di Michele Paris

La classe dirigente del pianeta si appresta da mercoledì a partecipare al consueto Forum Economico Mondiale di Davos in un clima internazionale mai così cupo e minaccioso dalla presunta fine della crisi globale del 2008. Ad anticipare l’arrivo delle élite politiche ed economiche nell’esclusiva località alpina svizzera è stata come al solito la pubblicazione del rapporto Oxfam sulle disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, giunte ormai a livelli più che insostenibili.

Secondo lo studio della no-profit britannica, appena 62 individui, dei quali molti presenti a Davos, nel 2015 sono giunti a detenere ricchezze pari a quelle che è costretta a spartirsi metà della popolazione terrestre, ovvero più di 3,5 miliardi di persone. Questo livello di ricchezza era concentrato nelle mani di 338 persone soltanto cinque anni fa.

La barzelletta dell’impegno dei potenti riuniti in Svizzera per mettere un freno alle disparità economiche mondiali - ripetuta costantemente alla vigilia del summit - è smascherata appunto dal fatto che la polarizzazione delle ricchezze è aumentata in maniera rapida negli ultimi anni. Ad esempio, la ricchezza a disposizione dei 62 uomini o donne più ricchi del pianeta è salita del 44% dal 2010, mentre quella nelle mani della metà più povera del pianeta è crollata del 41%.

Le caratteristiche tutt’altro che inevitabili di questi processi sono confermate, tra l’altro, da uno studio dell’università di Berkeley citato da Oxfam, secondo il quale singoli e aziende custodiscono 7.600 miliardi di dollari in paradisi fiscali “offshore”. Anche ammettendo la legittimità di queste ricchezze, la sottrazione di esse ai rispettivi sistemi fiscali priva ogni anno i vari governi di qualcosa come 190 miliardi di dollari di entrate e, quindi, di risorse teoricamente indirizzabili verso programmi sociali di vitale importanza.

Da questo scenario, prodotto direttamente dalla crisi del capitalismo globale, derivano una serie di questioni e di crisi che saranno con ogni probabilità al centro degli incontri di Davos, al di là dell’argomento ufficiale del vertice, ovvero la “Quarta Rivoluzione Industriale”.

Dagli effetti del rallentamento della crescita dell’economia cinese alla disoccupazione, dal crollo del prezzo delle risorse energetiche al rischio esplosione di una nuova bolla finanziaria, dall’aumento delle tensioni sociali al moltiplicarsi delle agitazioni dei lavoratori in tutto il mondo, i motivi per tenere in apprensione i convenuti nel “resort” elvetico sono molteplici.

I fattori che hanno permesso a pochi individui di arricchirsi ed entrare oppure guadagnare posizioni nel club dei miliardari a partire dal 2008 sono in definitiva gli stessi che hanno determinato la mancata ripresa dell’economia reale o, per meglio dire, che hanno gettato le fondamenta per l’esplosione di una nuova crisi globale.

Ciò a cui si è assistito è stata piuttosto una continua concentrazione delle ricchezze verso il vertice della piramide sociale, oltretutto a un ritmo più sostenuto del previsto. La stessa Oxfam dodici mesi fa si aspettava che l’1% della popolazione mondiale giungesse a controllare ricchezze maggiori del rimanente 99% solo nel 2016, mentre ciò è accaduto già nel corso dell’anno da poco concluso.

Un trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto, quello che continua a essere registrato, che è inestricabilmente legato alle politiche messe in atto dai governi di tutto il mondo, fatte di austerity, smantellamento dei diritti dei lavoratori e implementazione di misure da stato di polizia per il controllo e la repressione del dissenso.

L’altra faccia della stessa medaglia che ha favorito questa evoluzione è rappresentata dalle iniziative delle grandi aziende, restie a investire ma impegnate a tagliare costi e personale, progettare fusioni e acquisizioni, riacquistare proprie azioni ed erogare dividendi agli azionisti. Il tutto con il sostegno delle politiche delle banche centrali che hanno messo a disposizione o, nel caso dell’Europa, continuano a mettere a disposizione quantità infinite di denaro virtualmente senza alcun costo.

I fatti di questi ultimi sette anni hanno aperto gli occhi a centinaia di milioni di persone in tutto il mondo circa i meccanismi e le regole del capitalismo internazionale e delle “democrazie” liberali. Per questa ragione, le illusorie esortazioni di organizzazioni come Oxfam, indirizzate ai leader politici e del business globale per adoperarsi a inveritre la rotta in merito alle disuguaglianze, suonano del tutto vuote, se non come una vera e propria beffa, dal momento che sono precisamente questi ultimi i responsabili di quanto viene denunciato.

In una dichiarazione che ha accompagnato il già citato rapporto, il direttore esecutivo di Oxfam, Winnie Byanima, ha affermato assurdamente che “le preoccupazioni dei leader mondiali per le crescenti disuguaglianze non si sono per ora tradotte in azioni concrete”.

Tralasciando qualsiasi considerazione sul grado di auto-illusione delle parole della numero uno di Oxfam, azioni concrete in questo senso non sono giunte proprio perché le “preoccupazioni” dei governi un po’ ovunque sono in realtà diametralmente opposte. Iniziative più che efficaci sono state in realtà messe in atto, ma per un obiettivo contrario, ovvero la salvaguardia dei livelli di profitto degli strati più ricchi della popolazione.

La ragione dell’esplosione delle disuguaglianze e del peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, secondo le classi dirigenti di tutto il mondo, sarebbe da collegare principalmente, come suggerisce lo stesso argomento scelto per il forum di Davos di quest’anno, ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel nuovo secolo.

A spiegare questa interpretazione artificiosa è stato settimana scorsa anche il presidente americano Obama nel corso del suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione a Washington. Obama ha definito questi cambiamenti come portatori di “opportunità” ma anche la causa dell’aumento delle disuguaglianze.

Come se fossimo davanti a un fenomeno impersonale e inarrestabile, il presidente USA ha poi ricordato che le “aziende, in un’economia globalizzata, devono far fronte a una concorrenza spietata e possono delocalizzare ovunque”, così che “i lavoratori hanno meno potere” per far valere i propri diritti e negoziare adeguamenti di stipendio. Le aziende, allora, “sono meno vincolate alle comunità” in cui operano e, in definitiva, l’intero processo fa sì che “sempre maggiore ricchezza e redditi siano concentrati verso l’alto”.

Ben lontana dall’essere una dinamica di questo genere, la concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi e l’impoverimento di massa di centinaia di milioni (se non miliardi) di persone è la conseguenza di politiche deliberate e del funzionamento di un sistema economico in stato di avanzato deterioramento, in grado soltanto di produrre devastazione sociale, crisi internazionali e conflitti rovinosi.

Di fronte a problematiche di questa portata, la funzione di summit come quello al via da mercoledì a Davos sembra essere dunque quella di consentire ai governi e ai miliardari che li controllano di preparare risposte - improntate rigorosamente a politiche di classe - alla nuova imminente crisi del sistema, in modo da farla gravare ancora una volta sulle spalle di coloro che ne hanno pagato il prezzo più caro in questi ultimi durissimi anni.

di Mario Lombardo

Il previsto esito delle elezioni presidenziali e parlamentari di sabato scorso a Taiwan rischia di introdurre un nuovo elemento generatore di tensioni in un continente asiatico già segnato dalle conseguenze destabilizzanti del riallineamento strategico operato dagli Stati Uniti. Anche se il successo del Partito Democratico Progressista (DPP) di opposizione, tradizionalmente più freddo nei confronti di Pechino rispetto ai rivali del Kuomintang (KMT), non comporterà mosse clamorose nel prossimo futuro, come una possibile dichiarazione formale di indipendenza dalla Cina, il processo di integrazione di Taiwan con la madrepatria potrebbe infatti subire una battuta d’arresto e invertire la tendenza che ha segnato questi ultimi otto anni.

Le previsioni che indicavano un cambio della guardia alla guida dell’isola non sono state dunque smentite alla chisura delle urne. La candidata del DPP, Tsai Ing-wen, è stata eletta presidente con il 56% dei consensi, contro appena il 31% raccolto da Eric Chu del KMT. Quattro anni fa, Tsai era stata battuta di misura dal presidente uscente, Ma Ying-jeou, impossibilitato a ricandidarsi quest’anno dopo avere esaurito il massimo di due mandati previsti dalla legge.

Il DPP ha anche ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento unicamerale di Taiwan (68 su 113), sottratto al controllo del KMT per la prima volta dal 1949. L’ormai ex partito di maggioranza ha ottenuto solo 36 seggi, mentre quelli rimanenti sono andati a partiti minori e a candidati indipendenti.

La campagna elettorale che ha preceduto il voto dello scorso fine settimana aveva avuto al centro dell’attenzione la situazione economica di Taiwan, visto il peggioramento dello scenario in seguito alla contrazione registrata nell’ultimo trimestre del 2015 e a una crescita di appena l’1% su base annua. Parallelamente, il rallentamento dell’economia cinese e le difficoltà dell’economia mondiale hanno pesato in maniera decisiva sull’export taiwanese, crollato di oltre il 10% nel 2015.

Tutto ciò ha influito in maniera decisiva sulle fortune del KMT, visto soprattutto che il presidente uscente aveva promesso livelli di crescita sostenuta grazie alla distensione e al rafforzamento dei legami economici con Pechino. A partire dal 2008, Ma Ying-jeou e il suo governo avevano siglato una serie di accordi commerciali e di investimento con la Cina, generando di conseguenza un clima di distensione come mai si era visto in passato. Lo scorso novembre a Singapore, Ma e il presidente cinese, Xi Jinping, erano stati anche i primi leader di Taiwan e Repubblica Popolare Cinese a incontrarsi di persona dal 1949.

Al di là dei recenti affanni dell’economia cinese che hanno avuto effetti negativi su Taiwan, gli ostacoli alla politica del KMT erano già apparsi evidenti nel 2014 con la nascita di un movimento studentesco di protesta (“Movimento dei Girasoli”) che contestava un nuovo accordo commerciale con Pechino relativo al settore dei servizi.

La mobilitazione aveva avuto il proprio culmine nell’occupazione del parlamento di Taipei per impedire la ratifica dell’accordo e rifletteva sostanzialmente le posizioni degli interessi economici taiwanesi preoccupati per le conseguenze della concorrenza cinese sull’isola. A queste sezioni del business indigeno fa riferimento anche il DPP della neo-presidente Tsai, la quale è riuscita inoltre a raccogliere il consenso degli elettori più colpiti dal rallentamento dell’economia con una serie di proposte di stampo populista.

Nella serata di sabato, comunque, Tsai si è affrettata ad assicurare che la sua amministrazione non intende provocare alcuna scossa sul fronte delle relazioni con Pechino, da dove sono subito giunti “inviti” al DPP a evitare anche solo la retorica dell’indipendentismo. In un intervento televisivo in campagna elettorale, inoltre, la candidata alla presidenza per l’opposizione aveva assicurato che, una volta eletta, non avrebbe “messo in atto provocazioni” o preso iniziative “a sorpresa”. Allo stesso tempo, la neo-presidente ha però ribadito la necessità del rispetto della “identità nazionale” e dello “spazio internazionale” di Taiwan per non “compromettere la stabilità delle relazioni” bilaterali.

Le questioni economiche di Taiwan sono d’altra parte intrecciate a quella dei rapporti con la Cina e, secondo gli osservatori, la sfida del DPP nei prossimi quattro anni consisterà principalmente nel riuscire a mantenere le promesse di crescita soddisfacendo le aspettative dei propri sostenitori che chiedono politiche più autonome da Pechino rispetto a quelle perseguite dal Kuomintang.

La differenza principale tra il KMT e il DPP, e che potrebbe generare tensioni in prospettiva futura, risiede nel fatto che quest’ultimo partito – di orientamento indipendentista – non condivide l’intesa informale con Pechino sul principio di “una sola Cina”, sia pure interpretato in maniera differente dalle due parti.

La leadership cinese vede cioè Taiwan come una provincia che deve tornare prima o poi sotto il proprio controllo, anche se all’interno di un sistema che prevede una più o meno ampia autonomia, mentre il KMT si considera il governo legittimo di tutta la Cina fin dalla fuga sull’isola del governo nazionalista di Chang Kai-shek nel 1949 dopo la sconfitta nella guerra civile.

Da Pechino le preoccupazioni per l’avvicendamento alla guida di Taiwan sono già emerse in maniera abbastanza chiara. L’atteggiamento tenuto finora sembra però essere di pragmatismo e di attesa, almeno fino a quando il nuovo presidente formulerà con chiarezza la posizione del prossimo governo sulla questione dei rapporti con la Cina.

La leadership “comunista”, se pure non si aspetta dichiarazioni di indipendenza o altri gesti plateali da parte della nuova amministrazione a Taipei, è ben consapevole che anche solo una parziale deviazione dalle politiche del KMT potrebbe ulteriormente aggravare le tensioni in Asia orientale.

Ad esempio, Tsai Ing-wen ha più di una volta manifestato il desiderio di fare aderire Taiwan alla cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), il mega-trattato di libero scambio sui generis promosso dagli Stati Uniti per cercare di limitare l’influenza economica della Cina sulle due sponde dell’oceano Pacifico.

Più in generale, gli interessi a cui fa riferimento il DPP auspicano politiche più autonome che consentano al business locale di superare gli ostacoli rappresentati dal mancato riconoscimento internazionale di Taiwan da parte delle principali potenze del pianeta. Qualsiasi mossa in questo senso rischierebbe però di provocare durissime reazioni da parte di Pechino.

L’elezione del nuovo presidente a Taipei si inserisce così inevitabilmente nel quadro delle manovre americane per contenere Pechino, fatte di iniziative economiche, diplomatiche e militari per intensificare i legami con vari paesi dell’Estremo Oriente. Washington ha già intrapreso una serie di azioni provocatorie nei confronti della Cina, alimentando lo scontro tra la seconda economia del pianeta e alcuni suoi vicini, in particolare attorno a rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale fino a poco tempo fa di secondaria importanza.

Anche solo un eventuale accenno di interesse per un allineamento strategico agli USA da parte della nuova leadership taiwanese potrebbe quindi infiammare in maniera pericolosa lo scontro tra Washington e Pechino.

Gli Stati Uniti, almeno ufficialmente, non sembrano peraltro interessati al momento ad aggiungere un altro motivo di tensioni nei rapporti con la Cina. La reazione al voto di sabato da Washington è stata infatti piuttosto cauta e ha evidenziato soprattutto la necessità di salvaguardare la stabilità raggiunta negli ultimi otto anni con i governi del KMT.

Gli USA, tuttavia, intendono continuare a mantenere le relazioni con Taiwan a un livello tale da potere utilizzare l’isola come strumento per esercitare pressioni su Pechino, come conferma la recente decisione dell’amministrazione Obama di dare il via libera alla vendita di armi all’isola per un valore di quasi due miliardi di dollari.

Anzi, prima e dopo il voto che ha riportato al potere una forza tendenzialmente anti-cinese a Taipei, all’interno della classe dirigente americana si sono già fatte sentire le voci dei tradizionali “falchi” che spingono per aprire un nuovo fronte nello scontro con la Cina, pur essendo perfettamente a conoscenza delle possibili gravi implicazioni di un’aperta provocazione su un tema così delicato per Pechino.

di Michele Paris

A poco più di due settimane dall’inizio delle elezioni primarie per la Casa Bianca negli Stati Uniti, anche la corsa all’interno del Partito Democratico sembra essere diventata nuovamente aperta nonostante lo status di favorita della ex first lady, Hillary Clinton. Il suo praticamente unico rivale per la nomination, il senatore “liberal” del Vermont, Bernie Sanders, secondo i più recenti sondaggi avrebbe ridotto sensibilmente il distacco in termini di voti complessivi, mentre sarebbe addirittura in vantaggio nei primi due stati chiamati a votare a partire dai primi giorni di febbraio.

I giornali americani hanno alzato il livello di attenzione sulla corsa in casa Democratica dopo la pubblicazione martedì di un’indagine commissionata da New York Times e CBS News. In essa si evince che, in un solo mese, su scala nazionale Sanders avrebbe portato da 20 a 7 punti percentuali il suo ritardo dall’ex segretario di Stato. Quest’ultima raccoglierebbe cioè il 48% dei consensi tra i potenziali elettori Democratici delle primarie, contro il 41% di Sanders.

Nei primi “caucuses” che tradizionalmente aprono la stagione elettorale delle presidenziali, quelli dell’Iowa, il senatore è accreditato attualmente del 49% delle preferenze e Hillary del 44%. Un altro istituto di ricerca considera inoltre Sanders nettamente avanti in New Hampshire, dove il distacco dalla Clinton sarebbe di 14 punti (53% a 39%).

Numericamente, la favorita Democratica potrebbe comunque recuperare rapidamente terreno in caso di sconfitta in due stati di piccole dimensioni, dove è in palio un numero minimo di delegati che sosterranno i candidati nella Convention della prossima estate. Tuttavia, una doppia clamorosa vittoria di Sanders in Iowa e New Hampshire rischierebbe di innescare un trend negativo per Hillary con un effetto domino che potrebbe influenzare le competizioni successive, al di là delle sue disponibilità finanziarie e dell’aggressività della campagna elettorale.

Nella squadra di Hillary Clinton, d’altra parte è ancora vivissimo il ricordo delle primarie del 2008, quando la vittoria a sorpresa di Obama in Iowa a inizio gennaio contribuì forse in maniera decisiva a indirizzare le sorti della competizione. Tanto più che, otto anni fa, l’allora senatrice di New York era anche riuscita a prevalere nelle primarie del New Hampshire.

I nuovi dati statistici diffusi nei giorni scorsi riportano così indietro di alcuni mesi le lancette dell’orologio della corsa tra i Democratici. Proprio quando Hillary sembrava essere riuscita a reggere l’urto dell’entusiasmo iniziale generato dall’agenda progressista di Sanders, i giochi si sono fatti nuovamente incerti.

Indubbiamente, questa dinamica, anche se con ogni probabilità non lascia intravedere scenari catastrofici per la Clinton, indica la persistenza di sentimenti ostili anche tra gli stessi elettori Democratici nei confronti della rappresentante di un clan politico che, se si esclude una parte dei media e dell’apparato di potere, rimane tra i più impopolari negli Stati Uniti.

L’equilibrio, in effetti, appare ancora più sorprendente se si considera il serbatoio di ricchi donatori di cui dispone Hillary, frutto dei legami, suoi e del suo consorte, con Wall Street e con i grandi interessi economici, fondamentali per la riuscita di qualsiasi campagna elettorale di alto livello negli Stati Uniti.

Partendo dal presupposto dell’inevitabilità della sua nomination, l’ex first lady aveva fino a poco tempo fa evitato il più possibile di farsi coinvolgere in scontri politici con Sanders, cercando di dare l’impressione di una sfida già decisa ancora prima di iniziare. Come ha commentato questa settimana il Wall Street Journal, però, ora Hillary “non può più permettersi questo lusso” e deve perciò sporcarsi le mani entrando senza indugi nel pieno della competizione, con tutti i rischi che ne derivano.

Nei giorni scorsi, così, la stessa candidata e il suo staff, tra cui la figlia Chelsea, sono stati protagonisti di una serie di offensive dirette contro alcune delle proposte di Bernie Sanders. Al centro degli attacchi c’è stata in particolare la di riforma del sistema sanitario USA avanzata da quest’ultimo, ovvero la creazione di un piano di copertura pubblico e universale (“single payer”), a differenza dell’attuale “Obamacare” basato in larga misura sulle assicurazioni private.

La polemica alimentata da Hillary ha però avuto un parziale effetto boomerang, visto che essa stessa nel 2008 aveva sostenuto un’idea pressoché identica per risolvere la crisi sanitaria in America. La sua squadra ha comunque chiarito che le critiche a Sanders non riguardano tanto il piano in sé quanto la scarsa chiarezza sul reperimento dei fondi per finanziare un sistema che richiederebbe risorse enormi.

Se la diatriba non sembra per ora avere avuto effetti particolarmente benefici per Hillary, l’accusa va in qualche modo al cuore dei problemi sollevati dalla candidatura di un uomo politico fino a pochi mesi fa non affiliato in maniera ufficiale a nessun partito e auto-definitosi “democratico-socialista”.

La sua campagna per la Casa Bianca è caratterizzata da una serie di proposte di stampo progressista - quanto meno per gli standard della politica di Washington - senza che venga però spiegato come, in caso di elezione, potranno essere implementate all’interno di un sistema e di un partito, come quello Democratico, interamente al servizio dei ricchi.

Ciò, a sua volta, dice molto sul ruolo di Bernie Sanders in questa tornata elettorale. La partecipazione alle primarie del senatore, le cui posizioni sono assimilabili alla tradizionale ala “liberal” del Partito Democratico, viene vista da molti come una necessaria valvola di sfogo per un elettorato spostato sempre più a sinistra a fronte di un panorama politico che procede in direzione diametralmente opposta.

La corsa di Sanders appare per certi versi simile a quella di un altro politico proveniente dal Vermont, l’ex governatore Howard Dean, il quale nel 2004 lanciò senza successo una sfida per la nomination Democratica alla “sinistra” dei favoriti: John Kerry e John Edwards. Il senso di candidature come quelle di Sanders e, prima ancora, di Dean, è in definitiva quello di costruire l’illusione che un partito “pro-business” possa ancora rappresentare la casa del progressismo, in modo da prevenire la creazione di movimenti alternativi e incanalare le tensioni sociali e il malcontento in una direzione innocua.

Ad ogni modo, Hillary Clinton ha poi chiesto agli elettori Democratici di considerare le scarse probabilità che Sanders avrebbe di battere un qualsiasi candidato Repubblicano in caso di successo nelle primarie. Ciò sarebbe dovuto alle sue posizioni troppo a “sinistra” in uno scenario nel quale, come predicano media, analisti e politici d’oltreoceano, è possibile conquistare la Casa Bianca solo conducendo una campagna elettorale dal “centro”.

Un’altra linea d’attacco Hillary l’ha individuata nell’ambito del controllo delle armi da fuoco, tema popolare tra i Democratici e tornato d’attualità dopo le recenti promesse del presidente Obama di adoperarsi in questo senso. La Clinton ha denunciato un voto qualche anno fa al Congresso da parte di Sanders a favore dell’immunità da eventuali denunce legali per i venditori di armi.

Sanders, da parte sua, ha replicato ricordando di avere sostenuto altre iniziative per la restrizione dei diritti dei possessori di armi e di essere stato più volte valutato negativamente dalla famigerata NRA (National Rifle Association), la principale lobby delle armi negli Stati Uniti.

Come spesso accade con Hillary Clinton, i suoi attacchi contro il rivale sono risultati in qualche modo artificiosi e fin troppo calcolati, tanto che in molti osservatori si chiedono se la nuova strategia adottata dal suo entourage negli ultimi giorni possa risultare utile.

A metterne in dubbio l’efficacia è stata tra l’altro la notizia diffusa dal team di Sanders sull’impennata di donazioni registrate a partire dagli attacchi della rivale Democratica. Un portavoce del senatore ha fatto sapere mercoledì che la sua campagna elettorale ha raccolto 1,4 milioni di dollari in soli due giorni grazie a ben 47 mila piccoli donatori.

Il nuovo denaro giunto nelle casse di Sanders potrebbe essere utilizzato, secondo il suo stratega Tad Devine, per acquistare e trasmettere spot elettorali in TV negli stati che terranno le primarie dopo i primi tre in calendario (Iowa, New Hampshire, Nevada), allargando potenzialmente l’appeal di un candidato che sembra essere riuscito almeno a poter guardare alla nomination non più come a un lontano miraggio.

di Michele Paris

L’imminente probabile implementazione dell’accordo internazionale sul programma nucleare dell’Iran sta incontrando una serie di ostacoli e imprevisti che indicano il permanere di forti resistenze, soprattutto negli Stati Uniti, al relativo riavvicinamento tra Washington e Teheran. Il più recente episodio dai contorni significativi in questo senso si è chiuso apparentemente mercoledì con la liberazione da parte dell’Iran di dieci marinai americani che il giorno prima erano a bordo di due navi finite nelle acque della Repubblica Islamica nel Golfo Persico.

Le due imbarcazioni stavano navigando dal Kuwait al Bahrain quando, secondo i vertici militari USA, almeno una di esse avrebbe avuto un guasto meccanico che l’ha fatta finire fuori rotta. A come anche la seconda nave sia entrata nelle acque territoriali iraniane non è stata data spiegazione.

Martedì, i media ufficiali negli Stati Uniti hanno riportato la vicenda dando ampio spazio ai tentativi dei militari e dell’amministrazione Obama di minimizzare l’incidente. Il New York Times, però, pur senza trarre conseguenze ha spiegato che “le acque attraversate dalle due navi sono in un luogo nel quale gli USA, l’Iran e molti paesi del Golfo [Persico] raccolgono spesso informazioni di intelligence”.

Le imbarcazioni sono state sequestrate dalla divisione navale delle Guardie della Rivoluzione (IRGC) e i membri dell’equipaggio messi in stato di fermo sull’isola di Farsi, dove sorge un’importante base militare iraniana.

Fonti del governo americano avevano subito assicurato che i propri uomini sarebbero stati liberati in tempi brevi e che i due paesi erano in costante contatto per risolvere la mini-crisi. Lo stesso segretario di Stato, John Kerry, avrebbe discusso telefonicamente della vicenda con il suo omologo, Mohammad Javad Zarif, il quale, secondo la stampa iraniana, ha a sua volta chiesto a Washington scuse formali.

Nella mattinata di mercoledì, alcuni siti di news hanno riportato dichiarazioni di esponenti dell’IRGC che lasciavano intendere possibili ritardi nella liberazione dei marinai americani. Alla fine, questi ultimi sono potuti invece tornare ai loro reparti, verosimilmente solo con qualche ora di ritardo rispetto a quanto ipotizzato dai media negli Stati Uniti.

La gestione della vicenda da parte iraniana suggerisce un possibile conflitto tra i vari centri di potere della Repubblica Islamica, tanto più che il comandante della marina dell’IRGC, ammiraglio Ali Fadavi, aveva sostenuto che la portaerei americana Truman, localizzata nel Golfo Persico, aveva “agito in maniera provocatoria e non professionale” dopo il sequestro delle due navi. Lo stesso comandante ha tuttavia alla fine confermato la versione del guasto tecnico per spiegare lo sconfinamento.

La possibile provocazione americana potrebbe in definitiva avere alimentato lo scontro interno all’Iran circa l’atteggiamento da tenere nei confronti degli USA, con le Guardie della Rivoluzione considerate su posizioni critiche verso l’intesa sul nucleare, negoziata dal governo del presidente, Hassan Rouhani.

Se delle eventuali spaccature interne alla Repubblica Ismanica se ne è avuto soltanto il presentimento, la questione appena risolta nel Golfo Persico ha invece messo ancora chiaramente in evidenza quelle che caratterizzano la classe dirigente americana. Già lo stesso sconfinamento non autorizzato nelle acque di un paese sovrano potrebbe indicare un’iniziativa non coordinata con un’amministrazione Obama pronta a iniziare il processo previsto dall’accordo sul nucleare sottoscritto a Vienna lo scorso mese di luglio.

Soprattutto, però, l’azione sostanzialmente legittima della marina iraniana ha innescato una valanga di reazioni isteriche, quanto insensate, della destra Repubblicana a Washington. Svariati candidati alla presidenza e i soliti “falchi” del Congresso hanno tuonato contro la Casa Bianca, mettendo in guardia Obama dal trattare la liberazione dei marinai, che avrebbe dovuto essere immediata e senza condizioni, o dall’esibire nuovamente debolezza di fronte all’Iran.

Praticamente nessun giornale “mainstream” americano ha fatto notare come, in presenza dell’ammissione della violazione delle acque territoriali iraniane da parte dei vertici militari USA, la responsabilità dell’accaduto è da attribuire interamente alla marina statunitense che, oltretutto, da tempo mantiene una presenza minacciosa al largo delle acque della Repubblica Islamica.

La destra Repubblicana rappresenta d’altra parte quelle sezioni dell’apparato di potere negli Stati Uniti che vedono con estrema diffidenza la distensione con l’Iran. Ogni passo in questo senso, secondo loro, rappresenta una deviazione inaccettabile dall’obiettivo di sottomettere Teheran senza condizioni alle necessità strategiche americane, anche per non mettere a repentaglio le relazioni con alleati già abbastanza irritati, come Arabia Saudita e Israele.

Proprio queste frange, riferibili alla galassia “neo-con”, sono dietro ad altre iniziative e dichiarazioni che hanno animato il fronte anti-Iraniano di Washington nell’ultimo periodo. Il tempismo di simili interventi è tale da coincidere con la delicata fase che dovrebbe segnare l’entrata in vigore dei termini dell’accordo sul nucleare.

Proprio a inizio settimana, ad esempio, l’Iran avrebbe pressoché ultimato la disattivazione del reattore installato nel controverso impianto nucleare di Arak, come previsto appunto dall’intesa. In precedenza, più di 11 tonnellate di uranio a basso arricchimento in possesso della Repubblica Islamica erano state inviate in Russia.

Se l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) certificherà, come dovrebbe fare già nei prossimi giorni, il rispetto da parte iraniana degli obblighi iniziali previsti dall’accordo, avrà inizio la fase dell’allentamento delle sanzioni economiche internazionali che gravano da anni su Teheran.

In molti, dagli Stati Uniti a Israele alle monarchie del Golfo Persico, intendono però cercare di sabotare l’accordo. Se a Tel Aviv i toni anti-iraniani sembrano essersi relativamente attenuati, quanto meno a livello pubblico, il regime saudita è nel pieno di una campagna provocatoria per far naufragare il processo di distensione, come ha dimostrato tra l’altro l’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr a inizio anno.

A Washington, invece, gli oppositori dell’amministrazione Obama sul fronte iraniano stanno provando ad attuare un nuovo pacchetto di sanzioni, nella speranza di provocare la reazione di Teheran e spingere la Repubblica Islamica ad abbandonare l’accordo.

Al Congresso, sia i Repubblicani sia una buona parte dei Democratici sono decisi a votare un pacchetto di misure punitive in risposta al recente test con missili balistici condotto dall’Iran. Deputati e senatori si sono inoltre lamentati con la Casa Bianca, colpevole a loro dire di voler ritardare o impedire del tutto l’adozione delle sanzioni per il timore di far saltare l’accordo sul nucleare.

In realtà, lo stesso dipartimento del Tesoro USA sembrava essere sul punto di mettere sulla lista nera altre compagnie e cittadini privati iraniani per i loro legami con il programma di missili balistici, ma il Dipartimento di Stato sarebbe in seguito intervenuto per eliminare ogni ostacolo all’entrata in vigore dell’accordo di Vienna. Quest’ultimo, in ogni caso, non fa alcun riferimento alla questione dei missili balistici dell’Iran.

Se, dunque, l’annosa disputa sul programma nucleare di Teheran appare sempre più vicina a imboccare l’inizio del percorso che dovrebbe teoricamente portare alla sua pacifica soluzione, gli ostacoli che restano sono ancora numerosi.

Inoltre, anche se l’amministrazione Obama e i suoi partner che hanno negoziato l’intesa a Vienna sembrano decisi a seguire per il momento la strada della diplomazia, il conseguente reintegro a tutti gli effetti dell’Iran nei meccanismi strategici ed economici internazionali non sarà privo di complicazioni, vista la persistente divergenza di interessi in Medio Oriente e su scala globale dei (quasi) ex rivali di Washington e Teheran.

di Michele Paris

I fatti accaduti nella notte dell’ultimo giorno dell’anno a Colonia stanno continuando ad alimentare in Germania un acceso dibattito politico che ha visto intervenire in maniera decisa una serie di forze interne alla classe dirigente tedesca, ben intenzionate a sfruttare gli eventi per una precisa agenda politica reazionaria.

Il dato principale relativo alla vicenda svoltasi poco prima della mezzanotte del 31 dicembre nella piazza tra la Stazione Centrale e la Cattedrale della città della Renania Settentrionale-Vestfalia sembra essere a tutt’oggi la scarsa chiarezza in merito a quanto è avvenuto. Ancora da spiegare, al di là di un tentativo di nascondere le responsabilità di coloro che avrebbero dovuto garantire l’ordine, è ad esempio la dichiarazione emessa dalla Polizia della città il primo giorno dell’anno, nella quale si sosteneva che i festeggiamenti erano stati condotti in un’atmosfera “generalmente pacifica”.

Solo in seguito hanno iniziato a emergere testimonianze di episodi di molestie sessuali di massa ai danni delle donne che si trovavano nella stazione e nella piazza. Com’è ormai ben noto, i responsabili sarebbero stati identificati come individui di origine araba, tra i quali figurava un numero più o meno significativo di possibili rifugiati giunti in Germania con le più recenti ondate migratorie.

La stessa Polizia di Colonia, dopo avere smentito la propria dichiarazione iniziale, ha parlato di aggressori dall’apparenza “araba o nord-africana”, anche se il 5 gennaio il sindaco di Colonia, la Cristiano-Democratica Henriette Reker, aveva assicurato che non vi erano prove del fatto che i responsabili erano rifugiati residenti in città.

Malgrado le presunte violenze e gli abusi non debbano essere sottovalutati o minimizzati e nonostante l’eventuale responsabilità di immigrati o cittadini tedeschi di origine araba o di fede islamica possa indicare un gesto non casuale, diretto contro i governi occidentali responsabili della loro stessa sorte, il quadro che ne è emerso agli occhi di decine di milioni di tedeschi ed europei è abbastanza chiaro. Ovvero, ciò che è successo a Colonia e minaccia la Germania sarebbe da collegare a un’orda di musulmani, spesso dipinti con tratti tra il barbaro e il disumano, che intende distruggere la democrazia e la civilità occidentali.

Soffocati da ipotesi di questo genere o poco meno estreme, i media tedeschi ed europei che hanno esplorato possibili alternative sono stati pochissimi. Der Spiegel, tra di essi, pur assecondando a tratti la campagna anti-immigrati in corso, ha provato a ricordare che, almeno inizialmente, la Polizia aveva considerato di indagare negli ambienti della piccola criminalità di Colonia. Secondo il magazine tedesco, le zone della città adicenti la Stazione Centrale sono interessate da tempo da furti commessi da individui, non di rado di origine nordafricana, che cercano di distrarre le loro vittime ostentando atteggiamenti festosi o fingendo molestie.

Qualcun’altro, inolte, ha fatto notare come siano tutt’altro che infrequenti le degenerazioni in episodi di piccola criminalità durante eventi di massa, soprattutto quando vi è un’abbondante circolazione di alcolici. Basti pensare, per rimanere in Germania, alle denunce che seguono solitamente la Oktoberfest di Monaco di Baviera, dove lo scorso anno quelle per molestie sessuali sono state una ventina.

In ogni caso, le segnalazioni giunte alla Polizia in relazione ai fatti della notte di Capodanno sono salite a più di 500, di cui meno della metà per presunte molestie sessuali. Le autorità avrebbero individuato più di trenta sospetti, inclusi molti rifugiati, ma al momento non sono stati segnalati arresti. Come ha rilevato un commento apparso martedì sul sito web della CNN, infine, è singolare che esistano pochi o nessun video e immagini dei fatti o che, in presenza di un assalto di massa alle donne nella piazza, gli uomini tedeschi presenti non siano intervenuti contro gli assalitori stranieri.

L’incertezza sui contorni dell’accaduto non ha comunque impedito alla stampa e ai politici di orchestrare una campagna che, nelle parole di molti giornali, avrebbe fatto degli eventi di Colonia “un punto di svolta” nel modo in cui i tedeschi si confrontano con la questione dell’immigrazione e dei rifugiati.

La presunta “svolta”, poi, sarebbe favorita dalle iniziative di varie pubblicazioni in Germania che, in questi giorni, sono tornate a far ricorso in maniera inquietante a stereotipi razziali di marca nazista, descrivendo i migranti di origine araba come una sorta di predatori pronti a insidiare le donne “nordiche”.

Secondo gli stessi media, tuttavia, l’attitudine della grande maggioranza della popolazione tedesca nei confronti di migranti e rifugiati è stata, almeno finora, decisamente positiva : di conseguenza, risulta evidente che, a parte gli ambienti più disorientati dell’estrema destra, non vi è, in Germania come altrove, alcun sostegno diffuso per una campagna dai toni razzisti come quella in atto.

Piuttosto, come quasi sempre accade, i sentimenti intolleranti e xenofobi vengono alimentati per scopi precisi dalla classe dirigente e dai media, impegnati a ingigantire e a distorcere i contorni di determinati eventi, anche se di essi non se ne conoscono ancora tutti i dettagli precisi.

Come minimo, il dibattito esploso in questo inizio di 2016 dopo il caos di Colonia, ha l’obiettivo di indebolire il sentimento di solidarietà mostrato dalla maggior parte dei tedeschi verso i migranti, mettendo al centro della discussione domande fuorvianti come quelle che ha proposto recentemente il già ricordato Der Spiegel, cioè se la Germania “è realmente certa di poter gestire l’afflusso di rifugiati” e se “ha il coraggio e il desiderio di diventare il paese europeo con il maggior numero di immigrati”.

All’interno delle stesse formazioni politiche di governo, d’altra parte, in molti ritengono troppo accomodanti le politiche relative ai migranti della cancelliera Merkel. Di questa agitazione e della volontà di utilizzare l’immaginaria minaccia degli immigrati per raffozare l’apparato della sicurezza dello Stato se ne è avuto prova proprio nei giorni scorsi.

Sabato, infatti, l’Unione Cristiano Democratica (CDU) ha emesso la cosiddetta “Dichiarazione di Mainz”, nella quale sono state elencate alcune proposte di misure repressive nei confronti di rifugiati e richiedenti asilo in Germania. Principalmente, la “Dichiarazione” del partito della Merkel chiede la privazione del diritto di asilo o l’espulsione per coloro che vengono condannati di un qualsiasi crimine. Attualmente, questi provvedimenti sono previsti soltanto in caso di condanne ad almeno due anni di carcere.

Martedì, il ministro della Giustizia, Heiko Maas, ha poi annunciato una prossima “riforma” delle norme sulle deportazioni degli immigrati, che potrebbero essere rese meno stringenti per chi si macchia di reati sessuali.

Maggiori poteri dovrebbero anche essere assegnati alle forze di Polizia, tra cui quello di condurre perquisizioni e controlli casuali sull’identità dei fermati a fini “preventivi”. Il numero degli stessi agenti operativi in Germania verrà poi aumentato considerevolmente nel prossimo futuro, così come saranno installate ulteriori videocamere attorno a stazioni ferroviarie e luoghi connessi al trasporto pubblico.

Sempre nella “Dichiarazione di Mainz” si prospettano altre misure che vanno nello stesso senso, come la privazione di quella tedesca per coloro che hanno doppia cittadinanza e fanno parte di milizie terroristiche all’estero, nonché la facilitazione dello scambio di informazioni sui cittadini tra le varie agenzie di intelligence del paese.

L’obiettivo finale della CDU e, presumibilmente, anche del governo è quello di “ridurre il numero di rifugiati”, come ha confermato la stessa Merkel nel fine settimana. Il Partito Social Democratico (SPD) si è detto favorevole in linea di principio ad alcune misure contro i rifugiati, mentre membri della stessa opposizione dei Verdi e de La Sinistra (Die Linke) hanno spesso rilasciato dichiarazioni che lasciano intendere il proprio sostegno quanto meno alle proposte relative all’allargamento delle competenze delle forze di sicurezza.

La retorica anti-immigrati finisce così inevitabilmente per favorire le frange dell’estrema destra, come ha mostrato in maniera chiara la manifestazione, avvenuta sabato scorso a Colonia, del movimento Pegida. La dimostrazione contro le politiche sull’immigrazione del governo è stata alla fine dispersa dalla Polizia dopo che i partecipanti avevano inneggiato ad Adolf Hitler e attaccato agenti e giornalisti con petardi e bottiglie.

Più in generale, la vera e propria mobilitazione contro gli immigrati e la minaccia del “terrorismo” islamista è collegata agli sforzi che da alcuni anni i vertici delle istituzioni tedesche, assieme a una parte di giornalisti e “intellettuali”, stanno mettendo in atto per superare le resistenze popolari allo svolgimento da parte della Germania di un ruolo più attivo nelle questioni internazionali.

Dopo l’astensione nel voto all’ONU del 2011 sulla Libia, Berlino ha cambiato rapidamente il proprio orientamento strategico, allineandosi in modo sostanziale all’alleato americano. La Germania ha così sostenuto il colpo di stato anti-russo in Ucraina, sia pure al prezzo di profonde divisioni interne in merito alle relazioni con Mosca, ha partecipato alle manovre NATO sempre in funzione anti-russa e ha inviato contingenti militari in Mali e in Siria.

Queste iniziative sono dettate dalle necessità del capitalismo tedesco di avere sempre maggiore accesso alle risorse energetiche e ai mercati internazionali in un clima di crescente competizione su scala globale. Il rivolgimento della propria attenzione oltre i confini nazionali da parte della classe dirigente della Germania, come conferma tristemente la storia del XX secolo, minaccia però di accompagnarsi ancora una volta all’incoraggiamento di biechi sentimenti razzisti e alla creazione di un regime di stampo sempre più autoritario.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy