di Mario Lombardo

La pubblicazione di oltre 11 milioni di file relativi alle ricchezze depositate “offshore” dai potenti di tutto il mondo - o quasi - ha trovato in questo avvio di settimana un’eco molto ampia nei media e sui social network. Se le rivelazioni, che il giornale tedesco Süddeutsche Zeitung ha condiviso con svariate testate, hanno quanto meno il merito di mostrare i nomi di leader politici e imprenditori accostati a documenti che provano comportamenti moralmente riprovevoli, anche se non sempre illegali, per molti dei divulgatori la vicenda dei “Panama Papers” sembra avere una valenza tutta politica e serve a colpire i soliti presunti nemici dell’Occidente, a cominciare dal presidente russo, Vladimir Putin.

Emblematico, anche se tutt’altro che sorprendente, è in questo senso il caso del britannico Guardian. Già depositario di molte delle rivelazioni di Edward Snowden sull’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), il Guardian ha prodotto lunedì una serie di articoli, approfondimenti e accattivanti grafici per spiegare gli intrecci fatti emergere dai documenti provenienti dalla società di consulenza panamense Mossack Fonseca.

Il giornale britannico ha dedicato un intero pezzo a ricostruire gli intrighi di alcuni cittadini russi molto vicini a Putin, nonché di famigliari del numero uno del Cremlino, per insinuare in maniera esplicita che quest’ultimo beneficia di centinaia di milioni se non di miliardi di dollari parcheggiati in conti offshore.

I lettori dell’articolo firmato da Luke Harding si imbattono però da subito in una precisazione che, se pure non smonta totalmente le spiegazioni che seguono, lascia intendere in modo chiaro la tendenziosità delle conclusioni. Il nome di Putin, infatti, “non compare in un nemmeno uno dei documenti” analizzati.

Che l’onestà di Putin possa essere oggetto di discussione appare evidente; magari è solo più astuto o accorto di altri nel nascondere il proprio denaro in paradisi fiscali. Ma il punto è decisamente un altro: cioè che su congetture e ipotesi, i media europei e americani hanno costruito ancora una volta un impianto accusatorio nei confronti di un leader politico al centro delle mire dei fautori del cambio di regime in molte cancellerie occidentali.

D’altra parte, i precedenti del Guardian non promettono molto di buono circa la manipolazione di rivelazioni esplosive o presunte tali. Basti ricordare che nell’estate del 2013 i vertici del giornale londinese distrussero i supporti informatici contenenti i file consegnati da Snowden dietro pressioni dei servizi di sicurezza britannici. Ancora, il Guardian, malgrado avesse inizialmente pubblicato molti documenti segreti di WikiLeaks, conduce da anni una feroce campagna di discredito contro il suo fondatore, Julian Assange.

Il Guardian, in ogni caso, ricorda come Putin sia amico di Sergei Rodulgin, titolare di quote variabili di diverse compagnie, tra cui la Banca Rossiya, considerata l’istituto degli amici del presidente russo e colpita da sanzioni americane dopo lo scoppio della crisi ucraina. Sempre secondo il governo americano, il numero uno di questa banca, Yuri Kovalchuk, sarebbe il banchiere personale di molti membri del governo di Mosca, tra cui ovviamente Putin.

I Panama Papers rivelano come Kovalchuk e la sua banca abbiano favorito il trasferimento di almeno un miliardo di dollari verso una “entità offshore appositamente creata”, di nome Sandalwood Continental. I fondi proverrebbero da “una serie di prestiti senza garanzie” erogati dalla Banca Commerciale Russa (RCB), di proprietà statale, con sede a Cipro e da altri istituti finanziari pubblici.

L’articolo del Guardian elenca una serie di ulteriori prestiti e descrive l’utilizzo dei fondi da parte di compagnie offshore a favore di cittadini russi legati in qualche modo a Putin, per poi riproporre le speculazioni relative alla sua ricchezza, anche se il presidente russo formalmente non possiederebbe nulla o quasi.

Se il nome di Putin e la sua immagine sono apparsi in numerosi resoconti dei Panama Papers proposti dai media occidentali, ad esempio in Gran Bretagna pochi hanno parlato in maniera anche solo marginale di un altro leader tirato in ballo con modalità simili, vale a dire il primo ministro David Cameron. Sempre il Guardian, anzi, ha ricordato senza imbarazzo come il premier Conservatore in un discorso a Singapore lo scorso anno avesse denunciato il trasferimento di denaro in paradisi fiscali e manifestato la volontà del suo governo di prendere iniziative per contrastare la creazione di compagnie fasulle offshore.

Nei documenti appena pubblicati viene nominato il padre di Cameron, Ian, deceduto nel 2010, il quale una decina di anni fa si rivolse a Mossack Fonseca per evitare al suo fondo di investimenti, Blairmore Holdings, il pagamento delle imposte in Gran Bretagna. Tra i clienti di rilievo in Gran Brategna della società panamense che fornisce assistenza per la creazione di entità offshore figurano inoltre altri leader o finanziatori dei “Tories”, tra cui l’ex parlamentare Lord Ashcroft e l’ex ministro Michael Mates.

Qualche sospetto sulla diffusione delle informazioni sui paradisi fiscali è suscitato poi dalla dichiarazione, fatta ad esempio dal Guardian, che numerosi documenti messi a disposizione dei media continueranno a rimanere segreti. Le perplessità legate a questa decisione vanno collegate al fatto insolito, rilevato da molti sui social network, che negli 11,5 milioni di documenti sembra non esserci menzione di compagnie o politici americani.

La questione dei paradisi fiscali e delle compagnie offshore rappresenta comunque una problematica non nuova né sorprendente. Soprattutto però, qualsiasi rivelazione che serva a smascherare le modalità di queste pratiche, sempre che risulti completa e imparziale, non può essere separata da un’analisi delle responsabilità dei singoli governi e dei politici che, pur dichiarando guerra alle compagnie con domiciliazione fiscale sospetta, sono quanto meno passivi nel combatterle, visto che i beneficiari fanno parte fondamentalmente delle classi a cui essi fanno riferimento o, addirittura, sono di frequente essi stessi.

I Panama Papers, ad ogni modo, oltre a uomini della cerchia di Putin e al padre di Cameron, citano 12 capi di stato o primi ministri, sia ex che attualmente in carica, con interessi offshore. Tra quelli in carica spiccano i presidenti di Argentina, Mauricio Macri, e Ucraina, Petro Poroshenko, il primo ministro islandese, Sigmundur Gunnlaugsson, e il sovrano dell’Arabia Saudita, Salman. L’Italia è presente con Luca Cordero di Montezemolo, a dimostrazione che l’inutilità rende sempre.

A seguito delle rivelazioni, alcuni paesi hanno già annunciato l’avvio di indagini fiscali, più che altro per contenere eventuali malumori di chi le tasse le paga per intero. Le autorità di Australia e Nuova Zelanda si sono ad esempio mosse in questo senso lunedì dopo che i nomi di centinaia di loro cittadini sono emersi dai documenti. In Europa, invece, uno dei primi a promettere procedimenti giudiziari contro eventuali evasori è stato uno dei leader politici più impopolari tra quelli in carica nel continente: il presidente francese, François Hollande. Possono dormire tranquilli.

di Michele Paris

Le speranze nutrite da Donald Trump di unificare il Partito Repubblicano attorno alla sua candidatura, nel caso fosse alla fine lui a conquistare la nomination nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti, hanno subito un altro duro colpo questa settimana in seguito a una serie di nuove gaffes e polemiche nelle quali si è trovato coinvolto il 69enne miliardario newyorchese.

Il segnale della crisi crescente che sta attraversando il partito è giunto però da una questione parzialmente separata e che rischia di produrre una grave spaccatura in vista della convention di Cleveland il prossimo mese di luglio. Martedì sera, in diretta televisiva, Trump si è rimangiato cioè l’impegno a sostenere qualsiasi candidato, che non sia lui, che verrà incoronato dal partito per sfidare i Democratici per la Casa Bianca.

Questa marcia indietro comporta anche la possibilità che, nel caso a prevalere sia uno dei suoi rivali o un candidato terzo, Trump si riservi di correre per la presidenza in maniera indipendente. Una simile ipotesi, visto il seguito consistente di elettori Repubblicani conquistato da Trump, implicherebbe quasi certamente la vittoria a novembre del candidato Democratico e, con buone probabilità, una scissione all’interno del partito.

Solo qualche settimana fa, nel corso di un dibattito a Detroit, Trump e gli altri pretendenti alla Casa Bianca - il senatore di estrema destra del Texas, Ted Cruz, il governatore “moderato” dell’Ohio, John Kasich, e il senatore della Florida in seguito ritiratosi dalla competizione, Marco Rubio - avevano tutti assicurato che avrebbero dato il loro appoggio al candidato nominato.

Cruz e Kasich hanno così a loro volta lasciato intendere che Trump potrebbe non ottenere il loro sostegno nel caso riuscisse a mettere le mani sulla nomination, anche se le dichiarazioni di entrambi in proposito sono state più caute rispetto a quelle dell’attuale favorito. Cruz ha fatto riferimento agli attacchi dei giorni scorsi portati da Trump a sua moglie e alla sua famiglia per dimostrare l’impossibilità a sostenerlo, mentre Kasich ha spiegato che il partito non dovrebbe appoggiare un candidato che “divide e danneggia il paese”.

Le prese di posizione dei due inseguitori di Trump nella sfida in casa Repubblicana sono la più recente manifestazione delle manovre in atto per impedire del tutto a quest’ultimo di ottenere il numero di delegati necessario ad assicurarsi la nomination. Vista la quasi impossibilità per Cruz e Kasich di superare Trump e raccogliere i 1.237 delegati necessari a chiudere ogni discorso, l’obiettivo di una buona parte del partito è quello di giungere a una convention divisa o “contestata”.

La strategia, in altre parole, è quella di impedire a Trump di ottenere la maggioranza assoluta dei delegati al termine delle primarie e forzare una seconda votazione alla convention, nella quale i membri del partito avrebbero la facoltà di scegliere un qualsiasi candidato a loro gradito senza essere vincolati ai risultati elettorali.

Con questo scenario in mente, qualche giorno fa Marco Rubio ha chiesto al comitato nazionale del partito e a quelli dei singoli stati di obbligare i 171 delegati conquistati nelle primarie a votare per lui nella votazione d’apertura della convention, nonostante si sia ritirato dalla corsa. Di norma, i delegati di candidati che hanno abbandonato la competizione non hanno vincoli di voto alla convention e sono generalmente a disposizione del migliore offerente. La mossa di Rubio intende perciò privare Trump di un numero consistente di voti alla prima e per lui decisiva votazione per l’assegnazione della nomination.

L’aria di crisi che rischia di avvolgere la convention Repubblicana di luglio era già stata prefigurata un paio di settimane fa dallo stesso Trump, il quale aveva ipotizzato una sorta di rivolta nel caso gli fosse sottratta la nomination. In verità, in assenza di un candidato con la maggioranza assoluta dei delegati, convention divise si sono verificate più volte in passato per entrambi i principali partiti americani. Lo svincolo dei delegati dopo la prima votazione è inoltre una regola consolidata che ha già premiato candidati alla Casa Bianca diversi da quelli in vantaggio dopo le primarie.

Le manovre dirette contro Trump sono ad ogni modo favorite dalle controversie che egli stesso contribuisce a creare, facendo appunto il gioco dei vertici di un partito che ritiene pressoché impossibile riconquistare la Casa Bianca con un candidato simile.

Critiche molto accese sono piovute ad esempio su Trump questa settimana dopo un’uscita nel corso di un’intervista al network MSNBC sul diritto all’aborto. Trump, dopo avere ribadito la sua contrarietà alle interruzioni di gravidanza, ha affermato che, se l’aborto fosse messo fuori legge negli USA, le donne che dovessero ricorrervi illegalmente dovrebbero essere punite in qualche modo.

La dichiarazione è stata subito condannata da abortisti e anti-abortisti. Tra questi ultimi sono intervenuti anche i due rivali di Trump - Cruz e Kasich - i quali hanno proposto la tradizionale posizione altrettanto reazionaria prevalente tra i Repubblicani, cioè che a pagare le conseguenze di pratiche abortive eventualmente illegali dovrebbero essere i medici e non le donne incinte.

Trump, da parte sua, ha ritrattato poco più tardi, allineandosi alle posizioni del partito e rispondendo anche alle accuse di quanti hanno ricordato come in passato si fosse detto a favore dell’interruzione di gravidanza. Nel corso di un evento sponsorizzato dalla CNN, Trump ha spiegato di avere cambiato idea sull’aborto, seguendo un percorso simile a quello di Ronald Reagan, dapprima favorevole da governatore della California e poi oppositore alla Casa Bianca.

Dopo l’aborto, mercoledì Trump è tornato sulle torture come arma a suo dire legittima per la promozione degli interessi americani. Uno dei problemi per il governo di Washington sarebbe per lui l’esistenza della Convenzione di Ginevra, le cui “leggi e regole” rendono i soldati USA “timorosi di combattere”.

Sia sulla questione dell’aborto sia su quella relativa alle torture dei prigionieri, la grande maggioranza del Partito Repubblicano è peraltro su posizioni non dissimili da quelle di Trump, basti pensare all’ampio sostegno per i crimini dell’amministrazione Bush nella “guerra al terrore” e all’opposizione all’indagine della ex maggioranza Democratica al Senato sugli interrogatori dei sospettati di terrorismo da parte della CIA.

Un altro guaio per Trump è stato registrato martedì con l’incriminazione formale in Florida del numero uno della sua campagna elettorale, Corey Lewandowski, accusato di percosse nei confronti di una giornalista del sito di informazione di destra, Breitbart News, durante un comizio. I guai legali di Lewandowski sono aggravati dai filmati che hanno ripreso lo scontro e si aggiungono ai numerosi episodi di maltrattamenti, se non vere e proprie violenze, contro contestatori di Trump in vari eventi pubblici durante le primarie.

L’emergere di Donald Trump come favorito per la nomination sta dunque accelerando quello che sembra a tutti gli effetti un processo di disintegrazione del Partito Repubblicano, esposto alle conseguenze di decenni caratterizzati dalla promozione di forze di estrema destra e al limite del fascismo da parte di tutto il panorama politico americano.

La reazione dell’establishment Repubblicano al successo di Trump sembra però iniziare a dare i primi frutti, tanto da rendere paradossalmente ancora più confuse le prospettive per la convention dell’estate e il voto di novembre.

I sondaggi diffusi in questi giorni per il prossimo appuntamento delle primarie, in programma martedì in Wisconsin, indicano Ted Cruz - candidato ugualmente non troppo ben visto dalla dirigenza Repubblica e attestato su posizioni non meno reazionarie di Trump - in vantaggio di una decina di punti percentuali sul favorito e di quasi 20 su Kasich.

Il dato, se corrispondente alla realtà, appare ancora più rilevante se si considera che la composizione dell’elettorato di questo stato del Midwest non sembrerebbe particolarmente adatto a un candidato fondamentalista cristiano come il senatore del Texas.

A sottolineare la gravità delle divisioni tra i Repubblicani o, meglio, tra i leader e una buona parte dell’elettorato, c’è infine un fatto estremamente insolito per il “frontrunner” del partito a questo punto della competizione. In Wisconsin, cioè, non un solo membro del partito che ricopra una carica elettiva ha finora manifestato ufficialmente il proprio appoggio per Donald Trump.

di Mario Lombardo

Dopo la recente serie di vittorie ottenute da Bernie Sanders nelle primarie Democratiche, lo staff e i sostenitori della sua rivale, Hillary Clinton, hanno intensificato gli sforzi per convincere il senatore del Vermont a ritirare la propria candidatura, viste le ormai quasi nulle possibilità di prevalere nella corsa alla nomination per la presidenza degli Stati Uniti.

Con le pesanti e, a tratti, inaspettate sconfitte in Ohio, Illinois e Missouri lo scorso 15 marzo, Sanders sembrava essere tagliato fuori dalla competizione in maniera definitiva, consentendo presumibilmente a Hillary di percorrere una sorta di marcia trionfale verso la convention dell’estate e le elezioni di novembre.

Tra il 22 e il 26 di marzo, Sanders è riuscito invece a riprendersi e a prevalere in sei delle sette sfide che erano in calendario, spesso con margini molto ampi. Il senatore indipendente diventato Democratico ha ottenuto successi in Idaho, Utah, Alaska, Hawaii, nello stato di Washington e tra gli americani residenti all’estero, mentre Hillary si è dovuta accontentare della sola Arizona.

I risultati della scorsa settimana hanno comunque modificato solo in minima parte i numeri dei due candidati, dal momento che Sanders ha ridotto di appena una cinquantina il divario nel numero di delegati conquistati dall’ex segretario di Stato. Secondo il conteggio tenuto dalla Associated Press, quest’ultima ha oggi 1.243 delegati contro i 975 di Sanders. Per assicurarsi la nomination Democratica di delegati ne servono 2.383.

Considerando anche il fatto che i cosiddetti “superdelegati” Democratici - coloro cioè che alla convention potranno votare senza vincoli per il candidato preferito - sembrano schierati a larghissima maggioranza per Hillary Clinton e che primarie e caucuses di questo partito assegnano delegati con il metodo proporzionale, le speranze di Sanders di ribaltare la situazione rimangono minime se non inesistenti.

Tuttavia, la sua capacità di continuare a mettere a segno successi in numerosi stati, grazie al sostegno soprattutto di giovani e lavoratori affascinati dalla sua agenda progressista, non solo legittima la permanenza nella competizione per la nomination ma solleva enormi dubbi sull’adeguatezza della candidatura di Hillary, anche valutandola secondo gli standard della politica “mainstream” americana.

Forse proprio per questa ragione, parte della strategia Clinton sembra consistere nello spegnere le ambizioni di Sanders e convincere lui e i suoi sostenitori dell’inevitabilità della vittoria della ex first lady, al di là dei risultati altalenanti nei vari stati. Hillary, ad esempio, ha fatto sapere questa settimana che non intende partecipare ai rimanenti dibattiti pubblici in programma con il suo sfidante se quest’ultimo e il suo team non cesseranno di condurre una campagna dai toni negativi nei suoi confronti.

La presa di posizione serve in realtà a ridurre la visibilità di Sanders, privandolo di un palcoscenico televisivo che attrae potenzialmente decine di milioni di possibili elettori. Sul fronte dei dibattiti, inoltre, Sanders era già stato penalizzato dal Partito Democratico con la decisione presa mesi fa di organizzare un numero minore di questi eventi rispetto agli anni scorsi.

Le accuse a Sanders si riferiscono agli attacchi del senatore contro Hillary per i suoi legami - innegabili e ben documentati - con Wall Street, al cui servizio la famiglia Clinton ha conquistato potere e ricchezza. Soprattutto alla vigilia delle primarie del 19 aprile nello stato di New York, per il quale è stata senatrice, Hillary intenderebbe evitare di essere additata in diretta televisiva come la candidata dell’industria finanziaria americana.

Le accuse relative alla presunta campagna negativa di Sanders nei suoi confronti sono comunque ridicole. La sfida in casa Democratica si sta svolgendo su toni infinitamente più moderati rispetto a quella Repubblicana e, ad ogni modo, attacchi, colpi bassi e insulti tra compagni di partito non sono certo una rarità nelle primarie americane, come dimostrò anche la campagna della stessa Clinton nel 2008 contro Obama.

Un’altra strategia per cercare di scoraggiare Sanders e i suoi sostenitori è poi quella di rafforzare l’impressione di una nomination già nelle mani di Hillary Clinton. La stessa favorita nelle sue uscite pubbliche tende a evitare riferimenti al suo sfidante o alle primarie ancora in corso, mentre si concentra negli attacchi contro i Repubblicani e, in particolare, contro Donald Trump.

I membri dello staff di Hillary e i principali giornali americani sostanzialmente allineati al Partito Democratico continuano inoltre a produrre dichiarazioni e analisi che evidenziano il percorso estremamente arduo che attende Sanders per recuperare terreno nel numero di delegati.

Lo stratega capo del team Clinton, Joel Benenson, ha delineato così i prossimi scenari da qui alla fine di aprile, quando i giochi dovrebbero essere ormai fatti. Secondo le sue previsioni, Hillary vincerà le primarie di New York, per poi incassare un numero di delegati sufficiente a chiudere matematicamente il discorso nomination negli appuntamenti del 26 aprile in alcuni stati del nord-est, tra cui Pennsylvania, Maryland e Connecticut.

Questi stessi calcoli avevano iniziato a farli molti deputati e senatori Democratici già una decina di giorni fa. Un articolo del sito Politico.com aveva citato svariati membri del Congresso, impegnati a chiedere a Sanders di trarre le dovute conclusioni dai risultati delle primarie.

Pur senza parlare apertamente di abbandono della corsa, e manifestando rispetto per la sua capacità di attrarre un numero consistente di elettori, i leader Democratici invitavano il senatore a rivolgere le armi contro i Repubblicani invece di continuare a mettere in risalto le debolezze di Hillary, a loro dire già certa della nomination.

Se Hillary resta la super-favorita, Sanders continua a intravedere più di una possibilità almeno per restare in corsa. Ad esempio, buone appaiono per lui le possibilità di fare suo il Wisconsin martedì prossimo e, ancor più, di aggiudicarsi i caucuses del Wyoming quattro giorni più tardi. Anche con queste vittorie, la strada per il senatore del Vermont resterebbe però tutta in salita, ma la precarietà che sembra avvolgere la candidatura della Clinton e il clima di crescente ostilità nei confronti di tutti i politici legati all’establishment di Washington rendono quanto meno legittime le residue speranze di Bernie Sanders.

Al di là della sicurezza mostrata a livello pubblico, i vertici Democratici e i media che gravitano in maniera non ufficiale attorno al partito nutrono parecchi timori per la loro candidata, proprio perché ne conoscono le debolezze e il meritato discredito agli occhi di moltissimi americani. Le preoccupazioni riguardano probabilmente non tanto l’esito delle primarie quanto la sua vulnerabilità a novembre contro qualsiasi pretendente Repubblicano alla Casa Bianca.

A questo proposito, il Wall Street Journal ha rivelato qualche giorno fa come il partito stia valutando l’impiego del vice-presidente Joe Biden per aiutare Hillary a raccogliere consensi tra quella fetta di elettorato che le è stata finora più ostile, cioè i lavoratori bianchi. Biden, secondo i cliché perpetuati dagli ambienti di Washington e dalla stampa ufficiale, manterrebbe infatti un certo appeal tra la “working-class” americana.

I più recenti sondaggi di opinione mostrano poi una realtà preoccupante per la Clinton, la quale, secondo un’indagine commissionata dalla CNN, avrebbe il livello di gradimento più basso tra i rimanenti candidati alla nomination di entrambi i partiti, ad eccezione di Trump. Su base nazionale il vantaggio su Sanders è virtualmente svanito, mentre il senatore del Vermont sembra avere maggiori probabilità di battere il favorito Repubblicano rispetto a Hillary.

Ad agitare i sonni di Hillary continua a esserci infine anche la vicenda legale collegata al suo utilizzo di un account di posta elettronica privato negli anni in cui ha ricoperto la carica di segretario di Stato. Questa pratica è vietata dalla legge americana per quanto riguarda la corrispondenza ufficiale, la quale deve essere gestita da un server governativo.

Proprio martedì, un secondo giudice federale ha accolto l’istanza di un’organizzazione no-profit di destra per chiedere la deposizione giurata di alcuni membri dell’entourage della ex numero uno della diplomazia USA e per rendere pubbliche ulteriori informazioni sulle sue e-mail gestite privatamente.

di Michele Paris

Il bilancio del gravissimo attentato che il giorno di Pasqua ha colpito un parco di divertimenti di Lahore, la capitale della provincia pakistana del Punjab, ha superato ormai le 70 vittime, tra cui una trentina di bambini. A rivendicare il crimine è stata una fazione dissidente dei Talebani pakistani (Tehrik-e-Taliban, TTP), chiamata Jamaat ul-Ahrar, distintasi nell’ultimo periodo per una serie di operazioni violente e per avere espresso il desiderio di trasformarsi in un affiliato dello Stato Islamico (ISIS).

La strage, che ha colpito principalmente pakistani di fede cristiana, ha segnato l’irruzione della violenza fondamentalista su vasta scala nella provincia più ricca e popolosa del paese centro-asiatico, nonché base di potere del primo ministro in carica, Nawaz Sharif, e del suo partito, la Lega Musulmana del Pakistan (PML-N).

Il comunicato di un portavoce di Jamaat ul-Ahrar per rivendicare l’attentato ha fatto riferimento proprio al premier e al fatto che il gruppo integralista è ormai “entrato a Lahore”.  Secondo la stampa pakistana e internazionale, il massacro indiscriminato del fine settimana rientrerebbe nella strategia dei Talebani e dei gruppi che ruotano attorno a essi, volta a destabilizzare il governo di Islamabad con l’obiettivo di creare un regime fondamentalista basato sulla legge islamica (Sharia).

Se la violenza, diretta soprattutto contro le minoranze religiose da parte del terrorismo di matrice sunnita, non è mai venuta meno in Pakistan in questi anni, è però vero anche che l’attentato di Lahore giunge in un frangente nel quale il governo Sharif stava tentando di stabilizzare il paese (ri)costruendo legami economici e strategici con paesi come Cina e Iran. Questo percorso, ancora in fase poco più che embrionale, deve avere suscitato più di un malumore nei due principali alleati di Islamabad, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita.

La condanna dell’attentato proveniente da Washington ha d’altra parte lasciato intendere che il Pakistan trarrebbe maggiori vantaggi nel consolidare l’alleanza con gli USA. Il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale del presidente Obama, Ned Price, ha infatti assicurato che gli Stati Uniti continueranno a lavorare con il Pakistan per “sradicare la piaga del terrorismo”.

In realtà, proprio l’impegno americano in questa parte del continente asiatico ha contribuito e continua a contribuire alla destabilizzazione del Pakistan a causa del proliferare di formazioni integraliste. All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush costrinse di fatto il regime dell’allora presidente-dittatore Pervez Musharraf a tagliare, almeno ufficialmente, ogni legame con i Talebani in Afghanistan e a procedere con la repressione dei militanti fondamentalisti attivi in territorio pakistano, soprattutto nelle aree tribali di confine.

Una serie di spedizione delle forze armate pakistane contro questi gruppi armati, assieme alla campagna di bombardamenti con i droni condotta da Washington, ha così radicalizzato l’opposizione contro il governo di Islamabad, traducendosi in un’ondata di attentati sia contro obiettivi militari che civili. Allo stesso tempo, però, soprattutto i potenti servizi segreti militari (Inter-Services Intelligence, ISI), hanno mantenuto rapporti quanto meno ambigui almeno con alcune di queste formazioni, consentendo loro di rimanere attive non solo nel vicino Afghanistan ma anche all’interno dei confini pakistani.

La violenza settaria scatenata da queste manovre strategiche orchestrate da Washington è andata così aumentando in Pakistan e tutti i primi segnali seguiti all’attentato di domenica a Lahore indicano che difficilmente ci sarà un’inversione di rotta nel prossimo futuro.

Il governo pakistano, l’apparato militare e dell’intelligence si sono infatti riuniti nei giorni scorsi per decidere il lancio di una nuova offensiva anti-terrorismo, questa volta nel Punjab. Un ministro del governo di quest’ultima provincia ha annunciato martedì che quella già in corso è un’operazione che coinvolge tutte le forze politiche, religiose e militari del paese e solo nelle prime ore migliaia di raid sono stati portati a termine, risultanti in oltre 5 mila arresti.

L’iniziativa decisa da Islamabad comporterà quasi certamente nuove violazioni dei diritti civili e democratici su larga scala, determinati in primo luogo dall’attribuzione di poteri speciali alle forze armate. Un’evoluzione simile era già stata registrata in seguito all’attentato dei Talebani pakistani (TTP) che nel dicembre del 2014 uccise 133 giovani in una scuola di Peshawar.

In quell’occasione, erano stati tra l’altro introdotti tribunali militari per processare civili accusati di terrorismo, anche tramite procedimenti segreti, così come venne ripristinata la pena di morte. Varie organizzazioni umanitarie avrebbero poi documentato il puntuale abuso dei nuovi poteri assegnati ai militari.

L’emergere di Jamaat ul-Ahrar, ad ogni modo, ha riaperto in maniera dolorosa la piaga del settarismo che colpisce il Pakistan, a sua volta connessa alle manovre strategiche accennate in precedenza e basate sull’islamizzazione della società, principalmente in funzione di contenimento delle tensioni sociali in un paese dove la povertà è dilagante.

Questa situazione risulta chiara ad esempio dal caso ampiamente riportato dai media occidentali di Aasia Bibi, la donna cristiana in carcere con l’accusa di blasfemia per avere insultato il profeta Muhammad. Questo mese, alcuni manifestati avevano paralizzato alcuni quartieri della capitale, Islamabad, chiedendo alle autorità di procedere con l’impiccagione della donna.

Nel 2011, inoltre, l’allora governatore del Punjab, Salman Taseer, era stato assassinato da una sua guardia del corpo, Mumtaz Qadri, dopo avere espresso pubblicamente la sua opposizione all’utilizzo della legge sulla blasfemia nella condanna di Aasia Bibi. Lo stesso Qadri è stato poi giustiziato a fine febbraio per l’assassinio, ma dopo l’esecuzione centinaia di persone sono scese per le strade di Islamabad e delle altri principali città del Pakistan per protestare e chiedere addirittura la sua proclamazione a “martire”.

Come ha spiegato il giornalista pakistano Salman Rafi questa settimana sulla testata on-line Asia Times, le radici degli attacchi settari contro le minoranze religiose, a cominciare da quelli che prendono di mira i cristiani, non sono cosa nuova in Pakistan e vanno anzi ricercati in parte nella promozione di questo paese da parte della sua classe dirigente come “bastione dell’Islam” e “terra dei puri” già all’indomani dell’indipendenza nel 1947.

Più di recente, secondo lo stesso autore, questo processo di natura fortemente reazionaria appare evidente anche nella “graduale trasformazione delle università più prestigiose  in luoghi dove viene predicato l’estremismo [religioso]”, mentre, con l’approvazione di fatto delle autorità, “gli elementi progressisti vengono emarginati”.

Il problema del settarismo e dell’estremismo religioso in Pakistan, perciò, “non è semplicemente ed esclusivamente limitato a certi gruppi Talebani” in “zone remote” del paese, bensì è ormai penetrato “nei centri urbani” e coinvolge molti degli appartenenti alle classi “più educate”.

Quel che è certo, tuttavia, è che il governo e gli altri centri di potere pakistani continuano a mantenere quanto meno un atteggiamento ambivalente nei confronti di quella che da decenni considerano come un’arma utile al perseguimento dei propri obiettivi. Ugualmente, una soluzione che metta fine alla violenza rimarrà fuori dalla portata e, anzi, il problema rischia di aggravarsi, se si ricorrerà soltanto a “operazioni militari e di intelligence”, esattamente come quella appena lanciata dal governo in risposta alla strage di Lahore.

di Michele Paris

Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, si appresta a visitare il Pakistan tra venerdì e sabato con un’agenda ricca di significato e che si inserisce nel progressivo riallineamento strategico in corso negli ultimi anni in Asia centrale. Nel concreto, al centro dell’incontro tra Rouhani e il primo ministro pakistano, Nawaz Sharif, ci sarà il rafforzamento dei legami commerciali e, soprattutto, la collaborazione sul fronte energetico, visti i problemi cronici di Islamabad in questo ambito.

La missione del presidente della Repubblica Islamica ha anche a che fare con i rinnovati sforzi di Teheran per costruire relazioni più solide non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia centrale e orientale, dopo l’accordo sul suo programma nucleare del luglio scorso e lo smantellamento delle sanzioni internazionali.

Oltre alle possibili forniture di petrolio e gas naturale, le discussioni del fine settimana torneranno alla decennale questione del gasdotto che dovrebbe collegare i due paesi confinanti. La sezione in territorio iraniano di quest’opera - definita “gasdotto della pace” - è stata realizzata già da qualche anno, ma quella in Pakistan si è arenata, nonostante l’annuncio della ripresa dei lavori già tre anni fa, a causa delle sanzioni che gravavano su Teheran e dei problemi economici di Islamabad.

Gli Stati Uniti fanno poi pressioni da tempo sul governo pakistano per abbandonare il progetto, anche se gli sviluppi più recenti suggeriscono un probabile, anche se lento, superamento degli ostacoli. A chiarire ancora una volta le intenzioni del Pakistan è stato in questi giorni il ministro del Petrolio, Shahid Khaqan Abbasi, il quale ha assicurato che il suo governo “è certamente e senza dubbio impegnato nella realizzazione del gasdotto”.

Determinante per portare a buon fine la vicenda sembra essere l’impegno cinese in Pakistan, rilanciato dalla visita dello scorso anno del presidente, Xi Jinping, durante la quale fu promesso un pacchetto di prestiti e progetti d’investimento pari a 45 miliardi di dollari. Pechino ha infatti avviato recentemente i lavori per la costruzione di una parte del gasdotto in territorio pakistano, lasciando a Islamabad solo un centinaio di chilometri da completare per ultimare il collegamento con il confine iraniano.

Se le questioni energetiche riceveranno prevedibilmente la maggior parte delle attenzioni durante la visita di Rouhani, esse non esauriranno le discussioni. Per il nuovo ambasciatore iraniano a Islamabad, Mehdi Honardoost, dovranno essere gettate le basi per portare gli scambi commerciali bilaterali a cinque miliardi di dollari l’anno, obiettivo fissato nel maggio 2014 nel corso di un incontro a Teheran tra il premier pakistano Sharif e lo stesso Rouhani. A sua volta, secondo l’agenzia di stampa iraniana Fars, nei giorni scorsi il ministro pakistano per il Commercio aveva ordinato la preparazione di una “strategia complessiva” per accrescere gli scambi con il vicino.

Non solo, un’altra iniziativa sembra prospettarsi con implicazioni ben più ampie. Per il quotidiano di Karachi, The Express Tribune, la Banca Centrale pakistana avrebbe dato cioè indicazione ai “trader” locali di utilizzare l’euro invece del dollaro nelle transazioni con l’Iran. La decisione sarebbe stata presa per evitare imprevisti alla luce delle rimanenti sanzioni finanziare applicate alla Repubblica Islamica, ma non può che essere vista con una certa apprensione negli Stati Uniti.

La visita di Rouhani, in definitiva, conferma la tendenza del Pakistan a cercare di svincolarsi dall’alleanza che, per quanto disagevole, ha legato e continua a legarlo agli USA. Ugualmente, i rapporti molto cordiali intrattenuti con Teheran e l’impegno a rafforzarli sembrano apparentemente scontrarsi con quello privilegiato mantenuto storicamente con un alleato cruciale di Washington: l’Arabia Saudita.

La monarchia assoluta sunnita è il tradizionale rivale dell’Iran sciita per la supremazia nella regione e le frizioni tra i due paesi sono aumentate considerevolmente dopo la firma dell’accordo sul nucleare a Ginevra tra Teheran e le potenze del gruppo dei P5+1.

L’Arabia Saudita assicura aiuti finanziari consistenti al Pakistan e nel paese del Golfo Persico vivono e lavorano circa due milioni di cittadini pakistani, le cui rimesse verso la madrepatria rappresentano un’altra importante fonte di entrate.

Il Pakistan non ha perciò nessuna intenzione di incrinare i rapporti con il regime saudita, come dimostrano le recenti visite a Riyadh del premier Nawaz Sharif e del capo delle forze armate, generale Raheel Sharif, o la partecipazione a una recente esercitazione militare nel regno con altri paesi musulmani. Tuttavia, i tentativi di mantenere un atteggiamento quanto meno equidistante tra Arabia Saudita e Iran appaiono evidenti.

Un esempio per molti clamoroso di ciò si era avuto nelle prime fasi della guerra di aggressione scatenata dall’Arabia Saudita in Yemen per fermare l’avanzata dei “ribelli” Houthi sciiti. In quell’occasione, pur appoggiando formalmente l’operazione di Riyadh, il governo pakistano aveva respinto gli inviti a partecipare in maniera diretta a un conflitto che viene universalmente considerato come una guerra per procura volta a colpire gli interessi iraniani.

D’altra parte, se la crescente freddezza tra Islamabad e soprattutto Washington è la diretta conseguenza delle scelte di politica estera del governo USA, a cominciare dalla promozione di una partnership strategica in funzione anti-cinese con l’India, ovvero l’arcinemico storico del Pakistan, i rapporti di quest’ultimo paese con l’Iran sono storicamente buoni nonostante le difficoltà dei decenni più recenti.

L’Iran, ad esempio, fu il primo paese a riconoscere la sovranità del Pakistan dopo l’indipendenza nel 1947 e negli anni della Guerra Fredda garantiva a quest’ultimo il proprio appoggio nell’ambito della rivalità e nei conflitti con l’India. Le differenze emersero se mai in seguito, in particolare riguardo l’Afghanistan e il sostegno di Islamabad ai Talebani e al fondamentalismo sunnita. I rapporti non sono mai tuttavia precipitati, anche perché un quinto della popolazione pakistana è di fede sciita, e le relazioni commerciali hanno continuato a espandersi. Nel 1999, poi, i due paesi riuscirono anche a siglare un trattato di libero scambio.

Il riassetto della politica estera pakistana è infine ancora più chiaro dal già ricordato rafforzamento dei rapporti con la Cina, peraltro alleato storico di Islamabad. L’intenzione di Pechino è quella di integrare il Pakistan nella propria strategia di espansione economica rivolta a molti paesi dell’Asia centrale e sud-orientale, in modo anche da rompere o prevenire l’accerchiamento americano, pianificato formalmente dall’amministrazione Obama con l’offensiva strategica nota come “svolta” asiatica.

La classe dirigente pakistana, da parte sua, non può che guardare a Teheran e a Pechino con grande interesse visti i potenziali vantaggi in termini di investimenti e di sicurezza energetica che si prospettano, dal momento che la rete infrastrutturale del paese, così come, più in generale, la situazione economica interna, è in stato di semi-sfacelo.

L’evoluzione degli equilibri a cui si sta assistendo è dunque determinata principalmente dai cambiamenti registrati in Medio Oriente, dall’emergere di nuove opportunità sul fronte economico e dalle manovre degli Stati Uniti in Afghanistan e per contrastare la crescita cinese. I relativi effetti, però, il Pakistan dovrà mostrare di saperli gestire con estrema cautela, alla luce sia della posizione strategica cruciale che continua a ricoprire nello scacchiere dell’Asia centrale sia, proprio per questa ragione, dell’esposizione alle consuete manovre delle potenze globali e regionali.


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