi che la Corte Suprema possa restare con soli otto membri per parecchi mesi è comunque tutt’altro che improbabile. Storicamente sono infatti numerosi i casi di candidati respinti dal Senato o di procedure di conferma prolungate nel tempo, anche se nei limiti ricordati in precedenza, soprattutto quando le nomine vengono fatte da presidenti sul finire del loro mandato.
Ciò potrebbe influire in maniera decisiva su alcune cause delicate attorno alle quali il supremo tribunale dovrà esprimersi nei prossimi mesi e che riguardano vari ambiti, dal diritto all’aborto all’immigrazione, dalle quote riservate alle minoranze nell’ammissione alle università al finanziamento dei sindacati. Con soli otto membri, eventuali verdetti di parità lascerebbero intatte le sentenze dei tribunali inferiori.
Proprio ai primi di aprile, la Corte inizierà le udienze su uno dei casi con le maggiori implicazioni politiche, anche in relazione alla campagna per le presidenziali in atto, ovvero la legittimità costituzionale del decreto presidenziale emesso da Obama per offrire un (complicato) percorso verso la regolarizzazione a circa 4 milioni di immigrati. In ballo vi è la possibilità da parte del governo federale di imporre ai singoli stati le norme in materia di immigrazione e, se non dovesse emergere una maggioranza alla Corte Suprema, il decreto di Obama risulterebbe nullo.Un’altra vicenda scottante è quella che riguarda la facoltà di un sindacato degli insegnanti in California di raccogliere contributi anche dai non iscritti come riconoscimento della propria attività di contrattazione. In questo caso, un’eventuale verdetto di 4-4 alla Corte Suprema favorirebbe le associazioni sindacali.
Al di là delle dispute dei prossimi mesi sul successore di Antonin Scalia, la Corte Suprema americana sarà interessata da un ricambio generazionale negli anni a venire. Ciò determinerà probabili scosse e cambiamenti degli assetti ideologici all’interno del Tribunale, senza che esso perda tuttavia la caratteristica di strumento legale supremo nelle mani della classe dirigente USA per plasmare o legittimare le proprie politiche, sia pure nell’ambito dello scontro per il predominio delle varie sezioni che la compongono.
Tre giudici sono infatti vicini o hanno superato gli 80 anni, così che la permanenza in un incarico che non ha comunque limiti di età potrebbe essere di breve durata. I giudici “progressisti” Ruth Bader Ginsburg e Stephen Breyer compiranno rispettivamente 83 e 78 anni nel 2016, mentre le primavere del moderato/conservatore Anthony Kennedy saranno esattamente 80 il prossimo mese di luglio.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
La prevista sconfitta nelle primarie del New Hampshire della favorita per la nomination Democratica, Hillary Clinton, per mano del senatore del Vermont, Bernie Sanders, è arrivata puntualmente martedì con dimensioni ancora più consistenti rispetto a quelle indicate dai sondaggi. Sul fronte Repubblicano, invece, Donald Trump ha finalmente capitalizzato l’onda anti-establishment che sta animando l’elettorato americano, lasciando i suoi sfidanti a contendersi il ruolo di candidato alternativo attorno a cui dovrebbero coalizzarsi i vertici del partito.
Pur considerando le dimensioni del piccolo stato del New England e, probabilmente, la scarsa rappresentatività che qui si riscontra circa la varietà demografica degli Stati Uniti, la portata dell’affermazione di Sanders sembra difficile da sopravvalutare. Per la prima volta nella storia degli USA, un candidato auto-definitosi “socialista” ha vinto un’elezione primaria per uno dei due principali partiti e lo ha fatto sia mobilitando un numero di elettori Democratici e “indipendenti” di gran lunga superiore a quello registrato negli anni scorsi, sia raccogliendo la maggioranza dei consensi in tutte le fasce demografiche e sociali, a eccezione di quelle che includono i più ricchi e i più anziani.
Il 60% dei voti andato a Sanders contro poco più del 38% per Hillary Clinton testimonia dell’interesse di ampie fasce della popolazione per soluzioni progressiste - se non esplicitamente di impronta socialista - ai problemi legati alle differenze sociali e di reddito, alla disoccupazione e alla sotto-occupazione, all’educazione e all’assistenza sanitaria universale.
L’allargamento del margine tra Sanders e Hillary evidenziato dai risultati finali in New Hampshire rispetto alle previsioni è poi anche la conseguenza della reazione dello staff, dei sostenitori e della famiglia dell’ex segretario di Stato alla crisi in cui è piombata la sua campagna elettorale dopo il virtuale pareggio nei caucuses dell’Iowa della scorsa settimana.
Con ogni probabilità, gli attacchi più o meno diretti rivolti a Sanders e ai suoi potenziali elettori hanno infatti finito per avere l’effetto contrario, spostando gli equilibri della competizione ancor più a favore del 73enne senatore. Nei giorni precedenti l’apertura delle urne in New Hampshire, l’ex presidente Bill Clinton aveva usato toni insolitamente duri nel criticare Sanders, mentre in un comizio della sua consorte, l’ex segretario di Stato, Madeline Albright, e la nota femminista, Gloria Steinem, avevano denunciato non troppo garbatamente le donne intenzionate a votare per il rivale di Hillary.
Se l’entusiasmo generato dalla campagna di Sanders è il risultato di un genuino desiderio di rompere con un sistema politico bloccato ed espressione unica dei poteri forti, è però impossibile considerare seriamente il veterano senatore come un elemento rivoluzionario. I temi da lui promossi sembrano appartenere a un’agenda di estrema sinistra solo per gli standard odierni di un panorama politico americano spostatosi drammaticamente a destra.
Le proposte avanzate da Sanders sono in realtà riconducibili alla tradizione “liberal” del Partito Democratico, all’interno del quale svariati candidati nell’ultimo secolo hanno rappresentato candidature di “sinistra”, sostanzialmente per intercettare ed estinguere i segnali di rivolta sociale diffusi negli Stati Uniti.
La prova incontrovertibile della natura di Sanders, peraltro allineato in gran parte alla delegazione Democratica del Congresso negli ultimi due decenni nonostante lo status nominale di indipendente, è data dalle sue posizioni in politica estera. Anche se su questi temi ha prevalso per il momento la vaghezza, Sanders ha più volte mostrato di essere virtualmente indistinguibile da Obama o dalla stessa Hillary, proponendosi, in caso di conquista della Casa Bianca, come difensore dell’imperialismo americano, sia pure in una versione relativamente moderata.
Visto che le avventure belliche e la politica estera egemonica di Washington sono la logica conseguenza delle politiche di classe sul fronte interno, perseguite dal Partito Repubblicano così come da quello Democratico, all’interno del quale Sanders intende operare, appare a dir poco improbabile che anche solo alcune delle misure “radicali” promesse dal senatore del Vermont possano concretizzarsi in caso di vittoria nelle elezioni di novembre.Il team di Hillary ha sostenuto di avere preventivato la sconfitta in New Hamsphire, ma in realtà la ex first lady ha condotto una campagna elettorale piuttosto intensa in uno stato che l’aveva vista vincere su Obama nelle primarie del 2008 dopo la batosta dell’Iowa. Per i commentatori americani, Hillary sarà comunque favorita nei prossimi due appuntamenti di febbraio, cioè nei caucuses del Nevada il giorno 20 e in South Carolina sette giorni più tardi.
Media e sostenitori di Hillary hanno già iniziato a giocare la carta razziale in vista delle sfide a venire, evidenziando i presunti precedenti di quest’ultima nel promuovere i diritti e la condizione delle minoranze.
In Nevada e in South Carolina vi è una forte incidenza tra gli elettori Democratici rispettivamente di ispanici e neri, considerati finora al di fuori della portata di Sanders, in grado di far segnare risultati positivi in stati in prevalenza bianchi come Iowa e New Hampshire. Non a caso, subito dopo la chiusura delle urne martedì, Sanders si è recato a New York per incontrare uno dei leader storici della comunità di colore, Al Sharpton.
In Nevada, poi, una parte importante dei votanti nelle primarie Democratiche è costituita dagli iscritti ai sindacati - soprattutto della ristorazione e del gioco d’azzardo - i cui vertici sono allineati all’establishment del partito e, quindi, appoggiano la candidatura di Hillary Clinton.
Alla luce dell’esito delle primarie in New Hampshire, gli strateghi della Clinton si sono visti costretti a puntare tutto sulle prossime date. Così facendo, però, anche una vittoria della loro candidata con margini ridotti rispetto a quelli previsti dai sondaggi rischierà di trasformarsi in una mezza sconfitta, come in Iowa, e di dare un ulteriore impulso alla campagna di un Sanders che già dispone di risorse finanziarie ormai paragonabili a quelle di Hillary.
In casa Repubblicana, a determinare la prevista vittoria di Donald Trump sono state in sostanza le stesse apprensioni rilevate tra gli elettori Democratici, anche se in questo caso in forma populista e marcatamente reazionaria. Il miliardario newyorchese era arrivato al voto in New Hampshire dopo un dibattito con gli altri candidati Repubblicani nel fine settimana nel quale aveva fornito una delle prestazioni più sconcertanti tra quelle già abbastanza discutibili registrate finora.
Nel rispondere a una domanda dei moderatori sulla “guerra al terrore”, Trump si era detto favorevole all’utilizzo di metodi di tortura - “waterboarding e molto di più” - negli interrogatori di sospettati di terrorismo. L’uscita di Trump, in maniera forse ancora più inquietante, non ha suscitato la minima condanna dei colleghi di partito, né della stampa ufficiale o dei candidati Democratici alla Casa Bianca.
Razzismo, nazionalismo, esaltazione della ricchezza, del militarismo e di forme autoritarie di governo costituiscono i tratti principali della campagna elettorale di Donald Trump, in grado di far leva sulle paure delle fasce più disorientate della popolazione americana dopo anni di guerre e stenti sul fronte economico.
In New Hampshire, il margine di vantaggio di Trump sul secondo classificato ha comunque sfiorato i venti punti percentuali. Le prestazioni degli altri aspiranti alla nomination hanno di nuovo fatto tremare i vertici del partito, poiché il candidato dell’establishment che sembrava avere le migliori credenziali per contrastare Trump dopo i caucuses dell’Iowa, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato protagonista di una prova anonima.
Rubio aveva rimediato una figuraccia nel dibattito di sabato scorso dopo gli attacchi di alcuni suoi rivali. Di fronte soprattutto all’offensiva del governatore del New Jersey, Chris Christie, Rubio aveva mostrato tutta la sua inconsistenza, peggiorando inoltre le cose quando durante e dopo il dibattito aveva cercato di reagire ripetendo in modo meccanico una serie di frasi e concetti chiaramente studiati a tavolino.
Al secondo posto in New Hampshire è giunto così l’outsider John Kasich, attuale governatore “moderato” dell’Ohio, ma la sua performance ha fatto ben poco per confortare quanti all’interno del partito ritengono che l’eventuale nomination di Trump sia una garanzia di sconfitta nelle presidenziali di novembre.Kasich è poco conosciuto a livello nazionale e ha condotto finora una campagna di basso profilo, così che difficilmente potrà essere considerato il cavallo su cui puntare per impedire il successo di Trump. I Repubblicani dovranno perciò attendere ancora per veder prevalere un candidato gradito all’establishment in grado di raccogliere il sostegno dei grandi donatori e provare a contrastare l’attuale favorito.
Dietro a Trump, infatti, la situazione è apparsa molto incerta in New Hampshire. A parte Kasich, il senatore del Texas, Ted Cruz, vincitore a sorpresa in Iowa e visto oltretutto anch’esso con diffidenza dai vertici del partito, Jeb Bush e Marco Rubio hanno raccolto ciascuno tra il 10,5% e poco meno del 12%.
Il calendario delle primarie prevede ora il voto in alcuni stati meridionali, dove il prevalere di un elettorato di tendenze conservatrici potrebbe ulteriormente premiare Trump e Cruz, ritardando ancor più il processo di selezione tra gli altri candidati. I vari Rubio, Kasich, Bush e Christie, nel caso quest’ultimo dovesse decidere di proseguire la sua campagna dopo il pessimo risultato in New Hampshire, sono poi quasi tutti ben finanziati, rendendo improbabile il loro abbandono della corsa se non in presenza di ripetute prestazioni più che deludenti.
A differenza del Partito Democratico, quello Repubblicano terrà le prossime primarie il 20 febbraio prossimo in South Carolina e il 23 i caucuses nel Nevada, dove i sondaggi danno Trump in vantaggio, per poi passare al tradizionale appuntamento del “Super-martedì” il primo giorno del mese di marzo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Dopo le storiche elezioni dello scorso 8 novembre in Myanmar, vinte a valanga dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, erano subito iniziate frenetiche trattative per trovare un equilibrio nella gestione del potere nel paese del sud-est asiatico, dove i militari continuano a svolgere un ruolo di primo piano. I negoziati tra questi ultimi e la NLD sono ancora in corso e, secondo alcune notizie provenienti dalla ex Birmania, potrebbero risolversi in un clamoroso via libera all’elezione alla presidenza della stessa San Suu Kyi.
Capitalizzando la profondissima ostilità nei confronti di una giunta militare che ha governato il paese con il pugno di ferro per decenni, la NLD aveva ottenuto quasi l’80% dei seggi del Parlamento (Assemblea dell’Unione) in palio. I militari, però, grazie alla Costituzione approvata prima di indire “libere” elezioni, si erano riservati il 25% dei seggi e l’assegnazione di alcuni ministeri-chiave, come quello della Difesa e degli Interni. Per emendare la Costituzione è necessario un voto favorevole del 75% più uno dei membri del Parlamento.
Inoltre, con il preciso scopo di impedire ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente, era stato stabilito che alla massima carica del paese non poteva accedere chi avesse parenti stretti di nazionalità diversa da quella birmana. Com’è noto, il marito - deceduto - e i due figli della 70enne premio Nobel hanno cittadinanza britannica.
Il nuovo Parlamento si è ad ogni modo insediato la settimana scorsa nella capitale, Naypyitaw, e alcune delle prime iniziative della nuova maggioranza guidata da San Suu Kyi hanno dimostrato l’esistenza di intense discussioni tra la NLD e il Partito Unito per la Solidarietà e lo Sviluppo (USDP) dei militari. Anzi, la NLD ha mostrato ampia disponibilità a collaborare con i militari. Ad esempio, il deputato del USDP, T Khun Myat, è stato eletto vice-presidente della Camera dei Rappresentanti, mentre l’ex “speaker” ed ex generale Shwe Mann, già numero uno del USDP, è stato messo a capo di una potente commissione parlamentare.
Queste e altre concessioni, secondo alcuni, potrebbero rientrare in un accordo per consentire ad Aung San Suu Kyi di essere eletta presidente del Myanmar. Due esponenti di spicco della NLD hanno rivelato qualche giorno fa al New York Times che il partito ora di maggioranza è pronto a offrire ai militari posizioni di rilievo nel governo in cambio di una modifica costituzionale.
Vista la sensibilità di un’iniziativa di questo genere, la stampa locale e internazionale sta ipotizzando che vi sia allo studio in questi giorni la possibilità di ricorrere a un espediente per ottenere lo stesso obiettivo, quello cioè di “sospendere” l’articolo 59(f) della Costituzione, che vieta appunto a personalità politiche nella condizione famigliare di San Suu Kyi di correre per la presidenza.
Questa eventualità è stata smentita seccamente dal portavoce del gruppo parlamentare del USDP, generale Tin San Naing, il quale ha addirittura escluso che siano in corso discussioni con la NLD sull’argomento. In generale, anche i vertici della NLD stanno evitando di parlare dei negoziati con i militari, tanto che a fine gennaio, poco prima di un incontro con il comandante delle Forze Armate birmane, generale Min Aung Hlaing, avevano emesso una direttiva che autorizzava la sola San Suu Kyi a parlare pubblicamente delle questioni legate al processo di “transizione”.
La prudenza di entrambe le parti è comprensibile. I militari, da un lato, non intendono mostrare segnali di debolezza nonostante la batosta subita alle urne, mentre per la leader della NLD la rivelazione dei dettagli sulle trattative per la spartizione del potere con coloro che l’hanno costretta a una lunga prigionia potrebbe macchiare l’immagine attentamente costruita di “icona” democratica.
D’altra parte, i militari birmani, riservandosi la possibilità di intervenire nelle vicende politiche del paese, intendono salvaguardare i propri interessi, soprattutto economici, anche se ufficialmente in minoranza e, per questa ragione, eventuali concessioni alla NLD sulla questione della presidenza dovranno essere ricambiate in maniera adeguata.
Un altro segnale che le discussioni stanno proseguendo è giunto proprio in questi giorni, con l’annuncio del rinvio delle nomine dei candidati alla presidenza al prossimo mese di marzo. Secondo la Costituzione, i nomi dei tre possibili presidenti devono essere proposti dalle due camere che compongono il Parlamento e dalle Forze Armate. Una seduta congiunta del Parlamento è chiamata poi a scegliere il presidente, mentre i due candidati perdenti diventano automaticamente i nuovi vice-presidenti.
Per lo spostamento delle nomine al 17 marzo prossimo non sono state fornite motivazioni ufficiali, né dai militari né dalla NLD. Il fatto che vi siano trattative delicate in corso è confermato però dall’insolita vicinanza di questa data a quella prevista per l’insediamento del nuovo governo, ovvero il primo di aprile, prima della quale dovrà essere eletto il prossimo presidente. Cinque anni fa, in seguito al voto boicottato dalla NLD, al Parlamento bastarono pochi giorni dopo l’insediamento per eleggere presidente l’ex generale Thein Sein.Le vicende seguite al ritorno alla politica attiva della NLD e di Aung San Suu Kyi in Myanmar non sembrano dunque per il momento rispettare del tutto le aspettative democratiche degli elettori birmani che, con entusiasmo, avevano salutato l’arrivo di una nuova era. Il premio Nobel, già prima delle elezioni, aveva agito come una sorta di portavoce della giunta militare, visitando vari paesi occidentali per chiedere ai loro governi di credere nel processo di transizione in atto nel suo paese e revocare le sanzioni economiche applicate nei confronti del regime.
Con vari esponenti di quest’ultimo, poi, San Suu Kyi ha stabilito in fretta rapporti molto cordiali, mostrando una certa sicurezza nella possibilità di ricoprire un ruolo tutt’altro che simbolico nel panorama politico birmano. Tuttora citata dai media di mezzo mondo è la sua dichiarazione di qualche mese fa, con la quale aveva assicurato che chiunque sarebbe stato scelto come presidente dalla NLD, soltanto a lei sarebbero spettate le decisioni più importanti per il paese.
Il comportamento di Aung San Suu Kyi è stato criticato da molti anche all’interno del suo partito in Myanmar, sia per la spregiudicatezza con cui ha deciso di trattare con i militari sia, in questo caso soprattutto dall’estero, per la sostanziale indifferenza nei confronti della minoranza musulmana Rohingya che vive nel paese, sottoposta a una durissima repressione, se non a un vero e proprio genocidio, da parte delle autorità e della maggioranza buddista.
Agli osservatori non intossicati dalla propaganda occidentale, tuttavia, questa sorta di evoluzione non risulta particolarmente sorprendente. Come molti altri martiri della democrazia o presunti tali in Asia e altrove, anche Aung San Suu Kyi rappresenta uno degli strumenti dei governi occidentali, a cominciare da quello americano, per penetrare e promuovere i propri interessi in paesi guidati da regimi ostili o strategicamente non allineati.
In questo quadro, le battaglie democratiche di personalità come il premio Nobel birmano si risolvono in larga misura nell’apertura dei rispettivi paesi agli investitori stranieri e all’integrazione nei circuiti del capitalismo internazionale. I benefici di questi processi sono raccolti quasi esclusivamente da una classe borghese relativamente ristretta, a cui partiti come la NLD fanno riferimento, mentre la gran parte della popolazione può aspirare tutt’al più a diventare manodopera a bassissimo costo per le multinazionali.
Questa è naturalmente l’evoluzione che ci si attende da un Myanmar in fase di transizione. Una transizione avviata proprio dal regime militare, i cui membri hanno utilizzato Aung San Suu Kyi per riavvicinarsi agli Stati Uniti e all’Occidente dopo molti anni segnati dall’isolamento internazionale e da una partnership politica ed economica quasi esclusiva con la Cina.Gli USA, da parte loro, hanno intravisto la possibilità di sottrarre un paese strategico come la ex Birmania all’influenza di Pechino dopo il lancio della cosiddetta “svolta” asiatica da parte dell’amministrazione Obama, ricorrendo come di consueto sia a minacce che a incentivi per convincere il regime a cambiare rotta.
Anche e sorattutto con la fine degli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, letteralmente dall’oggi al domani il Myanmar è passato così da paria a paese in transizione democratica, quando l’unico vero cambiamento era stato il riorientamento strategico del regime da Pechino a Washington, sia pure con tutte le sfumature del caso.
Le prime elezioni “libere” dello scorso novembre hanno poi contribuito a legittimare il cambiamento agli occhi della comunità internazionale, anche se i negoziati tra la NLD e i militari di queste settimane, oltre a metterne di nuovo in dubbio la credibilità, rivelano il persistere di tensioni interne che minacciano di mettere a repentaglio l’intero processo accuratamente preparato da tutte le parti in causa, dentro e fuori i confini della ex Birmania.